“Buonasera.” cammina verso di me, aggirando l’auto dalla quale è scesa. Allunga una mano, gliela stringo, è fragile e spigolosa.
I capelli voluminosi, ondulati e palesemente tinti. È curva sulle spalle, ma mantiene un portamento fiero. Non è riuscita a nascondere le rughe con il trucco oppure non ha voluto. Sono tutte lì, come zigrinature perfette su un gioiello costoso. L’unica cosa indimenticabile è il suo sguardo. È un abisso.
“Ho prenotato un tavolo in quel Café. È il mio preferito.” allarga il gomito invitandomi ad accompagnarla.
Dico ‘certo’ infilando il mio avambraccio attorno al suo, senza aggiungere altro, perché non riesco. L’emozione mi ha colpito senza avvisarmi, anche se me lo aspettavo. Sapevo non sarebbe stato semplice. Mi sono preparato per settimane, studiando quello che un tempo era il suo modo di parlare, di rispondere alla gente e ai giornalisti. Pensavo di riuscire a controllare la mia sensibilità, ma non è così. E lei se ne accorge immediatamente.
L’auto riparte lentamente, parcheggiandosi una ventina di metri più avanti. Non scende nessuno.
Ci accomodiamo ad un piccolo tavolo di ferro. Nella veranda l’aria è fresca, ha un odore che non conosco ma intuisco. È piacevole. Il mare della Corsica dondola davanti a noi. Non ci sono barche a largo, oppure non le posso distinguere nell’oscurità.
“Sto cercando di metterla a suo agio” mi dice. “Perché capisco.”
“Non è facile.”
“Lo so e non si deve preoccupare. Abbiamo tempo.”
“Non teme che qualcuno la riconosca?” domando.
“Chi dovrebbero riconoscere?”
“Lei.”
“Moana Pozzi?” sorride di un sorriso bello. “Perché dovrebbero riconoscere una persona morta da venticinque anni?”
“Si è detto molto su di lei. Ci sono ancora dubbi sulla sua_” mi interrompo perché riesco finalmente a comprendere il tempo e lo spazio in cui mi trovo.
“Mi aspettavo che questa storia venisse fuori dopo gli antipasti.” sorride ancora.
“Gliel’ho detto, non è facile.”
“Facciamo così, iniziamo con il darci del tu e ordinare qualcosa da mangiare.” Si volta alla sua sinistra, alza un braccio avvolto da una giacca di seta bianco perla. Il cameriere la nota e si avvicina.
“Io preferirei continuare a darle del lei, se non le spiace.”
“Come preferisci.”
“In questo posto ci vivono circa un migliaio di persone residenti. Durante l’estate arrivano i turisti, ma sono per lo più francesi, qualche tedesco. Pochissimi italiani. E comunque intorno alla metà di maggio vado via e torno a settembre. Sono arrivata giusto tre giorni fa.”
“Dove va?”
“Questo non te lo posso dire.”
“In Asia?”
“Non sono mai stata in Asia. Non sono stata nemmeno in India. Erano tutte cavolate.”
“Da quanto vive qui?”
“Da quando ho finto la mia morte.”
“E nessuno, in tutti questi anni, l’ha riconosciuta?”
“Per riconoscere una persona devi averla conosciuta una prima volta. Non intendo averla conosciuta in TV o suoi giornali, intendo conosciuta realmente. Ti è mai capitato di vedere per strada qualcuno che ti ricorda qualcuno che conosci, ma non ne sei sicuro? Cosa fai? Niente. Lo lasci passare. Non sono venuta qui venticinque anni fa a caso. Mi sono preparata molto, per due anni. Abbiamo studiato ciò che dovevamo. Certo, ho rischiato molto, soprattutto all’inizio, la certezza di non essere riconosciuta non poteva esserci, c’è sempre qualcuno che non lascia passare il dubbio. Ora non mi riconoscerebbe nemmeno mia madre, se fosse viva.”
