Primordi è un rubrica aperiodica, curata da Mattia Grigolo.
Ci piacciono degli esordi narrativi e ne scriviamo. Ma solo esordi.
Il come ho conosciuto Luca Tosi è abbastanza buffo. Oppure è solo un’introduzione.
Nel 2019 ricevevamo una mail: un racconto veniva proposto per essere pubblicato su Yanez.
Il suddetto, senza fare troppa costruzione, era di Luca. Era bello, anche se difettava in alcuni punti di una costruzione poco interpretabile. Questo per via della scrittura acida, isterica a volte, volutamente destrutturata. Ci avevamo lavorato un poco insieme via mail e poi era andato on line.
Non ci siamo realmente conosciuti in quell’occasione. Per me Luca non aveva un volto, un’età, una voce, se non quella narrante. Immaginavo un giovanotto emiliano (perché il racconto era ambientato in Romagna), ma nient’altro. Insomma, ci siamo conosciuti due anni dopo a Milano, in occasione della presentazione di una rivista, stretti in quella fase della pandemia in cui non era ancora chiaro se fossimo arrivati alla fine o ci fosse stata concessa una tregua. Alla mia domanda se fosse lui quel Luca Tosi, mi ha risposto: eh sì, infatti. Nient’altro. Abbiamo trovato un volto, un’età, una posizione geografica precisa.
Siamo sempre rimasti in contatto. Ci sentiamo spesso. Ci siamo visti a Roma in occasione del Più Libri più Liberi e poi di nuovo a Milano per il Book Pride. Ci vedremo a Berlino in occasione della presentazione del libro, fra qualche giorno.
Tutto questo è per dire che, anche se le nostre vite si sono incrociate solo al termine della stesura di Ragazza senza Prefazione, già in pieno editing, ho avuto la fortuna di esserci, in qualche modo, in una delle parti più importanti della gestazione – se così si può chiamare – del suo primo libro. Forse la più importante, perché è quella più difficile: i dubbi e l’ansia, la paura degli ultimi istanti. Il non poter più tornare indietro. I rimpianti. Che è quando non puoi più fare niente, quando di tuo non ci puoi più aggiungere, se non in attese, ecco che arriva il momento del nero, dello sporco, quello vero. Dare alla luce. Una sorta di isterismo dettato dall’impotenza.
Io il mio l’ho fatto, ora non mi resta che guardare e aspettare. Sarò caricato sul carro dei vincitori o sarò messo alla gogna? Di questo si tratta, in fondo. Perché di soldi non se ne guadagnano, parliamoci chiaro. Si perde energia e tempo – tanto tempo, spesso dettato in anni – si perde denaro anche, davvero, in qualche buffo modo. Mai come in questo caso funziona la logica del: lo faccio per la gloria.
C’è qualcos’altro: è il tuo libro di esordio. È come ti presenti in un mondo dove nessuno ancora ti conosce, nessuno sa chi sei. E tu ci tieni tanto, non ci dormi la notte domandandoti se quella cosa, il tuo prodotto, il tuo amore diventato odio e ossessione, ti chiedi se piacerà alla gente. A chi? Alla gente. Non agli amici, ai familiari, agli intimi. A tutti, nessuno escluso. Vuoi che piaccia a tutti, anche se sai che questo è impossibile.
Oddio, dove sono andato a finire?
Insomma, il libro di Luca Tosi è in vendita dal 24 marzo, edito dai quei fortissimi di Terrarossa Edizioni. È fuori, è arrivato dove doveva.
Il giorno dell’uscita mi ha mandato un messaggio vocale che mi ha fatto comprendere la ‘nevrastenia’ che incuba nelle attese, come una febbre: “Comunque oggi l’ho sentita eh, oggi la giornata è stata emotivamente provante. Non so perché, ma a Milano meno. Fino ad adesso c’era l’attesa. Oggi, invece, c’è stato anche un momento di commozione. Ho ricevuto un casino di messaggi, di riscontri, di proposte di presentazioni, cazzi vari. Molto bello, molto bello.”
