Il solco dell’intransigente ripartizione europea del secondo dopoguerra si staglia ancora oggi inesorabile nell’avanguardista capitale tedesca. Un percorso indelebile, fatto di mattoncini levigati dal tempo, ripercorre per intero il perimetro della monolitica barriera situata al confine tra Berlino Est e la sua modaiola sorella ponentina. A intervalli semi-regolari sono state applicate delle placche commemorative in ghisa recanti la scritta “Berliner Mauer 1961-1989”, un freddo e persistente monito. Il minaccioso Muro di Berlino, abbattuto il 9 novembre del 1989, aveva una doppia funzione: quella simbolica di promemoria nei confronti della silenziosa e al contempo sanguinosa guerra ideologica in atto, e quella più squisitamente pratica atta a separare il settore ovest da quello orientale, il “quarto” filosovietico. Questa fortificazione fatta di blocchi in cemento armato, infatti, non fendeva la città in due esatte metà, bensì separava la DDR (Deutsche demokratische Republik – Repubblica democratica tedesca.), zona di occupazione dell’URSS, dai territori unificati di competenza americana, francese e britannica, come stabilito nell’ambito della Conferenza di Potsdam nel 1945.
Berlino, situata all’estremo est del Paese, conteneva di fatto un’enclave occidentale, un’isola variopinta sommersa dal Patto di Varsavia. In questo luogo proibito nulla era impossibile, il sogno americano aveva assunto forma concreta e si dispiegava in tutta la sua leggerezza. Una considerevole varietà di automobili, colori sgargianti, intrattenimento televisivo, vestiti ammiccanti, discoteche trasgressive, pettinature di ogni sorta e nuance, vacanze, soldi, bibite zuccherate, droghe e fast-food si prendevano affettuosamente gioco dell’incombente cortina di ferro. Qui di politica se ne parlava, ma le distrazioni erano talmente tante e le preoccupazioni talmente poche da permettere ai cittadini di potersene deliberatamente disinteressare.
Nella monocromatica Repubblica Democratica Tedesca il quadro non appariva altrettanto allettante. Si girava in Trabant, i supermercati smerciavano generi alimentari poco invitanti, ci si stuzzicava il palato con i cetriolini dello Spreewald, si era costantemente controllati dall’inflessibile Stasi, si indossavano abiti sbiaditi dai modelli amorfi e si socializzava secondo regole prestabilite. Ogni destino era agli atti, ogni percorso già scritto. Ciascun individuo veniva sapientemente guidato verso la sua esistenza socialista sin dagli albori, seguendo tappe scaglionate degne delle più affiatate organizzazioni di boy scout.
Nella DDR non era infatti concessa alcuna forma di intrattenimento che oltrepassasse le rigide linee guida di Mamma Russia. Invece, furono paradossalmente proprio i 28 anni segnati da quel filo spinato, che minava le vite di centinaia di fuggiaschi, separando famiglie e affetti, quelli più significativi in termini di prolificazione di culture alternative nel mondo capitalista. Un fiume in piena aveva investito l’intera gioventù con look stravaganti, cinema e letteratura di genere, sui generis e, non per ultimi, floridi stili musicali di tendenza. Beat, mod, punk, metal, goth, new wave, post punk, disco music. L’intera Repubblica Federale, compresa Berlino Ovest, poteva godere a pieno di questi trend straordinari provenienti dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti e, talvolta, era addirittura in grado di ispirarvisi in maniera magistralmente originale, dando vita a veri e propri spin-off di tutto rispetto.
Senza il Krautrock e la Kosmische Musik, movimenti interconnessi sviluppatesi a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, di cui spiccano in primo luogo esponenti quali Amon Düül, i Tangerine Dream di Klaus Schulze ed Edgar Froese, Can, Faust o Neu!, oggi il mondo non avrebbe i Kraftwerk, band seminale di Düsseldorf e genitrice della musica elettronica contemporanea. L’inconfondibile sound grezzo e a tratti altisonante alla base del Krautrock ebbe, di fatto, la capacità di discostarsi da ogni corrente esistente, tanto da divenire un genere a sé stante, il quale epiteto, conferitogli con ilarità dalla stampa britannica, si ispirava alla qualità di cavoli più amata dai teutonici.
