L’illustrazione di copertina è di Marta Bianchi
La composizione del pezzo è a cura di Francesco Somigli
Abbiamo chiesto a tutti i membri della redazione di inviarci una lista con i cinque film girati negli anni Duemiladieci, nel decennio 2010-2019, secondo loro più belli e importanti. Per provare a rendere la rilevazione ancora più oggettiva, abbiamo ampliato il parterre di contributi, aggiungendo al conto oltre quaranta liste inviate da esperti esterni, scelti in un intervallo vario e trasversale di età, occupazione, residenze e interessi.
Siamo quindi arrivati alla fine del nostro viaggio antologico nel mondo del cinema. E ci siamo giunti con la mente piena di pellicole da recuperare e una sensazione di malinconia per qualcosa che si è concluso. Il 2019 è l’anno di chiusura della nostra classifica ma è anche, inaspettatamente, l’ultimo anno del cinema come lo abbiamo vissuto finora. Cosa succederà dopo la pandemia? Come si ripartirà? Con quali accortezze? Tutte domande per ora senza risposta.
Una cosa però è certa e rassicurante: il cinema non morirà. Mai come adesso abbiamo bisogno di emozioni e sogni, della pura essenza della settima arte. E allora, impossibilitati momentaneamente a vedere quello che c’è davanti, giriamo la testa all’indietro per ricordare cosa ci è piaciuto di più del decennio appena trascorso. Dalle citazioni di Quentin Tarantino alla concettualità di Christopher Nolan. Senza lasciare indietro il cinema che viene da più lontanto, dalla Corea del Sud di Bong Joon-Ho all’Iran di Farhadi.
Come sempre accade in queste liste, molti film che sarebbe stato bello inserire sono invece rimasti fuori. Vorremmo quindi menzionare, fra i tanti, The lobster, Amour, Carnage, Capharnaum e l’italiano Dogman.
La scelta definitiva è stata così realizzata:
1) I venti film che hanno effettivamente accumulato più voti;
2) Cinque film che sono stati votati, non ce l’hanno fatta ad entrare fra i primi venti, ma che la giuria di qualità ha ripescato perché considerati meritevoli;
3) Sei film che non ha nominato nessuno e che sono stati scelti dall’eccezionale giuria di qualità, di cui non possiamo rivelare i nomi per questioni di privacy e prestigio (fra i componenti e le componenti vi sono grandi nomi della critica cinematografica mondiale, che non possono, per contratto, comparire su Yanez).
Le liste non accontentano mai nessuno, e sono difficili da stilare, ma noi ci abbiamo provato.
Si tratta di un divertissement, e come tale va preso.
Avvertenze: gli scritti che accompagnano i film nominati sono di vario stile e forma, non seguono la regola statica della recensione e si propongono, piuttosto, come dei commenti aperti, dei racconti, dei ricordi, delle cronache di visione.
Qui la lista dei 33 migliori film degli anni Sessanta
Qui la lista dei 33 migliori film degli Settanta
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Ottanta
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Novanta
Qui la lista dei 30 migliori film degli anni Duemila
31. American Sniper (Clint Eastwood, 2014)
Navy Seals: acronimo che sta per Sea, Air, Lands.
Bradley Cooper, professione cecchino (Chris Kyle), primo bersaglio un ragazzino appena pubescente.
Questo è uno dei film più pacifisti che mi sia capitato di vedere. A differenza di altre pellicole che parlano di guerra di cui sarebbe inopportuno citare il titolo questa di Clint Eastwood propaga un’aura molto più denigratoria rispetto ai valori fondanti di una nazione che di guerra ed armi ha fatto una ragione costituzionale. Ma su tutto, ciò che rende il film particolarmente realistico o attendibile è la fragilità umana, della psiche umana, dell’esperienza inutile ma quotidiana della belligeranza che sovverte valori morali, etici, costrutti che culturalmente ci hanno formato o ci formano quotidianamente.
Non è il caso di parlare di tecnica filmica: nel 2020 è pressoché retorica futile, l’immagini sono pornograficamente attendibili, nient’altro da aggiungere.
“È una cosa grossa fermare un cuore che batte” mi sembra la chiosa più adatta per descrivere il senso etico dell’esperienza visiva di questo film.
Antonello Pesce
30. Leviathan (Andrej Zvjagintsev, 2014)
Un film enorme, monumentale, ciclopico, che ti schiaccia dolcemente con la sua fredda ambizione di voler sintetizzare tutto il dolore del mondo. C’è una fotografia soffusa, calma, che si contrappone alla disperazione dei volti e delle situazioni. Un villaggio sul mare di Barents, una famiglia che non vuole abbandonare la sua casa, la corruzione politica dei russi cattivi che non mollano e poi il tradimento, e il senso di colpa che ne segue, a spaccare i nostri cuori, in due parti perfette. Bisogna abbandonarsi all’inquietudine lenta di Zvjagintsev, alle facce durissime dei suoi personaggi, ai paesaggi la cui bellezza è così tanta, da divenire, anch’essa, un blocco di cemento e di afflizione. C’è Tarkovskij, certo. Ma non soltanto. Ci sono pure, almeno a piccoli pezzi, Antonioni, Bresson, Juan Antonio Bardem.