“Abbiamo?”
“Che vuoi dire?”
“Ha detto ‘abbiamo studiato ciò che dovevamo’.”
Alza il cucchiaio d’argento con il quale sta mangiando la zuppa di mare. Ci si specchia per un attimo, sembra cercarsi.
“Quello che ho fatto non l’ho fatto da sola. Senti, io capisco che quello che stai facendo è forse necessario, probabilmente impossibile da non fare, ma facciamo una cosa. Facciamo l’impossibile: immagina che stai parlando con una persona morta, non con una che ha finto la sua morte. Non parliamo di tutta quella storia. Parliamo di altro.” Si volta a guardare il mare buio. Sembra specchiarcisi.
“Va bene. E di cosa vorrebbe che parlassimo?”
“Non hai preparato il nostro incontro? Hai passato otto mesi a pensare solo a scoprire il mio segreto?”
“No. Non credo. Però è ovvio che vorrei sapere il perché.”
“Il perché di cosa?”
“Perché ha fatto quello che ha fatto. Perché ha lasciato tutti in quel modo.”
“Perché ero ammalata.”
Avevo avuto un’imbeccata improvvisa, a maggio del 2017. L’avevo presa sottogamba, non ci avevo badato molto, come non si bada a tutte quelle cose che, prima di diventare incredibili, occorre guardarle dal dentro. Perché dal fuori – siccome sono incredibili – hanno un aspetto invalutabile e meno vulnerabile.
Un amico di Milano era venuto a Berlino per qualche giorno. Ci eravamo visti una sera, avevamo bevuto qualche birra in un posto buio e fumoso. Lui continuava a tossire, io continuavo a fumare. Verso l’una di notte mi aveva detto: “Che faresti se avessi delle informazioni assurde che non ha nessuno riguardo un personaggio dello spettacolo che tutti conoscono?” Gli avevo risposto: “Ti direi di dirmele e poi valuterei se davvero sono informazioni reali e se davvero mi interessano. ”
Lui mi aveva detto che probabilmente non gli avrei creduto, ma così facendo avrei perso un’opportunità importante.
Gli avevo detto “Ok, allora dimmelo.” E lui me lo aveva detto.
“La prima cosa che mi è passata per la mente quando ho capito che era tutto vero, sono stati Elvis Presley e Michael Jackson. Ho pensato a tutti i film e i documentari che hanno fatto su di loro.”
“Secondo me Michael Jackson è morto sul serio. Non è scappato da nessuna parte.” mi dice senza guardarmi. Si osserva una mano, la gira e rigira come fosse un oggetto non suo.
“Invece Elvis?”
“Elvis era vivo quando era morto.” Ride, probabilmente più per la costruzione della frase che per l’affermazione.
Poi continua.
“Quanti anni hai?”
“Trentasei, fra un paio di mesi trentasette.”
“Sei sposato? Hai figli?”
“Sì, ho un bambino piccolo, ha due anni e mezzo.”
“Quando io facevo il porno tu eri un ragazzino.”
“Stavo entrando nell’età delle scoperte, voglio dire… quelle scoperte.”
“È un periodo bello.”
“È un momento doloroso.”
Mi guarda e si perde in pensieri lontani. Poi si volta verso l’uomo di mezza età appoggiato al cofano dell’utilitaria dalla quale è scesa. Non ricordo di averlo visto scendere dall’auto.
“Hai voglia di fare due passi?” mi domanda.
“Certo. Il conto lo pago io.”
“Non insisterò.”
Fuori, attraversiamo la strada e andiamo sul lungomare. Moana Pozzi, o il suo fantasma, fa un cenno con la mano verso l’autista. Lui annuisce e ci incamminiamo dalla parte opposta.
Mi chiede ancora il braccio.
“Fammi una domanda.” dice poi.
“Ok.” e prendo tempo. E camminiamo.
