È una giornata piacevole, siamo seduti ad un tavolo di legno, sulla veranda di un bar di Neukölln, il quartiere più turco di Berlino. Entrambi ordiniamo un caffè americano che non sa di nulla. Ci siamo abituati. Da tanti anni viviamo nella capitale tedesca.
Elisabetta sembra intimidita dall’intervista, dal registratore che s’intromette fra noi e le nostre tazze. Paradossalmente, sembra intimidita dalla propria voce. Lei che ha cercato, proprio nelle sue corde vocali, la ragione di tutto ciò che ha creato, partendo dalla Valdelsa, dove è nata e cresciuta e passando da Istanbul, dove è corsa in cerca della cultura e della tradizione, dell’amore poi. E fino a qui, a Berlino, dove canta e insegna a cantare.
È una missione la sua, una ricerca costante e, sicuramente, senza fine.
È ciò che la rende quello che è: non un cantante. Qualcosa di più. Oppure qualcosa di diverso.
Quando hai realizzato che per te era importante fare musica?
La cosa strana è che non ho mai realizzato di voler fare musica. Ho iniziato a fare musica come qualcosa di naturale. Non perché lo trovassi divertente. Ho cominciato a studiare seriamente e non ho mai pensato che, ad un certo punto della mia vita, avrei abbandonato la musica per mettermi a fare qualcos’altro.
È iniziato tutto intorno ai tredici anni.
È una storia buffa: ho iniziato a studiare chitarra classica. Chiaramente a un ragazzino di tredici anni è difficile che gli venga in mente di fare musica classica. Infatti, fu un errore. Arrivai in questa piccola scuola a Poggibonsi, in provincia di Siena, e mi fecero la fatidica domanda “Vuoi fare chitarra folk o chitarra classica?“. La mia timidezza, come altre volte in seguito mi è capitato, mi fece scegliere senza sapere esattamente cosa stessi scegliendo. Mia madre suggerì di imparare la chitarra classica, ma credo che persino lei non avesse un’idea precisa di cosa fosse. L’insegnante mi orientò verso lo studio classico ed io accettai.
Studiai con lei fino a quando non lasciai la Toscana per andare a vivere a Bologna e fu un grande errore, come dicevo, perché dentro di me continuavo ad aspettare il momento in cui potevo arrivare a studiare gli accordi, le canzoni, che era ciò che volevo. Ma non arrivava mai. Però, allo stesso tempo, avevo questa passione incredibile che mi faceva saltare ogni delusione. Ai tempi andavo a scuola a Siena e mi svegliavo alle sei, studiavo chitarra mezz’ora e poi correvo a prendere l’autobus. La verità è che sono grata a quell’errore, perché, in campo musicale, mi ha dato una base per imparare tutto ciò che venne dopo.
So che dalla Val d’Elsa, dove sei nata e cresciuta, ti sei trasferita a Bologna, per frequentare il Dams.
Esatto. In quel periodo, appena prima di trasferirmi a Bologna, ero molto confusa, perché avevo la convinzione di dover fare musica in tutti i sensi possibili. Avevo appena iniziato a studiare canto, mi stavo approcciando al jazz, quindi avevo abbandonato, in qualche modo, la musica classica. Studiavo al Siena Jazz, che è tra le più importanti accademie italiane. Quindi arrivò il momento in cui decisi di iscrivermi al Dams Musica, perché, studiando il programma, notai che c’era Musicologia, Estetica della Musica, questo della musica, quest’altro della musica e pensai di potermi arricchire. Avrei potuto entrare in Conservatorio prima, ma, a conti fatti, come successe con lo studio della chitarra classica, fu una scelta azzeccata, perché il Dams arricchì il mio interesse per la musicologia, diventata, negli anni a seguire, una parte importantissima della mia vita. Solo dopo aver concluso il Dams mi sono iscritta al Conservatorio, frequentando un Master in Canto Jazz.
Ci sono stata dieci anni a Bologna.
E poi hai lasciato l’Italia.