No, Leviathan non è un film per tutti. Come la purezza, d’altronde.
Metadone Melendeto
29. Il discorso del re (Tom Hooper, 2010)
The King’s Speech. Questo il titolo originale del film di Tom Hooper, successo di critica e di pubblico e premiato, fra gli altri, con quattro Oscar, un Golden Globe a Colin Firth e sette premi BAFTA. La parola “speech” in inglese ha una ricchezza semantica nettamente superiore all’italiano “discorso” e coglie quindi meglio la stratificazione di significati e di registri linguistici del film. “Speech” indica, infatti, non solo il “discorso”, su cui si è puntato nella resa italiana, bensì anche la “parlata” e ancora, in ambito teatrale, le “battute” recitate dagli attori.
Sia chiaro, il discorso è stato, sia nell’economia del film sia nella Storia reale, la chiave di volta della vicenda esistenziale di Giorgio VI che, a partire da quell’annuncio alla nazione, fece della radio lo strumento per essere vicino e dare coraggio al popolo inglese durante i terribili anni di guerra. Scelta, questa, che lo rese un sovrano amatissimo.
Altrettanto importante è il secondo significato di speech, quello di parlata, che allude ovviamente alla parlata balbuziente del sovrano e alle sedute di logopedia, la speech therapy appunto, cui si sottopose a lungo.
Meno scontato e però, a mio parere, altrettanto importante è il terzo significato di “speech”, quello di “battute” di un copione. E il film è infarcito come pochi altri di citazioni shakespeariane. Il principe Albert, che ancora non pensa di diventare re, recita l’«essere o non essere» di Amleto, il principe più celebre della tradizione anglosassone (e mondiale). E il logopedista e mancato attore Lionel Logue, dal canto suo, cita di continuo il Riccardo III e, per dilettare i figli, alcuni versi di Calibano nella Tempesta. Se Riccardo, il re deforme e ambizioso, è l’alter ego del riluttante Giorgio VI (anche se la sua deformità fisica può essere letta come una metafora della “deformità” linguistica di quest’ultimo), le parole di Calibano incarnano il senso profondo del film, uno straordinario elogio al potere e alla magia della lingua: «Be not afeard; the isle is full of noises, / Sounds and sweet airs, that give delight and hurt not. / Sometimes a thousand twangling instruments / Will hum about mine ears, and sometime voices / That, if I then had waked after long sleep, / Will make me sleep again: and then, in dreaming, / and then, in dreaming, / The clouds methought would open and show riches / Ready to drop upon me that, when I waked, / I cried to dream again.» (III, ii, 138-46)
Elisa Leonzio
28. Il giovane favoloso (Mario Martone, 2014)
Qualche giorno fa una famigerata politica ha avuto l’ardore di dire che le Marche sono la prima regione del sud. Non ci sarebbe nulla di male di per sé, siamo tutti il sud di qualcun altro, in fondo, ma questo episodio denota un atteggiamento che noi marchigiani osserviamo spesso nei nostri connazionali. Ovvero: non ci si fila nessuno. Siamo un po’ il primo Molise del nord, mi verrebbe da dire. Ecco, se a noi marchigiani questo in fondo fa sorridere, e ci sta pure bene così perché siamo profondamente autarchici e plurali (lE MarchE), e quindi ci piace stare per conto nostro e non ci sembra di avere nulla da invidiare alle altre regioni, dato che spaziamo dal mare alla montagna passando per i meravigliosi colli.
Ma su una cosa non transigiamo, e ci troviamo tutti d’accordo (dalle Marche-Romagna fino alle Marche-Zozze): nessuno tocchi Giacomo Leopardi.
Ci fa quasi pena l’italiano che non ci conosce, ma non tanto perché ignora il mare stupendo, il mangiare divino, i Monti Sibillini e i piccoli borghi ricchi di cultura. Va bene tutto, pensiamo, “Ma almeno Giacomo Leopardi, l’avrai sentitu nomina’ armeno ‘na ‘orda, porcamadoro!”. Insomma è l’orgoglio regionale, più di Raffaello, per dire!