“Fammi adesso l’ultima domanda.” dice, si guarda i piedi dentro delle scarpe lucide di vernice rossa. Ho come la sensazione che non potrei vedere quelle scarpe addosso a nessun’altra donna.
“Le devo fare la domanda con la quale avrei chiuso l’intervista?”
“Sì.”
“Non ce l’ho. Non ho preparato l’ultima domanda.”
“Sei un bravo giornalista. Allora domandami ciò che non mi domanderesti mai.”
Ci penso. Continuiamo a camminare, avvicinandoci al molo.
“Ha ancora voglia di fare sesso?”
“È una domanda incompleta.”
“È una domanda che non le farei mai.”
“Dovresti domandarmi: ‘hai ancora voglia di fare sesso alla tua età, dopo che hai votato la tua vita al sesso?”
“Non le darei del tu. Cosa mi risponderebbe?”
“Che non ho votato la mia vita al sesso. Ho votato la mia carriera al sesso. C’è una grossa differenza.”
“Sarebbe in ogni caso una domanda stupida, che non le farei mai. Oltretutto non mi sembra lei abbia votato la sua vita al sesso, tantomeno la carriera. Ha fatto molte altre cose e qualche volta le ha fatte anche bene.”
“Dici bene: qualche volta.” sorride e si perde ancora.
“Comunque sì, ho ancora voglia di fare sesso” si ferma il tempo di prendere un respiro che non percepisco “e a quel punto tu dovresti farmi l’altra domanda, quella che viene naturalmente dopo.”
“Non glielo chiederei mai.”
“Perché?”
“Perché non cerco quel tipo di risposte.”
“Però cerchi uno scoop.”
“Può darsi.”
“Sei un bravo giornalista.”
“Le faccio un’altra domanda che non le farei?”
“Certo.”
“Ha cambiato nome? Voglio dire la gente che conosce adesso, i suoi attuali amici, come la chiamano? Moana?”
“Non mi chiamano Moana. Te lo dico ma non lo puoi scrivere nella tua intervista.”
“Ok.”
Era passato altro tempo, quasi due mesi, poi il mio amico mi aveva inviato un messaggio e mi aveva chiesto di sentirci via Skype. Quando l’avevo chiamato mi aveva detto che c’erano grosse possibilità che la mia intervista andasse in porto. Gli avevo domandato di darmi dettagli e lui me li aveva dati.
Ci eravamo sentiti ancora un paio di volte durante quel mese poi, a inizio agosto, mi aveva detto ‘ci siamo, a metà settembre vai in Corsica.’
Sul molo c’è vento. Le domando se vuole la mia giacca, ottemperando ad una galanteria che non ho mai posseduto e lei mi risponde ‘Oh no, si sta così bene.’
“Segue ancora l’attualità?”
“Certo. Sarei matta se non lo facessi.”
“Cosa pensa della pornografia? Voglio dire, quello che è diventata l’industria del porno.”
“La pornografia è una cosa e l’industria del porno è un’altra cosa.”
“È vero.”
“La pornografia non è mai cambiata, è sempre la stessa identica cosa. Tale e quale alla pornografia di Moana, Ilona, Luana Borgia, Rocco Siffredi e via dicendo. Si è evoluta come si evolve ogni cosa con il tempo.”
“Ho sempre pensato si fosse involuta.”
“Chiedilo ad un ventenne. Fagli vedere un porno in cui ci siamo io e Ilona e poi fagliene vedere uno in cui c’è Valentina Nappi, poi dimmi cosa ti risponde.”
“Però l’evoluzione o l’involuzione di qualcosa non può essere soggettiva.”
“L’essere umano nel tempo si è evoluto o involuto?”
“Evoluto, mi viene in mente il disegno della scimmia che si raddrizza e perde pelo, la scatola cranica si ridimensiona, poi la scimmia non è più una scimmia, è eretta e brandisce una clava, poi regge una lancia e infine è un uomo.”
“La scimmia di cui parli è sempre stata un uomo. È qui il trucco.”