Nel decennio successivo il Krautrock passò il testimone alla Neue Deutsche Welle, genere di chiara matrice new wave e post punk che gravitava prevalentemente intorno all’SO36 di Berlino e ad altri club disseminati per il Paese. Qui i suoni ferruginosi avevano lasciato spazio a sintetizzatori, drum machine, voci cavernose e accordi di fortuna, sebbene da essi avessero ereditato l’iconica e inconfondibile connotazione, esaltata da testi cantati nella spigolosa lingua tedesca. Meno fortunata del suo predecessore, la NDW riuscì comunque a sfornare artisti sempreverdi del calibro di D.A.F., Nina Hagen, Malaria!, X-mal Deutschland, Palais Schaumburg e Fehlfarben, oltre a dare i natali agli inclassificabili Geniale Dilettanten, di cui facevano parte Einstürzende Neubauten o Die Tödliche Doris. Parallelamente, nel mondo sotterraneo si muovevano con fierezza anche gruppi di orientamento punk, come Abwärts, Toxoplasma, Die Toten Hosen o KFC.
Insomma, a ovest del Muro non c’era nulla da invidiare a Londra. Anzi, al tempo, proprio grazie a questa primavera subculturale, alla quale si sommavano il resto delle tendenze internazionali, le due capitali si contendevano il primato di “città alternativa europea”. In aggiunta, Berlino aveva dalla sua anche il fatto di non aver lasciato indifferenti i protagonisti del triangolo sacro del rock per antonomasia: David Bowie, Iggy Pop e Lou Reed. “We can be heroes, just for one day“.
La fortuna di tutti questi musicisti, compresi quelli meno noti al grande pubblico, era dovuta in buona parte anche ai mezzi di distribuzione disponibili. Al tempo, infatti, sorgevano e si diffondevano a macchia d’olio nel mercato discografico innumerevoli etichette musicali. A non mancare erano inoltre le riviste specializzate, come per esempio Bravo per gli adolescenti o le più ricercate Spex e Sounds, oltre ai nascenti canali televisivi dedicati ai videoclip musicali, su tutte la celeberrima MTV e poi alcune trasmissioni autoctone come Formel Eins in onda sulla ARD o il Peter’s Popshow della ZDF, fino a giungere alle stazioni radio di stampo alternativo. Ai nostri occhi ciò appare semplicemente come una naturale evoluzione mediatica. Tuttavia, se ci soffermiamo sul contesto societario, non tarderemo a realizzare che, mentre una parte di mondo impazzava verso il progresso, a pochi metri o chilometri di distanza esisteva una barriera impenetrabile dietro la quale vivevano degli esseri umani che apparentemente non avevano alcun potere decisionale in merito al proprio stile e alla propria filosofia di vita. Ciononostante, scavando più in profondità, ci renderemo conto che questo è solo ciò che dovevano dimostrare, poiché le idee c’erano, il problema era solo come metterle in atto.
Le difficoltà erano tante e le risorse poche. La Stasi controllava in maniera capillare non solo le conversazioni, i movimenti e le tendenze dei cittadini, ma anche lo scambio di contenuti culturali (come superbamente illustrato nel film Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck), al fine di non inquinare la purezza dell’ideologia sovietica.
Eppure, ciò a cui era impossibile imporre confini era l’etere attraverso il quale si muovevano le onde radiotelevisive in grado di raggiungere clandestinamente gran parte dei territori della DDR, fatta eccezione per alcune zone della Sassonia, cosiddetta Tal der Ahnungslose (Valle degli ignari), che, confinando esclusivamente con i territori di Germania Est, Polonia e Repubblica Ceca, viveva nella bolla esemplare imposta dal blocco comunista. Tutti gli altri, con le dovute accortezze – una buona dose di fortuna e antenne posizionate nel modo giusto – riuscivano in qualche modo a sintonizzarsi sui canali occidentali, trasformandosi in spettatori di immagini proibite. Tra i passatempi più ricorrenti c’era quello di fotografare i propri idoli in TV con l’intento di sostituire i poster che, dove esisteva la libertà di stampa, si trovavano in omaggio nelle riviste per teenager. Queste ultime, neanche a dirlo, erano bandite dal territorio della DDR e, le poche che circolavano nelle comitive, erano state introdotte attraverso la frontiera con metodi poco ortodossi da zii o nonni in visita e, in seguito, “spacciate” per cifre esorbitanti nelle scuole.
