Il termine “lince” deriva da “lewk”, parola indo-europea che indica il luminoso, il chiaro.
La capacità di discernere tra le ombre della notte e dell’intelletto; la brillantezza degli occhi quando esposti alla luce. Se frughiamo tra le pieghe della storia, troviamo miti e leggende che si rincorrono e ci restituiscono l’immagine di un animale elusivo, ritenuto custode di misteri.
La subspecie alpina si è da tempo estinta. Ne ho avuto conferma in un pomeriggio di inizio settembre, quando a una fiera mi hanno messo tra le mani un opuscolo sui grandi carnivori delle Alpi. L’ho fissato, totalmente rapita dall’immagine della lince in copertina: magnetica, come sempre. Sfogliato, infilato in borsa, appoggiato sul tavolino del soggiorno, tra le altre riviste: lo volevo leggere con calma. Sapevo che mi stavo per imbattere nella storia di quello che negli anni è stato da molti considerato un animale totemico. Temevo il confronto con la realtà, sospettavo potesse mandare in frantumi l’immagine che crescendo mi ero costruita della lince, una presenza schiva e misteriosa. Così non è stato: mi sono ritrovata catapultata in un lungo viaggio.
Il 3 maggio del 1845 Giacomo Gasparotti, fu Gio. Antonio di Vezza, spara a un animale. A venire colpita è una bestia già rara, che scarseggia tra boschi e monti della Valle Camonica. Rimesso a tracolla il fucile, Giacomo va a recuperare la carcassa. Si tratta di una femmina di non più di quattro anni. Giacomo Gasparotti si sfrega le mani, pregustando già la ricompensa. Due giorni dopo viene redatta una denuncia dell’I.R. Commissario Distrettuale di Edolo, rivolta all’I.R. Delegazione Provinciale di Bergamo, sotto la cui amministrazione è posto all’epoca il territorio camuno. Il cacciatore sta battendo cassa, sostenendo di avere ucciso un esemplare di “Lupo Cerviero”, specie selvatica per il cui abbattimento nelle Alpi Occidentali è prevista una ricompensa in denaro. Invia la pelle dell’animale e chiede in cambio i suoi 25 fiorini. L’ente preposto esamina il tutto e risponde che no, per la lince non è prevista alcuna ricompensa. Il Gasparotti replica, ma la vicenda si perde, tra la polvere degli anni, uscendo dalla traccia dell’Archivio di Stato di Bergamo.
Ciò che però sappiamo è che nel luglio successivo, sempre del 1845, l’esemplare viene inviato a quello che diventerà poi il Liceo Classico Statale “Paolo Sarpi”, a Bergamo. Le scuole: templi del sapere, luoghi di studio ed erudizione, hanno spesso, nei secoli, ospitato gli animali più rari e stravaganti. La pelle della lince abbattuta da Gasparotti è stata, nel tempo, trattata con l’attenzione riservata alle collezioni museali (aspetto, questo, che costituisce riprova di una certa rarità) e posta su una sagoma, per resituirle parvenze prossime a quelle originali. Misure: 93cm dal naso alla base della coda (che è lunga 11,5cm), 48cm di altezza al garrese. Il vecchio catalogo del liceo, redatto nel 1870, riporta soltanto che si tratta di una femmina. E lì resta, in compagnia di un lupo dalla dubbia provenienza (probabilmente orobica), per interi decenni.
Questa storia è stata rispolverata da Aldo Oriani, appassionato delle vicende dei grandi carnivori delle Alpi, oltre cent’anni dopo. Oriani si è imbattuto nella lince di Vezza d’Oglio mentre era sulle tracce di un orso. È andato a trovarla a Bergamo e da lì è iniziata la trafila che nei primi anni Novanta del Novecento l’ha portata – sotto lo stato burocratico di “in comodato d’uso” – presso il Museo Civico di Storia Naturale di Milano, dove sono scesa a vederla. Ad oggi sono solo una ventina le linci alpine conservate nei musei. E questa è l’ultima lince attestata come abbattuta in Lombardia.
La sua subspecie non esiste più. È stata spazzata via dalle Alpi e anche dalla memoria. In meno di 50 anni, tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, la specie Lynx Lynx (di cui la subspecie alpina faceva parte) si estingue in gran parte dell’Europa Centrale. C’è chi dà la colpa all’uomo (cacciatore in competizione, talvolta, a torto, preoccupato che la lince potesse arrecare danni al bestiame), chi alle trasformazioni ambientali (si erano ridotti i boschi, quindi anche le prede), chi ad una combinazione tra le due concause. Sta di fatto che già dal Settecento sull’arco alpino la specie non era più molto comune. Scomparendo perfino dai pensieri della gente del posto, che per anni invece sarebbe rimasta impaurita dall’ombra di lupi ed orsi. Le pelli di lince erano sì inventariate nelle doti delle donne di rango, ma al contrario degli altri grandi carnivori alpini, la lince veniva solo raramente citata negli Statuti locali (eccezion fatta per le comunità di Bormio, di Scalve, di Leventina, di Mesolcina e di Bregaglia, dove se ne premiava appunto l’abbattimento). Nelle Alpi lombarde l’estinzione pare essersi verificata grosso modo tra il 1870 ed il 1880, in seguito ad un ultimo baluardo di resistenza nelle valli piemontesi ed aostane. Fino agli anni Trenta del Novecento: poi sparisce tutto.