Eppure, anche Leopardi era marchigiano, ovvero sapeva bene che la vita succedeva altrove, che restare nelle Marche voleva dire arrendersi a una prudenza molto più simile alla morte che alla vita. Che la sua era una terra da difendere solo dai giudizi di chi non la conosce, ma che nell’animo andava maledetta per la sua immobilità cronica. E a tutto questo reagiva con un’ironia feroce, l’unica àncora capace di tenerlo aggrappato all’infinita insensatezza della condizione umana. Il modo che abbiamo ancora tutt’oggi in quella terra al plurale per smorzare un po’ la malinconia.
Ecco nel film tutto questo si vede benissimo, si vede l’altrove sperato, agognato, sognato. L’altrove che però alla fine tradisce, perché caro, nel cuore, rimarrà sempre e solo l’ermo colle.
Oltre a questo, aggiungo che ci sono almeno altri tre motivi per cui vedere il film di Martone: la magistrale interpretazione di Elio Germano; la gioia di sentire finalmente la cadenza marchigiana (dal volgo, naturalmente, non dai nobili) in un film che non sia con De Sica, le poesie di Leopardi che vibrano nell’anima e infine la colonna sonora, che spazia tra i secoli e i generi a rammentarci che la natura umana quella è, ed è immutabile.
Claudia Valentini
27. Una separazione (Asghar Farhadi, 2011)
Una separazione si apre e si chiude in un’aula di tribunale. Simin e Nader vogliono separarsi, lei sogna un futuro migliore per la figlia Tameh lontano dall’Iran, lui vuole restare a Teheran per accudire il vecchio padre, malato di Alzheimer. I due coniugi, colti e raffinati, si confrontano davanti al giudice, con battute serratissime, quasi sovrapposte, che ricordano un po’ i dialoghi sofisticati di Woody Allen. Nell’ultima scena, sempre davanti al giudice, vi è la undicenne Tameh, che deve decidere con quale dei due genitori desidera rimanere a vivere.
Nel mezzo c’è un altro tribunale, si svolge un altro processo, che ha però per oggetto un possibile omicidio. Nader ha spinto giù dalle scale Razieh, la donna assunta per badare all’anziano padre, che è incinta e dopo la caduta ha un aborto spontaneo. Poiché il feto è già considerato un essere umano, la questione diventa dimostrare se Nader era al corrente o meno della gravidanza. Se sì, sarà condannato e andrà in carcere. Altrimenti sarà libero.
Nel film di fatto non accade molto altro. Tutto è confinato nei dialoghi: le capacità retoriche di Simin e Nader da un lato e la fede di Razieh e del marito Houjat dall’altro. E nel loro conflitto, nel conflitto tra una famiglia dell’alta borghesia colta che a fatica si riconosce nel proprio paese e un’altra più semplice e ancorata alle tradizioni (soprattutto nella vivida fede di Razieh), si riflette un interessante quadro di vita dell’Iran contemporaneo con la sua evidente spaccatura etica e sociale, in cui si scontrano diversi modi di concepire la colpa, la giustizia e il castigo. Tematiche comuni all’umanità intera, ma che nel contesto iraniano portano con sé un’importante carica polemica e un forte potenziale di critica.
Elisa Scardanelli
26. Birdman (Alejandro Gonzalez Iñárritu 2014)
Hollywood o Broadway? Essere una celebrità o essere un attore? Queste sono le crepe che dilaniano l’esistenza di Riggan Thomson, artista noto principalmente per aver interpretato il supereroe protagonista della saga di Birdman (ruolo ormai cucitogli addosso in maniera indissolubile), ma intenzionato a salvare la sua carriera per mezzo del teatro.
Birdman, che richiama limpidamente il Batman di Tim Burton (1989) impersonato da Michael Keaton, aka il nostro Thomson, è un grillo parlante, un suadente alter ego che non accetta sconfitte. L’universo del teatro non è docile con Riggan, che fatica a sentirsi accettato in un ambiente in cui le regole imposte sono ben lontane da quelle su un set governato dalla cinepresa. Il Birdman che alberga in lui è affamato di notorietà e pervaso da istinti demiurgici. Necessita di essere ricordato a ogni costo. Sarà infatti proprio il supereroe a indicare al suo “ospite” la strada da seguire per raggiungere lo scopo: rivoluzionare il finale dello spettacolo.
Il gesto “superrealista” compiuto da Riggan Thomson, così definito dalla temuta colonnista del New York Times in un elogio alla prima del rifacimento dell’opera Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver, ha valore di riscatto nei confronti della sua carriera. Con un colpo di scena, come accade a Hollywood. Con mondi immaginari che si mescolano a quelli reali offuscando ogni confine, come accade a Hollywood.
Ambra Cavallaro
25. Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015)
Mad Max Fury Road è speciale. Le prime pagine di sceneggiatura sono piene di descrizioni; i dialoghi sono scarni, un fatto raro. Perché costumi, set e personaggi vengono spesso ridefiniti in corso d’opera; quello che serve ai produttori per dare il via a una sceneggiatura sono gli scambi tra i personaggi.