Procurarsi dischi non filtrati dalla orwelliana macchina censoria del Ministero della Cultura e al contempo lontani dagli standard dei cantautori Schlager non era un’impresa meno ardua. L’unica etichetta discografica ufficialmente ammessa nella DDR era la Amiga, la quale, un po’ per volontà e un po’ per necessità, non si prodigava in enormi sforzi per andare incontro ai desideri dei giovani. Le rare occasioni in cui osava sbilanciarsi con proposte più frizzanti erano quelle in cui accettava di pubblicare le creazioni di rock band locali, come accadde nel 1982 con la compilation Linie 6—Neue Tanzmusik, in cui compaiono brani di Keks, City, Pankow e Silly. Ma ai ragazzi, che volevano ascoltare The Cure, Depeche Mode, OMD e Siouxsie and the Banshees, non piacevano. Alcuni dei loro LP venivano comunque ristampati su licenza, nonostante i costi fossero alti e le restrizioni ideologico-culturali vigenti abbastanza severe da impedirne la realizzazione. In alternativa, gli assetati ascoltatori dovevano setacciare la propria cerchia di conoscenze per trovare qualcuno in possesso degli agognati totem, oppure, chi disponeva di un gruzzoletto più copioso, poteva recarsi nei Paesi “liberali” del blocco orientale, come Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca, leggermente meno avari quando si trattava di investire in simili ristampe.
Fino alla metà degli anni ’80, gli unici programmi radio dai contenuti interessanti erano quelli proposti da emittenti come NDR 2 o RIAS (Rundfunk im amerikanischen Sektor – Radio nel settore americano), le quali si prodigavano per catturare l’attenzione degli spettatori d’oltrecortina che, a loro volta, puntualmente si adoperavano per scovare l’angolo della casa con una ricezione adatta ad ascoltare o registrare i brani trasmessi. Quando però, grazie a dei sondaggi di natura ufficiale, i funzionari ministeriali del SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands – Partito di Unità Socialista di Germania) presero coscienza della mancanza di interesse nei confronti delle stazioni radiofoniche disponibili, cercarono di correre ai ripari. Come conseguenza, vennero istituite delle alternative locali in grado di soddisfare anche richieste esigenti. Tra le più rilevanti sono da menzionare Duett – Musik für den Rekorder, format che, riproducendo senza interruzioni interi LP di artisti in voga, consentiva agli ascoltatori di trasporli agilmente su cassetta; Parocktikum di Lutz Schramm o Electronics di Stefan Lasch e Olaf Zimmermann.
Parocktikum, un rustico calco delle Peel Sessions della BBC, andò in onda tra il marzo del 1986 e il febbraio del 1993 su DT64 e diede un contributo fondamentale alla generazione underground della Repubblica Democratica. Fu questo programma radiofonico a creare una sorta di equilibrio tra lo pseudo-punk tollerato dagli organi statali e la vera musica alternativa della DDR, che non solo esisteva, ma tentava anche di ribellarsi ai dettami del regime rimanendo al passo con quelle che erano le evoluzioni nel resto del mondo. E fu appunto grazie a Parocktikum che entrarono in gioco le cosiddette Die anderen Bands, altresì dette Die neuen Bands.
Al contrario delle ripulite facciate di gruppi radicalmente ignorati come Pudhys e Karat, verso i quali i giovani si mostravano ampiamente riluttanti, le Die neuen Bands ebbero tutt’altro ascendente. Questi musicisti in erba si ingegnavano, nonostante la scarsità di mezzi e il doveroso ritardo nelle tempistiche, nella realizzazione di brani di stampo new wave, post-punk e industrial, seguendo le orme dei modelli occidentali. La loro formula, che fondeva in un unico elemento sonorità graffianti e avversione per le norme imposte, portò nel panorama epicorio una ventata di aria fresca che strizzava l’occhio alla cultura internazionale indipendente. Gli elementi che principalmente accumunavano queste formazioni, erano la volontà di emergere al di là di linee guida o convenzioni e un’essenza autentica in grado di innalzarli a musica per soli intenditori: involontariamente elitari, volutamente indie e assolutamente DIY.