Da camuna appassionata di linci, sapere che l’ultima lombarda è stata uccisa proprio in Valle Camonica è stata per me una fucilata nelle orecchie, il cui rinculo mi ha portata appunto al museo di Milano, direttamente nell’ufficio del Prof. Bardelli. Giorgio mi chiede di dargli del tu dopo avermi raccontato di avere anche lui origini camune e mi mette sotto il naso una serie di studi e di libri e di carte d’archivio. Parliamo per oltre un’ora alla sua scrivania: il registratore acceso, le mie orecchie che progressivamente si allungano mentre faccio un altro passo dentro questa storia sconosciuta. Le orecchie appuntite della lince sono una delle prerogative della specie: sull’apice, esse presentano dei peli ritti e scuri, chiamati “pennelli auricolari”. La coda invece è cortissima, più corta del piede posteriore. Le zampe sono grosse, gli arti poderosi. L’assenza del primo premolare rispetto agli altri felidi è un’altra delle principali peculiarità. Ah e poi ha le basette: frange sulle guance e favoriti. Impossibile scambiarla per un gatto.
Di nomi, nei secoli, ne ha avuti molti, alcuni dei quali fanno l’occhiolino a quei quattro scaffali di letteratura che mi tengo salvati in memoria. Gatto-Lupo, Gattopardo, Lonza, Lupo Cerviero. Che la si scambiasse per un lupo, mi spiega Bardelli, non è cosa tanto anomala: “La nomenclatura degli animali del passato è un po’ strana per noi oggi…a guardarla con la prospettiva delle conoscenze attuali fa anche un po’ ridere!” Stranezza che si accompagna al fatto che la lince abbia lasciato pressoché pochissime tracce nella cultura lombarda, al punto da non venire ricordata né nella toponomastica, né nell’araldica locali.
Bardelli mi accompagna al piano superiore del Museo Civico di Storia Naturale di Milano. Passa il badge di porta in porta e mentre saliamo gli scalini mi viene da pensare alla tassidermia: pratica a metà tra l’artiginale e l’artistico che ridona all’animale la fisionomia che aveva da vivo, montandone solo la pelle su di un manichino rigido che ne riproduce forma, dimensioni, postura, atteggiamento (taxon: “sistemazione”; derma: “pelle”). L’ultima porta si apre su di un locale con alti armadi di legno ad ante. Sulla sinistra e sulla destra due altre porte danno sulle gallerie nel sottotetto, dove, sotto i tubi dell’impianto di areazione, riposano, tra cellophane e scaffali, decine e decine di resti di animali di specie e storie diverse.
La lince di Vezza mi aspetta su di una scrivania. In posizione perfetta per farsi fotografare. Ha un ghigno stranito, degli occhi di vetro poco espressivi e del fil di ferro che le si intravede, tra i peli scuri dell’ultima parte della corta coda. La zampotta anteriore poggia vicino ad un telefono fisso, curiosa coincidenza dettata dal caso, sembra le faccia venire voglia di chiamare aiuto. A distanza di secoli. È davvero bruttina! Senza nome (reperto in comodato d’uso, perciò non a catalogo museale e appunto non accessibile se non su richiesta), senza storia certa, ma per me…è semplicemente lei. È il racconto che cerco. Avverto il sorriso del Prof. Bardelli che si stiracchia mentre delicatamente passo due dita sulla guancia dell’animale. Non mi azzardo a toccarle le orecchie, ma vorrei. Trovo il mantello tipico della lince alpina: a colorazione praticamente uniforme, decisamente meno maculato di quello delle altre subspecie. La osservo sfilandomi la macchina fotografica dal collo e penso: “Eri l’ultima…”.
Lince di Vezza non sa, non può sapere, che qualche chilometro più in là da dove stava il suo territorio si aggira ora un maschio. B132 ha ridato segni di vita proprio mentre sto scrivendo il pezzo, ed è in Trentino. La sua storia è affascinante quasi quanto quella della lince tassidermizzata del Museo di Milano. Nel 2008, come un asteroide che si è fatto il giro delle Alpi, B132 entra in Trentino. Ci arriva dall’Engadina e il suo viaggio è passato alla storia come quello dell’esemplare di lince che ha percorso più chilometri sulla catena montuosa. B132 ha ora 13 anni ed è una presenza tanto elusiva quanto affascinante che popola le nostre montagne: non è mai passato dalla Valle Camonica, ma come a voler fare uno scherzo alla buon anima del Gasparotti, questo maschio adulto se ne sta soprattutto nell’area di Storo, in provincia di Trento, spostandosi a destra e sinistra del Chiese e sconfinando comunque ogni tanto in territorio bresciano.