Ma Mad Max è così. È un film originale, che si fida dell’intelligenza di chi guarda ma richiede fiducia: si lascia dedurre, scoprire, gioca con il linguaggio visuale senza spiegare niente. È distopico ma non si lagna. È incentrato sulla solidarietà universale, in un mondo dove le donne possono solo lattare e fecondare; e in base al gruppo sanguigno, gli uomini vengono spremuti goccia per goccia.
Siamo in una comunità nel deserto australiano.
Acqua, cibo e benzina mancano; resiste solo l’attaccamento alla vita.
C’è chi prova a fuggire in macchina, seguito da orde motorizzate rapaci. Farlo da soli è suicida: serve fidarsi, riunirsi, aiutarsi. Max può riuscirci se segue Furiosa, una ribelle menomata e intelligente, che rifiuta il futuro di lattazione per sé e le sue giovani compagne di viaggio. Con motivazioni diverse (non sempre chiare), tutti sono in fuga dal testosterone.
Le uniche salvezze? Il martirio o l’ignoto delle autostrade.
Mad Max è anche una fuga dalle formule stanche dei blockbuster occidentali, con cui condivide pubblico e ambizioni. Mescola effetti speciali raffinati a una narrazione che si fida di chi sa aspettare; sfida l’archetipo della donzella indifesa; infonde un’adrenalina introvabile. È tenero e arido. È veloce e profondo. È una storia di riscatto, ma soprattutto una gioia per gli occhi.
Fury Road un film d’azione purista: la gente fa quando deve fare, parla se necessario. E se per scappare dalla banalità serve un chitarrista in lanciafiamme… ben venga!
Djo Žalpya
24. The Lighthouse (Robert Eggers, 2019)
The Lighthouse è stato l’ultimo film che ho visto al cinema prima che il mondo si fermasse. Eravamo in pochi, in una sala di seconda o terza visione. Stavo vedendo un film apocalittico mentre intorno a me un’apocalisse più tangibile iniziava a farsi largo. Ho avuto i brividi per la prima mezz’ora si proiezione, raggelato dal suono cupo e onnipresente del nautofono del faro e dall’incessante pioggia che cade su due uomini alla deriva, Ephraim Winslow e Thomas Wake.
Quello che sembra un film di formazione, in cui un giovane apprendista viene svezzato dal collega più esperto, si trasforma velocemente in qualcosa di inafferrabile. The Lighthouse è pura follia in 35mm, è quell’incubo ricorrente che torna ciclicamente a terrorizzarci nelle ore più buie della notte facendoci desiderare il risveglio. Senza scampo.
E allora l’incubo continua, precipita, diventa sempre più orribile e incomprensibile. È il sogno o la realtà? E se il sogno fosse la realtà?
Winslow e Wake sono due miserabili, sbattuti dalla vita su uno scoglio ai confini del mondo, innaffiati da secchiate d’acqua, bottiglie di alcool e fiumi d’odio. L’isolamento gioca con le loro menti, mentre Eggers gioca con le nostre, sfrutta lo stato di grazia di un sempre colossale Willem Defoe e di un sorprendente Robert Pattinson, aggiunge allo shaker un’oncia di Edgar Allan Poe, un po’ di Lovecraft e molta mitologia greca e ci serve un cocktail incomprensibile (in senso buono).
In fin dei conti, pensateci: se tutto fosse perfettamente chiaro, che razza di incubo sarebbe?
Ed Crane
23. Il caso Spotlight (Tom McCarthy, 2015)
“Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina”
Giacomo Leopardi
“Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi”
Aldo Moro
Finalmente un film bellissimo, girato in modo semplice e diretto. Inoltre, come accade poche volte (purtroppo), un film in cui gli attori danno tutto quello che hanno con professionalità e partecipazione emotiva. Pensando di fare il fenomeno (“oramai i film buoni di inchiesta non esistono più” auto cit.) lo vidi qualche mese dopo l’uscita, distrattamente, e non mi piacque. O almeno così pensai. Poi, dopo che mia sorella e la sua amica Anna mi insultarono, per fortuna lo recuperai e lo rividi con la calma e lucidità. Ecco, lì, come a volte accade, realizzi di aver skippato un altro grande film, tanto per, alla Mario Sconcerti, noto giornalista sportivo che a leggerlo o sentirlo parlare dà la sensazione di essersi bevuto a boccia una bottiglia intera di Assenzio con lo Jäger e le uova intere dentro – “Ronaldo alla Juve al massimo potrà fare solo panchina”.