I protagonisti di questo movimento, lontani dal concetto di star system, provenivano da diverse province della DDR, avevano approcci eterogenei e non intendevano in alcun modo fermarsi in superficie. I loro testi (prevalentemente in inglese) si ispiravano a tematiche esistenzialiste ed erano spesso criptici, anche se talvolta, si esprimevano in maniera apertamente critica verso il sistema politico nel quale erano costretti, come nel caso di Born in der GDR dei Sandows. Le Die neuen Bands si autoproducevano, aggirando gli impervi ostacoli che sbarravano loro il cammino: le strumentazioni considerate un marchio di fabbrica per certi stili musicali, come sintetizzatori e sequencer, erano logicamente irreperibili, per non parlare della presenza di divieti di aggregazione indirizzati soprattutto a persone “diverse” o del Punkverbot (aka il divieto di essere punk o di esercitarne le pratiche a esso annesse). Ovviamente, in un tale contesto, stampare album ufficiali era assolutamente fuori discussione, poiché ciò avrebbe significato dovere proporre un sound pulito, avvalersi di strutture convenzionali e, soprattutto, censurare i contenuti. Questa situazione costituì quindi terreno fertile per la nascita di numerose label indipendenti, tra cui la Hinterhofproduktion di Jena, che si occupavano essenzialmente della distribuzione del materiale, dal momento che, in realtà, erano le band stesse a registrare i propri brani su cassette ORWO (unico marchio di nastri magnetici e pellicole fotografiche esistente in Germania Est), riuscendo così a eludere la tediosa burocrazia di Amiga e delle sue Tochterlabel (etichette affiliate).
Furono questi gli ingredienti in grado risvegliare un rinnovato interesse nei confronti della musica “Made in GDR”, che, per la prima volta, ricevette un ampio consenso anche da parte dei più pretenziosi. Gli Jugendclub della FDJ (Freie deutsche Jugend – Libera gioventù tedesca), fino a quel momento scarsamente frequentati, così come le cantine o le terrazze private, iniziarono ad accogliere una maggiore quantità di pubblico durante esibizioni di nascenti artisti come Herbst in Peking, Hard Pop, Die Vision o Die Art. Tra i primi a dare il la a questa scena, furono i berlinesi Lippok, Robert e Ronald, con i cupi e martellanti Ornament & Verbrechen. Tendenzialmente, essi rifiutavano di considerarsi alla stregua di una mera band, preferendo invece la definizione di “piattaforma artistica”, la quale concedeva loro la libertà di esprimere una personale concezione estetica per mezzo di diverse forme stilistiche, che includevano il jazz e l’industrial in stile Throbbing Gristle. Più tardi, gli stessi fondarono il side-project The Local Moon, estremamente malinconico e con lo sguardo rivolto verso i britannici Bauhaus, similmente a quanto fecero i Rosengarten (il quale nome è ispirato al brano Rosegarden Funeral of Sores, del vampiresco e storico quartetto). La formula più “edulcorata” rispetto agli O&V rese in qualche modo i The Local Moon tollerabili dal regime, che concesse persino la distribuzione legale del singolo omonimo tramite la Indipendent-Schallplatte, una delle nascenti label ufficiali indipendenti della DDR.
Nello stesso stile caleidoscopico ed espressionista, a Karl-Marx-Stadt (l’attuale Chemnitz), si svilupparono le produzioni del sound-artist Frank Bretschneider, in seguito co-fondatore, insieme ad Alva Noto (Carsten Nicolai) e Olaf Bender, della celebre etichetta di musica elettronica sperimentale Raster-Noton, ex Rastermusic. Tra i suoi numerosi progetti, quelli maggiormente degni di nota sono i Kriminelle Tanzkapelle, gli AG Geige, celebri per i live controversi, e gli Stein im Brett. Questi nomi si discostavano prepotentemente dal consueto approccio melodico in voga fino a quel momento, muovendosi piuttosto in territori apprezzabili quasi esclusivamente a soggetti desiderosi di esplorare strutture dissimili da quelle woodstockiane di tipo intro-strofa-ritornello-strofa-bridge-ritornello. Tutte le pubblicazioni di Bretschneider erano edite dall’etichetta klangFarBe, da lui stesso fondata. Tra gli altri epigoni dei Residents e degli Psychic TV sono da menzionare inoltre i Tom Terror und das Beil, esistiti tra il 1989 e il 1991, che accostavano improvvisazioni distorte con chitarre e strumenti di fortuna a collage sonori di tradizione dadaista, e i Der Expander des Fortschritts, berlinesi votati prevalentemente al noise e all’abstract pop con richiami ai testi letterari. Questi ultimi furono forse tra coloro che presero le distanze in maniera più incisiva dalla musicalità della new wave, servendosi di strutture e minutaggi distanti dagli standard di tradizione pop-rock.