Da Bologna mi sono trasferita a Istanbul. Avevo ventinove anni. Era la fine del 2012. Ho mollato tutto quello che avevo e da sola sono andata all’avventura. Non sapevo esattamente cosa stessi andando a fare.
Perché Istanbul, cosa ti è passato per la testa?
Avevo il desiderio di vivere in un ambiente più internazionale. Ogni volta che andavo a fare dei viaggi di piacere all’estero, tornavo con la voglia di parlare un’altra lingua, essere pronta a confrontarmi con gente che sapesse altre cose. Bologna è un paesone. È una provincia. Volevo una città affacciata sul mare e non volevo mai più vivere in un posto freddo come Bologna. Infatti, poi sono finita a Berlino (ride). Volevo una metropoli. La cosa più importante di tutte, però, era il bisogno di un luogo dove si potesse percepire la storia e la tradizione.
Mi sono comprata un registratore d’ambiente e, appena arrivata, mi sono messa a registrare qualsiasi cosa. Non so quante registrazioni delle preghiere del Muezzin ho ancora oggi conservate, della gente che urla vendendo fiori, dei mercati. Istanbul è un luogo pazzesco. Era perfetta per tutto ciò che allora cercavo.
Guarda, ti dico la verità, io stessa stento a credere di aver fatto questa cosa. Sull’aereo, mentre stavo atterrando a Istanbul, mi sono messa a piangere. Mi sono chiesta: ma cosa sto facendo? È stato il primo e unico momento di esitazione. Poi ho realizzato che tra Istanbul e Londra, Parigi, la Germania, non c’è niente di diverso. Uno realizza di essere emigrato, ma in realtà non è un po’ un’illusione. È solo quando fai il passo più lungo, che realizzi che ti stai trovando davanti qualcosa di veramente nuovo. Quando mi sono trasferita da Istanbul a Berlino, mi sembrava di essere tornata a Bologna, con la difficoltà della lingua e della burocrazia. Non fai un grande cambiamento se ti trasferisci da una città europea ad un’altra. Lo fai dal tuo paese natale ad un paese straniero, quello sì. Immaginati una ragazza giovane che si ritrova a dover fare la spesa a Istanbul. Un delirio. Entravo nei supermercati e non capivo niente. Voglio dire, sta lì lo shock, ma io volevo mi accadesse e mi è accaduto. Dopo quello ero pronta.
Istanbul, facendo una becera generalizzazione, sembra non essere una città semplice, soprattutto per le donne. Spero tu mi possa smentire.
Diciamo che quello che impari viaggiando è che ogni luogo ha le sue regole. Sta al viaggiatore capire quali sono. Poi decidi se accettarle o meno. È quello che ho fatto io, imparando dagli errori. Ciò che dici tu rispetto alle donne in Turchia, invece, non è solo un pregiudizio, ma non è nemmeno del tutto vero. A Istanbul sei più osservato, mettiamola così. Non solo la donna, sia chiaro. Io non ho trovato molte difficoltà come ragazza, però. Anzi, ho trovato un grande aiuto da un sacco di persone. È chiaro che devi stare un po’ attento. Ci sono cose che non devi fare, perché non fanno parte della loro cultura e, probabilmente, è giusto così.
Come in qualsiasi altro posto e in qualsiasi altra cultura.
Esattamente. Per questo torniamo a parlare delle regole del luogo. Se non voglio essere guardata mi metto una maglietta più accollata, perché è vero che ti guarderanno di più. Sta a te decidere. Puoi anche non farlo. Ma anche in questo caso è una generalizzazione, una cosa difficile da affermare con sicurezza perché, alla fine, c’è sempre qualcuno che può smentirmi.
Ho la sensazione che Istanbul sia una città molto ricca a livello di cultura musicale.