“Cosa c’entra con l’evoluzione o l’involuzione della pornografia?”
“La pornografia è sempre stata la pornografia, si è solo adattata ai tempi come l’uomo si è adattato alle Ere che ha attraversato. E continuerà a cambiare per potersi adattare.”
Mi tira per un braccio e riprendiamo a camminare.
“Prima ha citato solo nomi italiani.”
“In che senso?”
“Ha citato Ilona Staller, Luana Borgia, Rocco Siffredi e Valentina Nappi.”
“Ilona non è italiana. Quello era il mio mondo, a parte Valentina Nappi che non era nemmeno nata. Eravamo noi, Schicchi e qualcun altro. In Italia ruotava tutto attorno alle nostre figure. Abbiamo portato il porno nei salotti.”
“Però lei è diventata un’icona in tutto il mondo, non solo in Italia, al pari di – per citarne una su tutte – Jenna Jameson.”
“Jenna Jameson è più giovane di me. È arrivata dopo.”
“Dopo ma durante.”
“Si vede che sei giovane. Torniamo indietro?”
Arriviamo nei pressi dell’auto senza esserci detti nient’altro. Per una manciata di minuti camminiamo in silenzio. Reggo sotto braccio questa donna corpulenta ma fragile, sento la fatica dei suoi passi. Realizzo solo ora che indossa dei pantaloni e mi sembra strano. Mi sento bigotto, ma non so se è la parola giusta.
L’autista è nella stessa posizione di quando ci siamo allontanati, appoggiato al cofano. Fuma. Assomiglia al Duce.
Moana Pozzi si ferma qualche metro prima.
“L’industria del porno si è involuta perché il porno si è evoluto. Oppure l’industria del porno si è evoluta con conseguenze banali ma disastrose.”
“Perché disastrose? Perché non si guadagna più come prima?”
“Assolutamente no. Probabilmente si guadagnano più soldi di prima, solo che sono distribuiti in modo diverso e arrivano in punti diversi rispetto a prima.”
“Cosa significa?”
“Significa che, un tempo, le case di distribuzione erano l’Olimpo del porno, i registi erano i Re del porno, le pornoattrici erano le Dee del porno e_” si ferma, scuote la testa e ride “e Rocco Siffredi, beh, lui era il Dio degli Dei.”
“Non ne ho dubbi.”
“Attenzione, non mi riferivo alle dimensioni del suo pene, ma alla sua personalità. Al modo che aveva di percepire il porno e a come trasmetteva il messaggio.”
“Non mi riferivo al suo pene.”
“Per questo è disastroso. Da un certo momento in poi l’Olimpo ha iniziato a chiamarsi PornHub, YouPorn e via dicendo. I registi sono stati cacciati, esiliati tra i mortali, orefici tra i tornitori, relegati a mansioni da fabbrica, un lavoro a cottimo minacciato da un amatoriale che ha guadagnato un livello di professionalità indecente. Le Dee sono entrate nelle case di tutti in un modo troppo semplice, sono passate da intoccabili a vulnerabili. E come sai la vulnerabilità è soggetta ad abuso. Soprattutto se si tratta di sesso. Capisci? È venuta a mancare la magia.”
“Però è stata proprio lei, qualche minuto fa, a dirmi che la pornografia non si è involuta.”
“La pornografia si è evoluta, è cambiata per stare al passo con quello che stava accadendo nel mondo. E il mondo aveva bisogno di correre o forse soltanto di accelerare. Internet è stato il bolide che molti sapevano di poter cavalcare, a costo di cascare di sotto. Ma la magia si è persa. La magia e l’imbarazzo di una cosa che non tutti accettavano e a cui non tutti potevano arrivare.”
Mentre termina la frase, l’autista si alza dal cofano e lei s’interrompe. Lo guarda un istante e poi mi chiede se ho voglia di fare colazione con lei.
“Adesso?”
Ride di una risata rauca, profonda e timida.