Non me ne vogliate se sono partito da lontano, ma ci tenevo a partire da chi scrive, provare a farlo vedere come lo vedo io. Non è possibile, è chiaro, ma passare dall’autore prima di arrivare al libro. Potevo farlo dopo aver parlato del romanzo, ma immagino non sarebbe stata la stessa cosa. Perché questa è la prima puntata di una rubrica di esordi e solo per esordientə. Coloro che saltano nell’ignoto delle aspettative.
E del libro parlo. Adesso.
Discutendo con un altro amico, Enrico Prevedello, anche lui esordiente nello stesso periodo di Luca, abbiamo convenuto che non siamo riusciti a scindere la voce dell’autore dalla voce narrante. Potrebbe essere una pecca, certamente naturale, visto che conosciamo personalmente chi ha scritto, semplicemente un dato di fatto che porta poi a non avere un quadro abbastanza limpido della rotondità del romanzo. Ci ho pensato a lungo prima di mettermi a scrivere qui sopra e, a conti fatti, ho pensato che non è per niente un male, ma nemmeno lontanamente. Perché la voce narrante che usa Luca, anche se sicuramente molto vicina alla sua – se non la sua in tutto e per tutto – è ciò che caratterizza la perfezione della trama. È uno dei punti di forza del suo lavoro. Con il senno di poi, rivedo la stessa cifra, sicuramente più acerba, nel racconto che pubblicammo su Yanez nel 2019.
La lingua e la provincia, quindi. La lingua di provincia. È un tempo questo, un’era strana, che sembra essersi riavvolta su se stessa. Un certo tipo di narrativa italiana è tornata alle origini delle origini, perdonate la licenza, appoggiandosi al dialetto provinciale e abbandonando strutture più classiche, laddove per classico è obbligatorio l’utilizzo corretto dell’italiano, al massimo sperimentando la logica della grammatica. Cito Donaera e Graziano Gala, per non fare un pistolotto di nomi, in qualche modo la Fingerle – anche se per quest’ultima si tratta di un lavoro sicuramente diverso, nuovo e non perfettamente paragonabile -.
E così anche Luca Tosi, che sono sicuro sia da sempre ancorato, senza ombra di dubbio molto interessato, a un certo tipo di ricerca linguistica, esordisce nel racconto da provincia, come piace definirlo a me. Lui lo fa senza rimarcare, ma solo accennando, giocando molto, lasciando intendere e trasformando la sua voce narrante senza però sovrastrutturarla. Ecco.
Marcello, il personaggio principale di Ragazza senza Prefazione, è una caricatura di Luca, un suo alter ego imbranato, sensibile alle vibrazioni della vita, intelligente e costantemente in balia delle onde che si creano nel tentativo di scuotere il bicchiere mezzo vuoto. In costante ricerca di una scusa che lo faccia sentire al sicuro rispetto a ciò che dovrebbe fare, ma che non si decide ad affrontare. Un indeciso, latentemente cinico – basti leggere l’incipit del romanzo – ma anche sentimentale, del sentimentalismo di chi la provincia la conosce, l’ha vissuta.
Eccola qui, allora, la provincia, quel luogo ispirante non solo gergalmente. La provincia del tutto identico, il luogo senza tempo, una culla, una strada senza passaggi intermedi, ove gli sbocchi sono nascosti da palazzine a tre piani, villette a schiera, campi (da calcio), canneti, relazioni umane diverse dal grande centro, laddove per grande centro si intende mondo. Perché la provincia, romanzando, non ha niente a che fare con il mondo. La provincia è il mondo di se stessa.
E Marcello se la vive così, la vita che non è vita o forse è la più vita di tutte, per qualcuno: da provinciale. Con tutti i suoi ghirigori preimpostati: la stabilità che non si trova, ma che si vorrebbe tanto, che si agogna. La famiglia intesa come nucleo perfetto, plasmato nelle tavole magiche, incorruttibile. E l’amore, che è quello lì e non ce ne sono altri, perchè non ce ne possono essere.