Questa era una delle cose che andavo cercando. La tradizione. Per me è stata una grande apertura. Sono arrivata con il mio bagaglio di jazzista un po’ fighetta – che è una delle carriere che si possono fare ad Istanbul – e mi sono accorta che mi serviva anche un modo di entrare in contatto con la gente più velocemente. È andata a finire che mi sono catapultata, quasi inconsciamente, nella scena della musica improvvisata. Ho cominciato proprio allora a fare delle cose molto simili a quelle che faccio ora a Berlino. In realtà, mi sono spostata a Berlino proprio seguendo la scena. È strano, perché quella della musica impro, è una realtà minore a Istanbul. Ci arrivai attraverso un amico turco con cui iniziai a suonare. Cominciai, quindi, a sviluppare questo lato nascosto di me. Nel frattempo, facevo di tutto. Volevo imparare più cose possibili. Sono finita a fare lezione con una insegnante curda specializzata in un canto tradizionale improvvisato. Una sorta di poesia cantata improvvisata. Mi sono iscritta in una scuola di musica tradizionale turca, guidata da una sorta di guru che organizzava queste classi da venti musicisti che gli baciavano l’anello quando si presentavano in aula. Un tipo strano che mi offriva anche aiuto, soldi. Ci sono queste comunità più legate alla parte esoterica dell’Islam. Comunque non ho mai accettato soldi da lui.
Ti va di entrare più nel dettaglio rispetto alla scena impro di cui accennavi poco fa?
Non so cosa è rimasto ora, di quella scena. In quel periodo, c’erano due locali, Il Dünya e il Gitar Café, situati entrambi su questa strada soprannominata la Barlar, la strada dei bar, dove ci ritrovavamo stabilmente a fare impro. C’era anche L’Arkaoda, che era proprio davanti al Dünya. In uno di questi posti organizzavano degli incontri in cui tutti i musicisti si riunivano e si faceva questo gesto tradizionale del mettere un bigliettino con il proprio nome in un’ampolla e si estraevano i nomi di due o tre musicisti che avrebbero dovuto suonare insieme. Era una cosa completamente nuova per me. Non avevo mai fatto improvvisazione. Però mi veniva bene.
Ricordo che mi portavo sempre dietro il mio shruti box, che è uno strumento indiano, e lo utilizzavo in un modo inconsueto. Cominciai a fare delle cose che poi rimasero impresse nel mio modo di cantare: ovvero usare molto il parlato. Perché quando fai impro non sempre è possibile cantare, a volte ti ritrovi insieme ad un batterista e un trombonista e risulterebbe impossibile. Allora trovai un modo, più teatrale, di entrare in questa scena. Era bellissimo. Non vedevamo l’ora di vederci e suonare, cantare. L’impro è un modo semplice di fare musica, perché non ha bisogno di preparazione, niente prove. Vai e suoni. A volte viene una cosa molto bella, altre molto brutta. Il punto è quello di trovare un linguaggio comune che ti permetta di stare sempre insieme ai musicisti e fare musica.
Dopo due settimane che vivevo a Istanbul mi ero già integrata perfettamente. È una città dove non puoi pianificare le cose; incontri qualcuno, ci stai un po’ insieme, poi vai dall’altra parte della città ad incontrare qualcun altro, ti fermi a mangiare, spesso a dormire, perché ti ci vorrebbe un’eternità per ritornare a casa. È una vita selvaggia.
Il primo posto letto che trovai a Istanbul era da un amico di una persona che conoscevo, che faceva parte proprio della scena di improvvisazione. Rimasi un mese ospite da lui, perché mi proibiva di andare da un’atra parte. Lui viveva con la madre, quindi non aveva nessun secondo fine. Semplicemente mi proteggeva e mi insegnava a vivere la città. Era la mia famiglia. Fu il mio ponte. Mi portava ai concerti, nei negozi di dischi. Un tipo silenziosissimo che mi ha insegnato tantissimo.
Tuo marito faceva parte della scena impro di Istanbul?
