Da un’idea di Paola Moretti
Illustrato da Lorenzo Farris
Il migliore amico dello scrittore non è il cane, non è il gatto: è lo scarafaggio. È questo animale che più di altri popola un numero sorprendente di storie e non per forza dell’orrore. Oppure invece la spiegazione è molto semplice, persino banale, chi non ha subito almeno un’infestazione? Gli scarafaggi repellono nel loro essere insetti notturni, corazzati e guizzanti; gli scarafaggi attraggono nel loro essere sempiterni, scaltri e sfuggenti. Un collage letterario di stralci a tema blattoideo: Clarice Lispector, Dino Buzzati, Fleur Jaeggy, Patricia Highsmith, Lydia Davis e naturalmente Franz Kafka, remixati in un unico testo.
La cosa che mi aveva sempre ripugnato negli scarafaggi è proprio quel loro essere obsoleti e tuttavia attuali. Sapere che erano già sulla terra, e identici a oggi, prima ancora che fossero apparsi i dinosauri, sapere che il primo uomo comparso li aveva già trovati proliferanti e a strascicarsi vivi, sapere che erano stati testimoni della formazione dei grandi giacimenti di petrolio e di carbone nel mondo, e che erano là durante il lungo avanzamento e dopo, durante il lento ritiro dei ghiacciai —quella pacifica resistenza! Io sapevo che gli scarafaggi resistevano per più di un mese senza cibo e acqua. E che perfino del legno facevano proficua sostanza nutritiva. E che, anche dopo essere stati schiacciati, riacquistavano gradualmente la loro forma e seguitavano ad avanzare. Anche congelati, nell’atto di sgelarsi riprendevano la loro marcia…Da trecentocinquanta milioni di anni si ripetevano senza mutazioni biologiche. Quando il mondo era quasi del tutto spoglio, indifferenti, lo ricoprivano già.
Avevo appena ritirato le lenzuola dallo stendino, le avevo piegate in modo approssimativo, quando aprii l’anta dell’armadio per riporle al loro posto. È stato allora che lo scarafaggio ha cominciato a emergere dal fondo. Prima il tremito che annunciava le antenne. Quindi, dietro quei fili secchi, il corpo riluttante è apparso a poco a poco. Fino ad arrivare quasi del tutto alla bocca dell’armadio. Era bigio, era esitante come se il suo fosse un peso enorme. Come in un giuramento ho allora sollevato la mano e, in un sol colpo, ho richiuso l’anta sul corpo a metà fuoriuscito dello scarafaggio…Ma la domanda era: che cosa avevo ucciso?
Vidi sul pavimento la bestiolina spiaccicata muovere una zampina. Era quella destra di mezzo. Tutto il resto era immobile, una macchia di inchiostro lasciata cadere dalla morte. Ma la bestiolina remava flebilmente come per risalire qualche cosa, il fiume delle tenebre forse. Sperava ancora?
Era tutta fitta di ciglia. Le ciglia erano probabilmente altrettante zampe. I fili di antenna erano adesso fermi, filamenti asciutti e impolverati.
Lo scarafaggio non possiede naso. L’ho guardato, con quella sua bocca e quei suoi occhi: sembrava una mulatta in agonia. Eppure gli occhi erano radiosi e neri. Occhi da innamorato. Ogni occhio in sé sembrava uno scarafaggio. L’occhio adorno di frange, scuro, vivo e privo di polvere. E l’altro occhio, identico. Due scarafaggi incrostati nello scarafaggio, e ogni occhio riproduceva la scarafaggio intero. Nel tentativo di fuggire, sbilanciato dallo squarcio che gli apriva a metà la corazza, si era ribaltato. Giaceva sulla schiena dura e sollevando un poco il capo poteva vedere la sua pancia convessa, color marrone, suddivisa in grosse scaglie ricurve. Le sue numerose zampe, pietosamente esili se paragonate alle sue dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi.
La materia dello scarafaggio, ossia il suo dentro, la materia densa, bianchiccia, lenta, cresceva verso l’esterno come da un tubo di dentifricio. Davanti ai miei occhi nauseati e sedotti, la forma dello scarafaggio si andava lentamente modificando, a mano a mano che lui si ingrossava verso l’esterno. La materia bianca gli scaturiva lenta sopra il dorso, come un fardello.