La storia è semplice, senza troppi ricami narrativi, se non quello, riuscitissimo, di farla viaggiare su due piani temporali: Marcello passeggia tra le strade di Santarcangelo di Romagna. Mentre cammina pensa a se stesso, nell’immutabile stazionarietà dello zaino di pensieri che si porta sulle spalle, mentre percorre la salita di Via Cupa senza lasciarsi dietro niente. Come se non se la sentisse veramente di liberarsi del peso, ragiona e scaccia, ma con poca convinzione, i tasselli smontati del suo essere, di ciò che lo circonda ed etichetta, pinza a uno stereotipo fin troppo chiaro. La casa, i genitori, gli amici di sempre, e Lei, che non ha un nome, ma ha la L maiuscola. Pensa a questa ragazza che “Però, c’è una cosa a volte nei libri che le ragazze non hanno, Lei di sicuro non ce l’aveva: la prefazione. Quelle frasi che ti avvisano di un po’ di cose in anticipo, così scegli se andare avanti a leggere, o cambiare libro.” Eccolo, il secondo piano temporale. È attraverso il ricordo ruvido, immacolato seppur sporcato dal tempo – che non è troppo, duecento giorni, ma non è nemmeno adesso – che Marcello riempie le pagine di una speranza inverosimile, limitata e limitante. Appiccicata a convinzioni sbilenche, al messaggio sfocato di un amore non corrisposto, da non credersi che possa andare così per davvero.
Ho letto da qualche parte che il romanzo disegna il ritratto, seppur parziale, di una generazione. È vero, ma credo di averci visto di più, forse tra le pieghe di quell’ironia amara, su cui tornerò, forse proprio nell’accento marcato ma delicato, della voce narrante. Credo che queste siano le due cose che ho apprezzato di più e per le quali mi sono convinto a consigliare il libro in questa nuova rubrica. Anche perché Luca è un amico, è chiaro dai, non mi nascondo mica. Ci tengo, non è una colpa. Perché, a conti fatti, quella di Ragazza senza Prefazione, non è una storia a cui si resta incollati perché vuoi sapere come va a finire. È piuttosto un meraviglioso gioco di specchi, costruito talmente bene da sbatterci muso contro muso e poi riderci sopra. Amaramente, come dicevo.
È una storia divertente, che fa sorridere, io ho riso da solo sull’aereo, mentre lo leggevo. Marcello è simpatico, è uno di noi, ho pensato, accompagnandolo nella sua passeggiata appena qualche metro dietro, aggrappato ai suoi pensieri, dentro lo zaino con loro.
C’è dell’altro, una cicatrice che viene sfiorata, solleticata attraverso la scrittura diretta, velocissima, affilata. Provate a passare una cicatrice con una lama, ma senza premere. È come se, a veder bene, Ragazza senza Prefazione non è altro che una confessione di rinuncia, seppur si sforzi di raccontare tutt’altra storia, è come rivedersi negli occhi di chi aspetta qualcosa senza mettercisi molto d’impegno, anche se quella cosa è la tua cosa. Perché, in verità, non sa come deve farlo, non ne è capace. Ci prova senza provarci. Lo dice Marcello: “All’inizio ero stato intraprendente, c’avevo messo del coraggio, la volevo. Mi sembrava su misura per me, come ragazza. Però non ho tenuto botta, mi è mancata la misura, ecco. Il coraggio, man mano l’ho perso, e son venuto meno, lì lì che ce la stavo per fare”. Questo è amaro, forse ancora più amaro della tragedia, della drammaticità di certe costruzioni narrative. E allora qui torno alla prima parte di questa recensione, facendo un volo pindarico incredibile e improprio, lo so. Torno allora da Luca, al vocale in cui si emoziona e con voce piena di orgoglio, ma anche pacata, come se non ci credesse nemmeno lui, mi dice che è riuscito ad arrivare dove Marcello non ha potuto.
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