No, lui l’ho conosciuto la seconda volta. Quando sono tornata. Sono rimasta la prima volta per tre mesi, poi mi è scaduto il visto e sono dovuta restare tre mesi in Italia. Mi serviva quindi una scusa per tornare, perché sentivo che non era finita, avevamo ancora delle cose da dirci, io e la città. La scusa fu un festival di improvvisazione. C’erano alcuni musicisti che conoscevo e nell’organizzazione c’era quello che poi è diventato mio marito, Uygur. Riuscii ad infilarmi nella line up e tornai. Uygur faceva i suoni e mi fece subito arrabbiare, perché il festival era auto-organizzato con zero mezzi e zero soldi. Io ero lì a chiedergli di mettermi dei riverberi alla voce, da tipica jazzista fighetta. Riverberi che, ovviamente, non avevano nel banco suoni. Insomma, l’ho conosciuto così e, da quel momento in poi, è stato l’amore a decidere tutto. Io vivevo in una strada bellissima di Istanbul, un posto da sogno, ospite di una mia amica. Nella strada parallela ci viveva Uygur. Abbiamo iniziato ad incontrarci ai concerti, a conoscerci meglio e a cercare di fare un po’ di soldi insieme, perché ne avevamo bisogno.
Abbiamo deciso di suonare per strada. È stato uno dei periodi più belli della mia vita. Ci alzavamo la mattina e andavamo a Galata, che è il centro storico della città, sotto la Kulesi, la torre, che ora, purtroppo, hanno completamente gentrificato, e ci mettevamo a suonare per la gente, i turisti, che erano in coda per le visite. Stavamo lì sotto tutto il giorno. Dovevamo arrivare prima perché era un posto ambito dai musicisti di strada. Suonavamo per ore e ore e guadagnavamo bene. Arrivavano dollari, euro e monete da tutto il mondo. Sono sempre stata convinta che abbiamo fatto questa cosa, per svariati mesi, in modo illegale, perché nessuno ha mai capito se si potesse suonare lì oppure no.
A livello umano è stata un’esperienza pazzesca. A livello musicale è stato importantissimo, perché ho sviluppato un interesse e una capacità importante per la voce sola, la voce acustica, nuda. Ho dovuto sviluppare una tecnica per riuscire a farmi sentire per strada e per cantare molte ore al giorno. In quell’occasione ho ricollegato tante cose di cui mi ero interessata e di cui mi interesso tutt’ora: i richiami, le voci popolari.
Tra i picchi della nostra carriera di strada sotto la torre di Galata, siamo stati intervistati dalla TRT, che è una rete nazionale turca e abbiamo suonato in studio insieme ad un cantante turco famosissimo. Uno al livello di popolarità di Vasco Rossi, per intenderci. Io, ovviamente, non lo conoscevo. Lui, praticamente, andava in giro per strada a recuperare i musicisti, li intervistava e poi ognuno doveva scegliere una canzone turca da cantare insieme a lui.
E poi c’è stata la rivolta del Gezi Park.
Vuoi raccontarmela?
Era il 2013 e a maggio cominciarono ad esserci queste grandi proteste da parte della gente, del popolo. Perché volevano smantellare il parco. Una delle manovre politiche di Erdogan. Una presa di potere che fu l’inizio di tutto il suo scempio. Io ormai ero turca, diciamo. Vivevamo a cinquecento metri da Taksim, suonavamo lì ed è stato inevitabile essere coinvolti in quella vicenda. Io con più cautela, mio marito senza alcuna inibizione. Tanto che divenne un simbolo delle rivolte.
Finì su parecchi giornali una sua foto mentre, indossando un elmetto da lavoratore e una maschera antigas, suonava il violoncello durante la rivolta.
È buffo oggi vedere la gente, io compresa, andare in giro con la mascherina protettiva, perché, per me, quello fu il periodo in cui io giravo con la maschera antilacrimogeni nella borsa, per proteggermi. Posizionarono la Polizia in ogni luogo di quella parte della città ed erano stati autorizzati a sparare gas lacrimogeno ad ogni accenno di protesta. Eravamo tutti abituati a mettere in borsa, prima di uscire di casa, il nostro piccolo set: una maschera e una soluzione fatta con il latte per pulire gli occhi. Io ricordo che a noi entrava il gas dalla finestra durante la notte. C’è morta della gente a causa delle pallottole di gas lacrimogeni. Anche un bambino.