Frank Bretschneider non fu il solo a conquistare la notorietà dopo avere impostato la propria carriera durante gli anni votati al proibizionismo culturale. Ancora più fortunati sono da considerarsi Christian “Flake” Lorenz, Til Lindermann e Christoph “Doom” Schneider, nei quali nomi molti riconosceranno parte del fulcro dei possenti e focosi Rammstein. Provenienti da progetti separati attivi nella scena punk, come First Arsch e Die Firma, i tre musicisti iniziarono la condivisione del proprio percorso con i Feeling B, tra i più “particolari” e rockeggianti nel panorama delle Die neuen Bands. Tuttavia, questa scena non lasciava spazio esclusivamente alle sperimentazioni sonore. Molti preferirono cavalcare l’onda post punk e gothic rock, come i berlinesi Die Vision (ex Komakino), nei quali appellativi possiamo già riconoscere una sorta di devozione nei confronti del gruppo più oscuro di Manchester, i Joy Division, oppure i Die Art di Lipsia, estremamente longevi e dal taglio essenzialmente indie, e i conterranei The Real Deal.
Lo scenario delineatosi nel periodo appena antecedente alla Wende è, quindi,quello di una reazione a catena che aveva investito gran parte della Repubblica Democratica Tedesca. Oltre ai musicisti sopraccitati, ne sono esistiti innumerevoli altri che, trainati dalla volontà di rompere gli schemi e da un’esplosione di carica creativa, si erano fatti spazio tra le anguste fessure che andavano lentamente allargandosi in maniera inversamente proporzionale alla perdita di potere delle repubbliche socialiste. Complici della diffusione di queste forme di resistenza artistica non furono di fatto solo le molteplici fanzine artigianali realizzate dai vari fan club sparsi per il Paese, ma anche un vero e proprio intenerimento delle autorità nei loro confronti. Anche se, arrivati a quel punto era ormai troppo tardi, nella seconda metà degli anni ’80 i funzionari del SED si risvegliarono da un lungo sogno che vedeva come protagonisti ragazzi in adorazione dei dogmi culturali a cui dovevano sottostare, trovandosi invece davanti a un paesaggio desolato, permeato di rancore e desiderio di evadere sia fisicamente che intellettualmente. Per cercare di rimediare l’irrimediabile, tentarono inutilmente di accontentare la loro gioventù, che si sentiva, a ragione, esclusa da tutto ciò che accadeva nel mondo circostante, aprendosi alla diffusione di musica alternativa o addirittura occidentale, tramite media o concerti. Fu esattamente per questo motivo che l’esistenza di Parocktikum venne autorizzata (non senza la subdola presenza Stasi nella redazione) e che, nel 1988, la Amiga pubblicò la compilation Kleblatt 23 – Die anderen Bands, poi, nell’anno successivo, Parocktikum– Die anderen Bands. Nello stesso 1988, nelle sale cinematografiche venne distribuito il documentario flüstern und SCHREIEN, una sorta di reportage musicale che raccontava di questo movimento per mezzo di interviste dirette con alcuni dei suoi esponenti.
Con la caduta del Muro di Berlino, le produzioni di queste band vennero rivalutate e ripubblicate, dalla Amiga stessa o da altre etichette ufficiali. Attualmente, esse non hanno smesso di esercitare un fascino magnetico sui fan della musica avanguardista, giunto addirittura alle orecchie dei produttori discografici internazionali, i quali continuano a proporli in forma di release dal sapore vintage. Il merito del longevo successo delle Die anderen Bands è sicuramente da attribuire al fatto che, nonostante il granitico sistema in cui esistevano e gli irraggiungibili standard occidentali a cui anelavano, queste avevano sgomitato per emergere dalla massa giallognola dalla quale erano sommerse, riuscendoci in maniera sopraffina. Ciò che ci lasciano in eredità è una vera e propria controcultura dal carattere sovversivo, esclusivo e ben definito, parzialmente frutto delle singolari strumentazioni di fortuna di cui erano obbligati a servirsi. La loro essenza può essere riassunta con le parole di Frank Bretschneider: “Instrumenten kaufen und lossspielen, egal was und wie” (“Comprate gli strumenti e suonateli, non importa come o cosa”).
Ambra Cavallaro non sa più dove vivere, se a Roma (dove è nata nel 1987) o a Berlino (dove risiede da 12 anni). È un’avida lettrice, una polemica osservatrice e un’eterna indecisa appassionata di sonorità oscure e disturbanti. Lavora come traduttrice freelance e si sposta incessantemente nello spazio-tempo alla costante ricerca di nuovi progetti e pace interiore.
Ambra ha scritto per Yanez anche di Roma e pandemia. Leggilo Qui.
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