Della lince maschio B132 ho parlato con Paolo Tavelli, agente della Polizia Provinciale di Brescia, che insieme ai colleghi monitora la presenza dei grandi carnivori sul territorio. B132 ha il radiocollare scarico, già da qualche anno; sul sito “Grandi carnivori in Trentino” si vede l’ultima volta che glielo hanno cambiato: seguono scatti di cacciatori che l’hanno intravisto tra rocce e boschi, resti di carcasse, segnalazioni di tracce varie e l’apparizione più recente – da fototrappola – dell’11 gennaio, in Val Lorina, in Trentino. È difficile calcolare con esattezza l’areale all’interno del quale si muove, ma possiamo indicativamente parlare di un territorio di qualche centinaio di chilometri quadrati. Si tratta dell’unica lince la cui presenza è attestata sulle Alpi Centrali. Arroccata sulla sedia con le ginocchia sotto la scrivania, mi piace pensare che sia ricomparso apposta proprio in questo periodo. È vecchiotto (13 anni per una specie che in media ne vive tra i 10 e i 15 non sono pochi), solo – non ci sono linci femmine in circolazione e una brutta esperienza con un orso che gli rubava il cibo nelle Giudicarie (una zona del Trentino occidentale che comprende l’alto corso del Sarca, immissario del lago di Garda) l’ha reso ancora più guardingo – ma sempre bellissimo.
Le reintroduzioni nell’arco alpino sono cominciate negli anni Settanta. Nel 1975 due esemplari maschi vengono reintrodotti anche nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, ma poi il progetto fallisce e viene abbandonato. La specie è tutelata da diversi strumenti legali, tra i quali la legge 157 del 1992, che all’articolo 2, dopo il lupo, lo sciacallo dorato, l’orso, la martora, la puzzola, la lontra e il gatto selvatico, cita anche la nostra Lynx lynx. La lince è regolarmente presente sulle Alpi italiane dagli anni Ottanta e gli esemplari di cui si è a conoscenza vengono dalla Svizzera e dalla Slovenia (o sono i diretti discendenti di animali reintrodotti in quelle zone).
A salvaguardare la specie ci sono gli uomini – e le donne – del Progetto Lince Italia (“associazione culturale, apolitica, senza finalità di lucro”), di cui mi parla Anna Bonettini di Parco Adamello, che fa parte a sua volta di un gruppo di lavoro attento al monitoraggio. In Europa ci sono oggi tra le 8.000 e le 9.000 linci, suddivise in ben 11 popolazioni. Sarebbe davvero bello che anche una sola di queste linci tornasse sulle antiche tracce della lince di Vezza, ma le cose non sono così semplici. Ad esempio, B132 dovrebbe farsi un giro in quota, passando per aree con poca vegetazione, lui che, come anche il resto dei suoi simili ama, la boscaglia rocciosa e di solito se ne sta al di sotto dei 1.500 metri di altitudine. E poi in Valle Camonica avrebbe poca selvaggina da cacciare, soprattutto per quanto riguarda i caprioli (tenendo conto che si pappa tra i 50 ed i 60 ungulati all’anno, in pratica uno alla settimana). Certo che immaginarselo non è male, anche perché dalla sua ha il fatto di non avere mai apportato danni alla zootecnia: preda il selvatico, non il domestico. Al momento però non si parla di reintroduzioni in zona, che di fatto non sono comunque mai semplici, ad esempio per il numero di soggetti da coinvolgere.
Per questo motivo il nostro B132 caccia al crepuscolo, puntando sulla strategia dell’effetto sorpresa del balzo, gettandosi alla gola o al collo della sua preda, snobbando, di solito, chi riesce a fuggire, desistendo rapidamente dall’inseguimento. Una specie elusiva, un “fantasma” che ama starsene per i fatti suoi: predatore territoriale e solitario, al di là della stagione degli amori, la lince evita perfino la vicinanza con altri esemplari. Uno spettro che si aggira per le Alpi, un ricordo svanito nel corso dei secoli. Della lince sembra essere stata rimossa la presenza addirittura dalla nostra memoria collettiva, un’operazione che a poco a poco ha permesso a quest’animale di farsi avvolgere da un’aura di mistero che del resto sembra calzargli a pennello. Quando B132 smetterà di essere fototrappolato, cosa ne resterà a noi, moderni abitanti delle Alpi Centrali?
Il 3 maggio del 1845 una fucilata risuonava in alta Valle Camonica. Di quel frastuono parzialmente assorbito da cortecce resinose, oggi non rimangono che un triste appunto storico e un esemplare ghignante senza più capacità di discernere le sagome di alberi, caprioli e vette lontane. “Lewk” significa luminoso, brillante, ma anche “vedere”. Di una vista resiliente di cui continueremo, crepuscolarmente innamorati, a seguire le tracce.
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