Suonare per strada e frequentare quelle zone, quel parco, era il nostro habitat naturale, era la nostra abitudine. Le proteste la ruppero. Non siamo andati noi incontro alla protesta, è stata la protesta ad inglobarci, perché ci avevano tolto la nostra routine e il nostro desiderio di suonare. Uygur ha così cominciato ad indossare sempre, per protesta, un elmetto e la maschera antigas e preparava questi interventi di protesta, mettendosi a suonare in dei punti strategici del parco. In quel periodo Gezi era abitato dalla gente in rivolta. C’erano tende e attrezzature da camping. Avevano creato una sorta di albero dei desideri della tradizione turca e lui ci suonava sotto. Era molto coinvolto in questa cosa.
Insieme, facemmo anche un progetto sul parco, in cui organizzammo una scaletta di canzoni politico-popolari turche e del materiale sonoro, tra cui field recording e estratti dei discorsi di Erdogan. L’abbiamo fatto anche in Italia, al Teatro Valle di Roma.
Hai accennato prima al tuo interesse legato al canto popolare che poi ritorna nell’ultimo tuo progetto, The Pond. Quando sei entrata in contatto con il folk e la tradizione popolare?
Una cosa che è arrivata in seguito. Da ragazzina ascoltavo il jazz, mi interessava quello e poco altro, come la musica vecchia, chiamiamola così, i Beatles, i Rolling Stones.
La passione per le musiche non europee credo si sia sviluppata durante gli anni dell’Università, probabilmente attraverso l’incontro con un professore, Domenico Staiti. Un musicologo pazzesco. Si occupa di cultura Rom e di canto popolare in generale. Uno che ha fatto tantissima ricerca sul campo, incontrando la gente, stando con loro e parlandoci. Un grande uomo e un grande professionista. Io volevo fare la tesi di laurea con lui e, informandomi, per caso, scoprii il mondo legato all’ottava rima. Sai cos’è?
No.
L’ottava rima è una tradizione ancora viva in Toscana e soprattutto in alto Lazio, di gente che improvvisa cantando in ottave. Loro utilizzano una melodia standard che li aiuta a tenere il tempo, a non perdere le sillabe. I testi sono improvvisazioni di accadimenti della loro vita. Sono pazzeschi. Quello che devi capire è che questa gente ha una scolarizzazione bassissima, alcuni di loro sono analfabeti, ma attraverso l’infiltrazione dei poemi epici tramandati vocalmente, dei romanzi cavallereschi della letteratura popolare, hanno acquisito un linguaggio incredibile. Mischiano il dialetto con dei termini aulici presi dall’Ariosto, dal Tasso, per farti un esempio. Voglio dire, loro si sono raccontati e tramandati quelle storie per decenni e le hanno assimilate, imparate a memoria.
È una cosa incredibile. Io tornavo piangendo dai viaggi in Maremma, dove incontravo questi anziani analfabeti ottantenni che producevano delle rime improvvisate di un’altezza senza pari. Non facevo altro che chiedermi come fosse possibile.
Questo fu il mio primo contatto con la canzone popolare italiana.
Mi ricordo la tradizione del Maggio, ovvero queste squadre di poeti e cantanti che, nelle campagne toscane, vanno di casa in casa a bussare alle porte della gente portando la primavera.
Da quel momento cominciai a crearmi anche un repertorio di musica tradizionale italiana. Quello che mi interessava erano i canti di lavoro. Canti che raccontassero la società rurale dell’800 e del ‘900. A me è questo che interessa della musica popolare italiana. È come mettersi a leggere un giornale di duecento anni fa.
C’è una ninna nanna della mia zona che è il racconto della battaglia fra Barberino e San Giminiano, che risale al 1200.
Una cosa che non ti ho detto è che, io e Uygur per strada a Istanbul cantavamo e suonavamo canzoni italiane. Per questo guadagnavamo più soldi, perché in Turchia c’è un interesse molto particolare verso l’italiano
Arrivati a questo punto ti chiedo di parlarmi del progetto The Pond.