Siamo nel 2001. Una squadra di giornalisti del Boston Globe scopre una serie di abusi perpetrati dall’Arcidiocesi di Boston ai danni di numerosi minori. Il caso fa scalpore e si scontra con i media che sono impegnati a coprire per lo più le Torri Gemelle. Un film che è una sorpresa meravigliosa, un’opera di inchiesta giornalistica come non se ne vedevano dagli anni ’70 – un decennio, quello, dove sia negli USA che in Italia, artisti e registi sfruttarono un periodo felice di illusoria e momentanea libertà artistica. Una libertà, col senno di poi, dovuta solo all’instabilità politica generale e ad un movimento di protesta confuso, arrabbiato e in realtà, come ci ha insegnato tra gli altri anche Pasolini, manovrato.
Il regista Thomas McCarthy ci accompagna per tutto il film introducendoci ai personaggi ed evitando inutili lungaggini e didascalie. Riesce nel difficilissimo compito di, da una parte, valorizzare la recitazione e restituire il dramma, dall’altra, restituire i fatti in modo chiaro, lucido e fedele, non cadendo mai in momenti strappa Oscar/strappa lacrime/strappa maroni. Ultimo ma non meno importante (era anni che volevo scriverlo), è l’interessante, filologico spettro di Internet che serpeggia per tutto il film, e che di lì a poco, infatti, esploderà, con i vari Google, Amazon e social vari, fissando un punto di non ritorno per i media e la vita quotidiana di tutti noi.
Questo film ha ottenuto un meritato (non succede spesso) premio Oscar nel 2015. Un film delicato e profondo che è anche il frutto dell’incontro tra il lavoro del team investigativo del Boston Globe – il gruppo Spotlight (“Illuminazione”) e quello del regista Thomas McCarthy, che va al di là della vicenda specifica e decide di parlare della verità al servizio dell’etica. E non, come spesso succede, l’esatto contrario.
Amerigo Biadaioli
22. Django Unchained (Quentin Tarantino, 2012)
Kerry Washington, durante la conferenza stampa di Django Unchained, ha dichiarato di aver accettato il ruolo di Broomhilda non solo per il cast, non solo perché il regista fosse Tarantino, non solo perché raccontasse una storia di liberazione dallo schiavismo, ma anche per suo padre “che ha vissuto in un’epoca in cui non c’erano supereroi neri”. Django (Jamie Foxx) è un simbolo di resistenza, ma soprattutto di ribellione. “Nessuno fa il tifo per lo schiavo nero perché uccida il padrone bianco, ma perché conquisti la libertà e salvi sua moglie” ha detto il regista. La schiavitù negli USA nasce nel 1776, insieme alla nazione, e sarà abolita nel 1865, dopo la guerra civile. Il film, ispirato a Django di Sergio Corbucci, è ambientato nel 1858 proprio in quegli Stati del Sud in cui uomini e donne neri vengono venduti al mercato. Calvin Candie (Leonardo Di Caprio) è uno schiavista che ha fatto la sua fortuna con la lotta Mandingo, in cui gli schiavi si uccidono tra loro. Tra i suoi servi c’è Stephen (Samuel L. Jackson) che incarna l’odio dell’oppresso non verso il padrone, ma nei confronti dei suoi simili che lottano per spezzare le catene. Dall’altra parte, però, ci sono personaggi come il Dr. Schultz (Christoph Waltz), senza il quale Django non riuscirebbe nell’impresa. Per combattere lo schiavismo, King Schultz è arrivato dalla Germania, da un altro continente, come fecero nella realtà molti europei dell’epoca. E lo fece perché quelle leggi non erano solo un problema degli USA, ma di tutta l’umanità.
Domenica Morabito
21. BlacKkKlansman (Spike Lee, 2018)
Wikipedia dice che BlacKkKlansman è una commedia dallo humour nero.
Beh, a pensarci bene quando l’ho visto al cinema ho riso, anche.
La risata è iniziata perplessa ma carica di aspettativa, un po’ come quando mio nipote mi guarda fisso negli occhi mentre cerco goffamente di preparare una torre con le sue costruzioni gommose.
Poi la risata è esplosa, genuina, profonda. Di quelle di cui si gode fino alla fine, meravigliati. Ho continuato a sorridere per un bel pezzo, ma più il film si addentrava nella vicenda più i miei occhi hanno iniziato a spegnersi e il mio sorriso ad inasprirsi fino a diventare amaro, tramutandosi ben presto in singhiozzi, a mano a mano che la pellicola si svolgeva. Quando si guarda una vecchia fotografia di guerra in cui sono ritratti dei nostri parenti, ad esempio, si prova nello stomaco una gioia recondita a vedere quei volti così familiari eppure lontani, però l’animo sta con i morti che non si conoscono e partecipa alla collettiva vergogna che accompagna determinate memorie. Ecco, le mie budella mi facevano sentire un po’ così.
All’improvviso però una ritrovata speranza mi ha fatta ridere nuovamente, accendere gli occhi e alleggerire lo spirito. Ma, ahimè, non per risollevarmi il morale come pensavo io, bensì perché a precipitare da una certa altezza ci si fa sicuramente più male. La memoria sarà anche labile ma una ferita ben inferta lascia sicuramente una cicatrice duratura.