“Domattina.”
“Certo.”
“Quando devi lasciare l’isola?”
“Non devo.”
“Si deve sempre lasciare prima o poi. L’importante è trovare il momento giusto.”
Non rispondo.
“Domattina nello stesso Café alle dieci.” Poi se ne va, dondolando come dondola il mare.
“Un giorno mio padre mi becca mentre mi sto masturbando.”
Il sole è steso sul tavolino di ferro come una tovaglia di luce. Moana Pozzi se lo prende tutto. È incredibile quanto fascino riesca ad emanare questa donna di quasi sessant’anni. Mi ricorda una Dea contemporanea: l’ho immaginata così fragile e mi sono sbagliato.
“Com’è successo?” chiede mentre estrae qualcosa dalla grossa borsa di cuoio e me lo porge, come a chiedermi se ne voglio. Sono salviette umidificate. Dico no grazie.
“Era domenica pomeriggio, mia madre riposava in camera dei miei, mio fratello era a casa di qualche amico, mio padre si era addormentato sul divano guardando il Giro d’Italia. Io ero in camera mia, sdraiato sul letto. Mi alzo, vado in sala a controllare se stia realmente dormendo, poi torno in camera e chiudo la porta.
Faccio zapping sul televisore minuscolo che lui stesso aveva attaccato alla parete con un gancio, in alto, di fianco alla finestra che dava sulla strada. È assurdo quanto fosse piccola quella cavolo di TV. Su una rete regionale trasmettevano Amerika Star. Se lo ricorda Amerika Star?”
“Sì.”
“C’era questa tizia sul massaggiatore in funzione, una ragazza mulatta con un bikini a perizoma. Le inquadrature erano strette sulle sue natiche che parevano di gelatina. Un budino di cioccolatto al latte. C’era quest’altra tizia in sottofondo che urlava delle cose che non mi andava di ascoltare. Di tanto in tanto la inquadravano. Sembrava si fosse rifatta l’intero volto. Non c’era niente di lei che non era stato ricostruito. C’era un numero di telefono in sovraimpressione. Io avevo sedici anni, forse quindici. Mi slaccio i pantaloni e inizio a masturbarmi. Vado avanti almeno una ventina di minuti. Poi mio padre entra in camera. Io rimango con il pene nel pugno a guardarlo, mentre sento che mi si ammoscia dentro la mano. Non faccio nulla per nascondermi perché non potrei nascondermi da nessuna parte. Lui resta senza parole per qualche secondo, poi mi dice ‘che cazzo stai facendo?’
Io non gli rispondo, lo guardo e basta con addosso una sensazione che non ho mai provato e mai avrei più provato. Lui mi dice di alzarmi e andarmene. ‘Va’ a farti un giro’ mi dice. Poi esce e si chiude in bagno.”
“Te lo ricordi molto bene. Anche i dettagli.”
“Il mio lavoro è fatto di dettagli da ricordare, immagino sia portato. Non dimenticherò mai quel momento.”
“Quale?”
“Quello in cui mio padre mi chiese cosa stessi facendo.”
“Perché?”
“Perché provai una grande pena per lui. Non mi sono mai dispiaciuto tanto in tutta la mia vita. Non ero imbarazzato oppure spaventato da quella che avrebbe potuto essere la sua reazione ad una cosa del genere. Ero distrutto dal dispiacere che gli avevo provocato.”
“Come puoi essere sicuro di avergli fatto del male?”
“Perché gliel’ho letto negli occhi.”
“Ne avete mai parlato?”
“No.”
“E allora come puoi esserne certo?”
“Perché come un padre conosce bene il proprio figlio, anche un figlio conosce bene il proprio padre.”
“Ti sbagli di grosso.”
Ogni cosa che Moana Pozzi dice, la dice sorridendo. Non sempre con le labbra, a volte soltanto con gli occhi, è un sorriso inconfondibile, di cui non ci si può sbagliare.