The Pond è un progetto interamente vocale, in cui Nicolas Wiese, che è un bravissimo artista multimediale, ha registrato per anni samples della mia voce, fino ad elaborare un materiale sonoro che sta al limite dal riconoscersi come voce umana e voce artificiale. È materiale completamente nuovo, quasi tonale. Quindi, lui prepara dei pacchetti sonori e io ci contribuisco live. Ci sono delle parti in cui io canto su ciò che lui ha preparato, altre parti in cui interagiamo, ci sono delle parti di improvvisazione in cui utilizzo qualsiasi tecnica vocale, arrivando al noise. Ci sono altre cose in cui canto melodie, le quali si uniscono a questo materiale sonoro molto astratto.
Quindi, mi domando che cos’è questo disco, che tipo di creatura è?
Per me è stata un’occasione per dare una forma a tutta una serie di cose che volevo cantare, raccontare e mettere in musica. Dei frammenti di melodie, dei punti di vista che ho rispetto delle cose, dei testi letterali, dei personaggi, delle atmosfere. C’è dentro il mio bagaglio culturale e musicale a cui, finalmente, sono riuscita a dare vita.
Hai unito un puzzle.
Ho unito un puzzle e lui non lo sa, o quantomeno lo sa solo in parte. Diciamo che questa cosa del pond è, segretamente, legata al Mediterraneo e quindi, per me, è anche legata al mio viaggio, che non è stato un lungo viaggio, ma che mi ha fatto scoprire tante cose: la musica popolare del Sud Italia, quella turca, ma anche quella sefardita oppure Rom.
Un altro mio grande desiderio, che sono riuscita a realizzare attraverso questo disco, era quello di cantare arie antiche senza diventare una cantante classica. L’ho fatto, con una voce non impostata, normale e attraverso il mezzo dell’elettronica.
È un disco colmo di personaggi e storie. A me e Nicolas piace raccontare storie.
È un disco di narrativa.
Veramente. È un disco molto narrativo. Dentro ci sono Monteverdi, Caccini, Oscar Wilde, c’è una frottola del ‘500. Ma dentro c’è anche la cultura afroamericana, a cui siamo legati in modo differente: io dalla parte più jazzistica e Nicolas dalla parte più hip hop e dub.
Io l’ho trovato un disco molto sperimentale, soprattutto nell’unire l’antico al moderno.
Che poi la cosa interessante è che queste melodie, seppur antiche, sono immortali. Se uno ascolta un po’ di musica classica capisce che quella roba è famosissima. È un po’ il pop del Barocco. Ho trovato interessante dare una veste nuova a qualcosa di così antico e immenso. È come cantare Summertime. L’hanno fatto tutti in tutti le salse. Quello che mi piace del jazz è che devi sempre trovare una chiave nuova per interpretare una canzone.
Perché dovresti ascoltare me che canto Summertime come l’ha già cantata Ella Fitzgerald? Capisci cosa voglio dire?
Invece DuoSubRosa, il duo che hai fondato con tuo marito, dove si colloca?
Si colloca sempre (ride).
Quello è il mio primo progetto, quello più vecchio, che è nato con Uygur, quando ancora eravamo per strada, anche se quella parte era, ai tempi, dettata dal divertimento e dalla pura necessità di suonare.
In realtà DuoSubRosa si muove attraverso diversi progetti, quindi in quel periodo avevamo un progetto sulla musica italiana che interpretavamo come una lecture, perché io poi raccontavo la storia delle canzoni che suonavamo. Poi ci siamo buttati in delle cose che ci interessava scavare più profondamente. Come l’impro. Infatti, io e Uygur lavoriamo solo sull’improvvisazione. E funziona perfettamente, perché ci conosciamo talmente bene che sappiamo sempre dove dobbiamo andare a parare. Abbiamo delle linee guida musicali che ci permettono di avere tutto sotto controllo.