Caterina Coral
20. Il figlio di Saul (László Nemes, 2015)
La memoria della Shoah non è possibile. Non si possono ricordare i treni merci stipati di uomini, donne e bambini, i marchi a fuoco sulle braccia all’arrivo nei campi. I corpi esposti nelle loro nudità, i bambini allontanati dalle madri che gridano, che piangono. I dormitori, i campi di lavoro. Le urla dentro le camere a gas. Gli odori, le feci. Il fumo dei forni crematori.
È una memoria, quella dell’Olocausto, che non è tollerabile – l’oblio è necessario, eppure non ammissibile. L’inferno della condanna è l’imperativo della memoria. E il capolavoro Il Figlio di Saul, opera prima dell’ungherese László Nemes, è un film che abbassa il capo e accetta la condanna.
L’orrore de Il Figlio di Saul è quello di coloro che videro le prime immagini dei campi. È lo sgomento di chi ascoltò i primi racconti dei sopravvissuti. È lo smarrimento di coloro che mossero i primi passi nei campi di sterminio appena liberati – i corpi scheletrici dei sopravvissuti, i bambini che andavano loro incontro, i tatuaggi sulle piccole braccia. Nella ricchissima produzione sull’orrore dell’Olocausto, questo film è uno dei pochissimi che riesce a sprigionare il potere salvifico della memoria – la memoria che è intollerabile, che non è quella delle operazioni commerciali di Benigni e Spielberg (per quanto di grandissimo valore, con capolavori come La Vita è Bella e Schindler’s List), ma è quella che redime, e che ci permette di riconoscere gli Olocausti contemporanei.
Lo fa con un film tecnicamente perfetto, sul quale sembra impossibile parlare ad un pubblico che non l’abbia già visto – la paura di alterare l’esperienza del dramma è alta perché, in ogni singola scena, si riconosce un altissimo studio drammaturgico la cui ricezione, nel raccontarlo, potrebbe essere rovinata. Una macchina da presa in semi-soggettiva che insegue per tutto il film il primo piano del protagonista; un formato da cinema di altri tempi che, mantenendo il punto di vista del personaggio, ritrae sullo sfondo gli orrori dei campi e le rivolte dei prigionieri, in una modalità tecnica quasi documentaristica eppure, al contrario, profondamente umana. Un sonoro rude, in presa diretta – le urla del terrore che si mescolano disarmoniche all’ardere dei forni crematori, ai rumori metallici delle armi. Una colonna sonora che è assente per tutto il film e che esplode solo alla fine, dopo l’ultima potentissima scena, in un evocativo e perduto canto folcloristico della tradizione ebraico-chassidica della Transilvania.
Grazie all’interpretazione magistrale dell’attore protagonista, Géza Röhrig, si compie, forse, il miracolo più potente del film: affiancare il realismo dell’orrore, privo di speranza e redenzione, alla dimensione interiore del dramma individuale. È solo in quest’ultima, nel suo potere salvifico e divino, che l’uomo può avvicinarsi a Dio – un Dio che non c’è, non può esistere.
Ma, per salvarci, può essere immaginato.
Enrica Fei
19. Roma (Alfonso Cuarón, 2018)
È difficile vedere (e capire) Roma senza mai essere stati in Messico. Quella che Cuarón racconta è una vicenda ambientata negli anni ’70, uno squarcio sociale aperto per mostrarci un paese di cui conosciamo generalmente poco. Eppure è una storia semplice, apparentemente come tante: una famiglia borghese che vive in uno dei quartieri più fresa (benestante, alla moda) di Città del Messico ospita nella propria villa una muchacha, la ragazza che si occupa della casa e della cura dei bambini. Cleo è amata dalla sua famiglia adottiva, ne è silenziosa parte integrante e ne diventa colonna quando le relazioni all’interno cominciano a sfaldarsi lasciando dolore e tristezza.
Cleo vive contemporaneamente un momento di estrema difficoltà, di abbandono, ma non viene meno al suo ruolo di supporto emotivo, intrecciando un legame ancor più forte capace di cancellare le enormi differenze sociali tra lei e la sua famiglia “adottiva”.
Cuarón però va anche oltre e ci parla di dignità, di resistenza, resilienza (termine ultimamente di moda e usato a sproposito) e ineluttabilità. Ci mostra una famiglia, ma ci racconta di un paese intero, il suo, dal quale si è allontanato per lavoro ma che non ha dimenticato. Il regista si spoglia del suo ruolo, si siede di fronte a noi su un immaginario divano e inizia a raccontare una storia vissuta, un passato quotidiano e commovente che continua a portare ben impresso nella memoria.