“Lei ha mai provato imbarazzo per quello che faceva?”
“Ho provato più imbarazzo per quello che non facevo.”
“In che senso?”
“Ho provato imbarazzo per non avere avuto il coraggio di fare determinate cose.”
“Per esempio?”
“Accettare quello che stavo diventando, ciò che non ero più. Forse accettare una malattia che mi ha portata via dalle cose che amavo fare di più.”
“È un po’ il grande tema del mondo. Intendo dire che a volte non ci vuole coraggio a fare qualcosa di coraggioso e poi arriva un imprevisto che ti costringe ad avere coraggio nel fare qualcosa di normale.”
“È vero.” sorride ancora, ma di un sorriso amaro, accentuato dalla sua bellezza.
“La malattia è passata poi, a quanto pare.”
“Sì, sono guarita fuori e dentro, ma era già passato troppo tempo e troppe decisioni prese in un momento sbagliato. Vedi, è tutto lì il gioco delle parti quando le parti sei tu contro te stessa. L’essere umano non è in grado di fermarsi a ragionare. A volte è convinto di saperlo fare e lo fa, ma non gli riesce mai veramente. È solo una costruzione mentale. Ti racconto una cosa su cui ho riflettuto molto. Hai voglia?”
“Certo.”
“Te la ricordi la famosa intervista che ho fatto con Gigi Marzullo a Sottovoce, il programma della RAI? C’è un estratto su Youtube. Sul finale lui mi chiede di mandare un messaggio agli italiani e io rispondo che è importante vivere la propria vita con coraggio, facendo veramente quello che si vuole, perché è la cosa più bella che possa capitare a qualcuno.”
“Mi ricordo quell’intervista, l’ho vista parecchie volte prima di incontrarla.”
“Immediatamente dopo, Marzullo mi chiede se abbia mai provato imbarazzo spogliandomi e io rispondo che provo vergogna se mi trovo un difetto e la prima cosa che penso è rimediarlo. Ecco, in quelle mie due risposte, avvenute l’una in seguito all’altra, ad una manciata di secondi di distanza c’è tutto quello che ho costruito quando me ne sono andata, quando ho finto di morire. In quelle risposte c’è Moana contro Moana. Mostravo una coerenza che non avevo, nascondendomi dietro il fatto di essere un’esteta. È quando il problema, il più grande della mia vita, mi si è parato davanti come una luce forte ad evidenziare tutti i miei difetti, che ho iniziato a costruire con la mente una scialuppa di salvataggio improbabile, ma soprattutto incoerente rispetto a quello che dicevo di essere e provavo ad essere fin dall’inizio della mia carriera.” Si interrompe lasciandomi senza domande come un cattivo intervistatore, ma non pretende nient’altro ed io so che abbiamo finito, perché glielo leggo addosso.
“Non mi ha chiesto molte delle cose che probabilmente tanta gente avrebbe voluto sapere.” dice dopo aver insistito a pagare il conto. Mi chiede ancora il braccio mentre camminiamo verso l’auto. Il ragazzo che con l’oscurità assomigliava al Duce ora è solo un ragazzo con un bel fisico e una camicia stirata male.
“Ho come l’impressione che non sia stato io a condurre l’intervista.”
“Non sarei stata coerente se l’avessi fatta condurre a te.” si volta a guardarmi, le sue iridi sono così vicine a me che provo una malinconia immensa, senza sapere realmente perché.
“Ora puoi lasciare l’isola.” Mi dice mentre torna a mettere un passo davanti l’altro, ondeggiando con grazia.
“Lo sai che nessuno ti crederà, che non ci sarà nessuno scoop e che forse in molti ti insulteranno per avere offeso la mia memoria?”
“Potrei fingere di aver inventato l’intervista.”
“Perché?”
“Perché a volte ci vuole coraggio a lasciare andare le cose preziose.”
“E né io né te ne abbiamo.”
“È così.”
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Wale Café
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