E quindi il disco.
Sì, nel passaggio tra Istanbul e Berlino, siamo rimasti tre mesi in Italia. In quell’occasione abbiamo fatto delle registrazioni all’interno di una chiesa che non ci sono piaciute per niente e abbiamo, alla fine, accantonato.
Le abbiamo riprese parecchio tempo dopo e ci siamo accorti che ci piacevano tantissimo. Io l’ho guardato e gli ho detto: “Ma questo è un disco!”
Insomma, lo abbiamo fatto uscire durante il lockdown. Sediments è un disco di improvvisazione piuttosto melodica. In quei giorni ci hanno chiesto di registrare un live streaming più sperimentale di quello registrato nella chiesa. Dunque, anche in quel caso, abbiamo deciso di ricavarne un disco.
La cosa molto interessante è che, quando abbiamo registrato quel live, quindi quel disco, io ero malata, e ho cantato con il 30% della mia voce. Ma era bellissimo. L’interazione che c’è nell’imperfezione registrata della mia voce è talmente intensa e vera che il risultato l’ho, l’abbiamo, trovato perfetto. È diventato il mio manifesto contro la perfezione vocale e del suono. A volte non ti serve. A volte includi suoni non belli che invece sono artistici. Fare e fare con meno. Da giovane ero più preoccupata rispetto a questa cosa: il dover dimostrare tutta la bellezza della voce, l’intensità portata al massimo. Invece no, può essere che tu utilizzi il 30% di quello che hai e ne esce una cosa meravigliosa.
Sei più libero. Che poi si riassume il tuo percorso. Perché, da un certo punto in poi, ti sei appassionata all’improvvisazione, ovvero la libertà musicale di commettere l’errore. Sei partita dall’impostazione rigidissima della musica classica, per arrivare a mollare le redini completamente.
È una condizione di improvvisazione senza radici è, come dici tu, una grande libertà e un grande esercizio per il musicista. Perché hai una scelta. Ho cominciato a fare improvvisazione utilizzando le cose che avevo. Imparavo a memoria dei testi che poi improvvisavo. E poi c’è l’altra parte, quella senza radici, in cui vai dritto, senza pensare a nulla. Stockhausen diceva, attraverso una delle partiture del disco Aus den Sieben Tagen, di emettere il primo suono solo quando si arriva a non pensare.
Questa è apertura totale.
Assolutamente. In tutto questo, abbiamo parlato per moltissimo tempo, però Berlino, o meglio la Germania, non è quasi mai venuta fuori nella nostra chiacchierata. Questo significa che forse io non l’ho fatta venire fuori, oppure significa che tu non l’hai voluta far venire fuori. Forse non ha mai influenzato la tua passione e la tua ricerca musicale.
No, credo proprio di no. Diciamo che la scelta non era di venire in Germania, ma di venire a Berlino, per la sua ricchezza multiculturale, come luogo di aggregazione. Quindi, in realtà, quello che prendo da Berlino è ancora questo: l’incontro con gente molto diversa. Però non sento un’influenza dalla sua tradizione.
Berlino è una piattaforma attraverso la quale posso sperimentare tanto, ma noi, io e Uygur, siamo due persone in continuo movimento. Oggi siamo qui, a Berlino, può essere che domani andremo altrove. Non ho un particolare attaccamento per questo posto. Forse non ho attaccamento per nessun posto.
Forse non metti le radici, ma guardi le radici.
Come ti dicevo all’inizio, la scelta di trasferirmi a Istanbul era legata alla sua storia e alla sua ricchezza musicale. Se vai lì con questo tipo di apertura non puoi non rimanerne affascinato. Non riesco ad essere attratta dalla musica tradizionale tedesca, mi interessano altre cose, legate sicuramente anche alla musica, al brulicare artistico e allo scambio culturale che si respirano nella città in cui vivo ora, ma Berlino è un luogo particolare, completamente a sé, rispetto al resto della Germania.
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Immagine di copertina: © Elisabetta Lanfredini / Uygur Vura
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