Roma ci insegna che tutto andrà come deve andare. Non è detto che sia per il meglio, ma sarà probabilmente il modo migliore. Avanti, un passo dopo l’altro.
Sammy Jankis
18. Dallas Buyers Club (Jean-Marc Vallée, 2013)
C’era una volta un cowboy, poi c’era il rodeo, la droga, l’alcool e le puttane. E poi arriva l’HIV, che però non è il cattivo.
Il cattivo è il potere.
I protagonisti principali sono un cowboy dalla parte sbagliata della sua natura e un grillo parlante transessuale.
La storia di Ron Woodroof è, in parte, una storia americana di un tempo andato ma sempre presente, come una cicatrice che a toccarla è fastidiosa, ma a mostrarla ci si sente salvi. Non liberi, quello ancora no.
Insomma, prima di lui c’era stato l’immenso Philadelphia. Dopo, forse, niente. Almeno niente con la stessa drammatica intensità. Dallas Buyers Club non è solo una storia terribilmente reale e coraggiosissima. Non è nemmeno solo un film, e nemmeno solo un attore, Matthew McConaughey, bravissimo come mai nell’immergersi in un ruolo incredibilmente difficile. Dallas Buyers Club è l’eco di un periodo denso, una voragine liquida. È un documento importante, è l’abecedario di ciò che abbiamo il dovere di trasmettere alle generazioni future.
Quei futuri uomini che non hanno idea di cosa ha significato per la società contemporanea la piaga dell’HIV. Per i più giovani. Perché Dallas Buyers Club riesce ad essere quel tipo di insegnante in grado di spiegarti qualcosa raccontandola. Narrandola.
Raccontando siamo in grado di ricordare, raccontare è più difficile che spiegare, ma, a volte, ascoltare è più semplice che imparare.
Infatti, Dallas Buyers Club è un banalissimo racconto di rivalsa e coraggio, come la stragrande maggioranza delle produzioni americane, tanto banale da non crederci a quanta emozione riesce a metterti lì, tra le costole. E poi, hey, è una storia vera.
Mattia Grigolo
17. Isle of Dogs (Wes Anderson, 2018)
Nella fantomatica cittadina di Megasaki, in Giappone, si è diffuso un virus di influenza canina. Il sindaco Kobayashi decide per questo di emanare un terribile decreto: tutti i cani della città saranno deportati su un’isola carica di rifiuti, e da lì esiliati in una quarantena a vita.
Comincia così Isle of dogs, un film che, per ammissione dello stesso Anderson, “doveva essere una favola”. Ma poi… “ci siamo accorti che il mondo reale non era così lontano da quello che stavamo raccontando”.
Affermazione rilasciata nel 2018 ma che, dato il plot, risulta quanto mai attuale.
L’emarginazione degli ultimi, la discriminazione, l’inquinamento, i progetti politici volti a controllare e sottomettere le masse (qui per mezzo di un virus!), sono in effetti solo alcuni dei temi che affiorano. Tuttavia, essi si danno come il nocciolo più duro e nascosto di un frutto all’apparenza delicato e di raffinata bellezza.
Perché ad essere raccontata è pur sempre e prima di tutto una favola – quella del piccolo Atari che cerca di salvare il suo cane – e, come tale, ispirata a sentimenti commoventi e positivi, quali la lealtà, il sostegno, la generosità, la forza delle creature più fragili. Favolistica è anche l’ambientazione, un Giappone inventato eppure solidissimo nell’evocare la sua iconografia. Con spirito fanciullesco e dedizione maniacale, Anderson realizza un film in stop motion che è un omaggio alla cultura e all’estetica nipponica e che, a dispetto di certe polemiche, lascia ben trasparire la sua sincera passione per questo paese. Qui si muovono i personaggi della sua storia, in cui, ricordiamo, gli animali parlano una lingua che esprime spessore e profondità di pensieri, mentre gli esseri umani comunicano in un giapponese che, per scelta dichiarata, non è sottotitolato. Così, anche questa strategia sul linguaggio contribuisce infine a svelare la morale: il rapporto tra mondo umano e animale è rovesciato, ed è proprio quest’ultimo a risultare, a conti fatti, il meno “bestiale” tra i due.
(N.B: Per lo straordinario cast cui è affidato il doppiaggio dei cani, si consiglia la visione del film in lingua originale).
Nora Cavaccini
16. Midsommar – Il villaggio dei dannati (Ari Aster, 2019)
Partiamo da una definizione tranchant: tutti i personaggi di Midsommar sono estremamente odiosi. Non se ne salva uno. Non so se sia uno stratagemma voluto dal regista per farci tollerare quello che succederà nel film, ma raramente capita di disprezzare così tanto un gruppo di persone già dopo i primi minuti di visione; conoscendo un po’ i film di Aster è abbastanza evidente che ami creare figure che causano contemporaneamente pena e disgusto in chi guarda.