Lo scarafaggio con la sua materia bianca mi guardava. Non so se mi vedeva, non so cosa vede uno scarafaggio. Eppure noi due ci guardavamo.
Fu in quel momento che realizzai: se ce ne era uno ce ne erano per forza altri.
Sono ipersensibile alle cose piccole che si muovono e mi lancio come un tornado contro un granellino di polvere fluttuante. Sono ipersensibile alle macchie scure su sfondo chiaro, ma quelle erano le rose sulla mia federa, caduta dallo stendino a terra.
Tornai in cucina a passo spedito, aprii gli sportelli, presi scatole di cereali, puree, riso, le scossi per sentire se producevano un rumore anomalo. Aprii il portapane di legno che tenevo sul bancone vicino ai fornelli. Dall’interno di una busta bianca di carta si sentì il rumore di un animaletto che grattava – un solo animaletto, credevo. Ma quando svuotai la busta un branco si sparpagliò dal cantuccio di pane di segale, con semi di segale sparsi sul ripiano della cucina, come uvetta.
I più giovani erano così svegli, così focosi, così reattivi.
Videro la mano abbattersi e corsero dall’altra parte. Nonostante tutto ammiravo un tale desiderio di vivere. Provavo un senso di rispetto verso canaglie tanto svelte, avversari tanto rapidi, ladri tanto intelligenti. Un animaletto grasso, non ancora del tutto cresciuto, cercava di scappare dalla mano che si abbassava. Si fermò di botto nel bel mezzo della sua corsa a testa bassa e tentò qualche altra mossa quasi simultaneamente, una macchinina dell’autoscontro che sobbalzava da ferma sullo scolapiatti bianco.
Il sole era tramontato, l’interno della casa si era tinto di quel violetto che precede il nero, gli scarafaggi erano più difficili da scovare, a meno che la schiena lucida non riflettesse il guizzo di qualche luce colta di sbieco. Mi aggiravo con cautela, cercando di fare poco rumore, temevo di trovarmeli scorrazzare improvvisamente tra i piedi, ma li volevo trovare. Tendevo l’orecchio, attenta ad ogni loro minimo tramestio. Presi una torcia dal cassetto del mobile all’ingresso, fu quando sentii come della ghiaia sdrucciolare dentro al muro. Con la punta della pantofola scostai il battiscopa che ricordavo divelto e lì, nella crepa, zampettando — lo seppi per certo — ebbero tutti l’immediata consapevolezza che c’ero io dietro il fascio di luce. Fu nel suo momento di esitazione che percepii la colonia — lo scarafaggio — come una creatura intelligente. Tra la sua pausa e il suo cambio di direzione, ne ero sicura, c’era un rapido pensare.
Accettai il fatto che per quella sera non avrei potuto vincere, loro prevalevano numericamente ed io a fine giornata ero stanca. Decisi di andare a dormire e passando davanti alla camera degli ospiti vidi l’anta ancora aperta, colsi di sfuggita un leggero fremito nero sul pavimento. Lo ignorai e raggiunsi il letto.
Faceva caldo e non riuscivo a dormire, vecchie storie rinascevano dentro di me, dubbi anche, generica sfiducia nel domani. Udii che qualcuno rimestava giù in cortile. Poi salì la voce di un cane, acuta e lunga; sembrava che si lamentasse. Salì in alto, passando davanti alla finestra, si perse nella notte calda. Poi si aprì una persiana. Lontano, lontanissimo, ma forse mi sbagliavo, un bambino si mise a piangere. Poi ancora l’ululato del cane, lungo più di prima. Non riuscivo a dormire. Delle voci maschili vennero da qualche altra finestra. Erano sommesse, come borbottate in dormiveglia. Cip, cip, zitevitt, udii da un balcone sotto, e qualche sbattimento d’ali. “Florio!” si udì chiamare all’improvviso, doveva essere due o tre case più in là. “Florio!” pareva una donna, angosciata, che avesse smarrito il figlio. Ma perché il canarino di sotto si era svegliato? Che cosa c’era? Con un cigolio lamentoso, quasi la spingesse adagio adagio uno che non voleva farsi sentire, una porta si aprì in qualche parte della casa. Quanta gente sveglia a quest’ora. C’è qualcosa, pensai: il cane urla, il canarino si è svegliato, gente è alzata e parla, come se tutti avessero sentito una cosa, una presenza. Il sonno che non mi veniva, e le stelle passavano. Udii distintamente in cortile il rumore di un fiammifero acceso. Perché uno si metteva a fumare a quell’ora di notte? Allora per sete mi alzai e uscii di camera a prendere acqua. Accesa la triste lampadina del corridoio, intravidi la macchia nera sulla piastrella e mi fermai, impaurita. Guardai: la macchia nera si muoveva ancora. O meglio se ne muoveva un pezzetto. Due ore e mezzo, pensai, continuamente su e giù, l’ultima porzione di vita spinta dentro la superstite gambina per invocare giustizia.
Per due ore e mezzo della notte — mi venne un brivido — l’immondo insetto appiccicato alla piastrella dalle sue stesse mucillagini viscerali, per due ore e mezzo aveva continuato a morire e non era finita ancora. Meravigliosamente continuava a morire, trasmettendo con l’ultima zampina un suo messaggio. Schiacciai con la pantofola l’insetto e fregando sul pavimento lo spappolai in una lunga striscia grigia.
Allora finalmente il cane tacque, le voci si spensero, tacque la madre, nessun sintomo più di irrequietezza del canarino, la notte ricominciava a passare sulla casa stanca, in altri punti del mondo la morte si era spostata a gonfiare la sua inquietudine.
Tornai a letto e finalmente presi sonno anche io.
Il giorno seguente uscii di mattina presto, diretta al supermercato a comprare i prodotti chimici necessari a sterminare la colonia. All’ingresso del palazzo campeggiava un annuncio con cui si esortava gli inquilini a togliere i cibi deperibili dalla cucina, aprire le porte e consegnare le chiavi, per i disinfestatori. Il foglio era ben visibile. Si leggeva: i prodotti usati per disinfestare la casa dagli scarafaggi non sono nocivi a alle persone né agli animali domestici. Pensai al canarino.
Sentii dei rumori provenire dalla tromba delle scale, scorsi tre uomini che salivano. Il terzo, riluttante, seguiva il secondo. Mi accorsi che sugli scalini c’erano una trentina di scarafaggi di ogni dimensione che salivano e scendevano. Il primo dei tre, che era qualche metro davanti agli altri, ebbe la forza di schiacciarne col piede un certo numero, imprecando ad alta voce: maledetti scarrafoni.
Se volete leggere gli scarafaggi nel loro habitat naturale:
Buzzati, Dino – in La boutique del mistero. Lo scarafaggio, Mondadori (1968)
Davis, Lydia – in Pezzo a pezzo. Scarafaggi in autunno, traduzione di Adelaide Cioni, Minimum Fax (2004)
Jaeggy, Fleur – in La paura del cielo. La casa gratuita, Adelphi (1994)
Kafka, Franz – in Tutti i racconti. La metamorfosi, traduzione di Rodolfo Paoli, Mondadori (1970)
Highsmith Patricia, – in Catastrofi più o meno naturali. Guai grossi alle Torri di Giada, traduzione di Rosetta Palazzi, Bompiani (1989)
Lispector, Clarice – in I Legami e le passioni. La passione secondo G.H., traduzione di Adelina Aletti, Feltrinelli (2013)
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Questo contenuto è stato illustrato da Lorenzo Farris, nato a Fiesole, una collina poco sopra Firenze. Disegna e scarabocchi da quando è nato, i suoi compagni preferiti sono matita, sketchbook e un tratto impulsivo e preciso. Adora il whiskey. Legge almeno tre libri in contemporanea, e ha una sua personale Biblioteca di Babele.
Vive a Berlino da un paio d’anni, ma potete trovarlo anche QUI, QUI e QUI
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