Stavolta siamo lontani dagli Stati Uniti visti in Hereditary e l’allegra comitiva di odiosi vola in Svezia per partecipare ad un misterioso e antico rito folkloristico raccontato da Pelle, l’odioso di origine scandinava. Dopo le prime ore passate in un ambiente trasognato in stile canzone degli Abba (stereotipo sì, ma secondo me voluto) il gruppetto si rende conto che qualcosina non va.
Il colpo di genio di Aster è nel farci chiedere: ma sta cosa è normale? Forse è culturale? Forse sono sti americani un po’ bigotti che la fanno tanto lunga…
E poi, cinque minuti dopo, hai le mani sugli occhi per non guardare. E non ti vuoi immaginare cosa stia per succedere perchè di roba assurda ne hai già vista a sufficienza. Ed è un film lungo, ce n’è da vedere.
Il dubbio più grande è capire come la Svezia abbia autorizzato di venir citata nel film: se la Pro Loco scandinava sperava di aumentare il turismo temo potrebbe avere brutte sorprese.
Dino Giuffrè
15. Dunkirk (Christopher Nolan, 2017)
Quello di Christopher Nolan è un film che potremmo definire essenzialmente conservatore e anglocentrico nella sua parte umana. Questa trasposizione sul grande schermo di uno degli episodi più iconici della seconda guerra mondiale – l’evacuazione, nel giugno 1940, del corpo di spedizione britannico in Francia assediato dai tedeschi, stretto in una sacca con le spalle al mare nei pressi della città di Dunkerque – è prettamente britannica nel comunicare allo spettatore un costante senso di sconfitta. Così come lo è il “riscatto” nei confronti della sconfitta costantemente perseguito da alcuni dei personaggi che popolano la pellicola, in particolar modo i piloti degli Spitfire Farrier e Collins e Mr. Dawson e suo figlio George sulla barca.
Il conservatorismo del film è però di anima relativamente populista: dei personaggi solo l’aviere Farrier si intesta vagamente il titolo di eroe. I soldati sulla spiaggia ed i naufraghi si improvvisano finti barellieri per essere imbarcati, rubano divise ai compagni morti e aggrediscono i soccorritori che non vogliono subito portarli oltre Manica. L’ ”altro” è poco presente. I soldati francesi sono di rado al centro della scena. Il nemico non ha un volto, come i soldati che catturano uno degli avieri.
È particolarmente corretto parlare di personaggi, non di protagonisti. Perchè il tratto distintivo di questa pellicola, è di non mettere mai al centro della scena il singolo, bensì le situazioni. Nolan le suddivide in un modo sostanzialmente simile agli Elementi naturali: il Cielo ed i piloti da caccia come l’aria ,i soldati in fuga sul molo e la spiaggia come la Terra, ed il mare e i salvatori come l’Acqua.
Sono però il Quarto ed il Quinto elemento (Luc Besson ci presti la citazione), a fare davvero la differenza ed a regalare allo spettatore la parte migliore della pellicola.
Al posto del Fuoco, quello che domina le dinamiche della scena è la Macchina bellica e la sua potenza. Urlatrice, assordante e spaventosa, come le sirene degli Stukas – i bombardieri in picchiata della Luftwaffe – che calano spietatamente sulla spiaggia a bombardare e mitragliare i soldati in attesa della salvezza. Ingannevole e mortale nella sua accoglienza, come le navi che colano a picco sotto i siluri del nemico. Affidabile e vittoriosa, come lo sfrigolio dei motori a pistoni degli Spitfire.
Ma c’è un altro elemento che avvolge tutti gli altri quattro costantemente nel corso del film. Un elemento che troppo spesso i film di guerra, anche i migliori, si fanno troppi scrupoli di mettere tra parentesi per non fare perdere al film il ritmo, ma che nella guerra reale è la costante dell’animo dell’uomo che la vive: l’attesa.
L’attesa dei soldati sulla spiaggia per le navi che li verranno a salvare, talmente micidiale e ansiogena da spingere un anonimo combattente a togliersi i vestiti e tuffarsi in mare in un folle tentativo di attraversare la Manica a nuoto.
L’attesa tradita di Tommy e dei suoi compagni per l’attracco della nave in suolo amico durante la notte.
Ed anche l’attesa dei due piloti della RAF per l’azione nei cieli, in un abitacolo stretto e poco confortevole, col respiro affannoso nelle maschere per l’ossigeno e lo sguardo perennemente in cerca del nemico, in un’epoca ancora priva di radar e automazione del volo.
Forse solo Wolfgang Petersen ed il suo Das Boot del 1981 hanno reso meglio la predominanza di questo elemento anche in un conflitto di micidiale violenza come quello del 1939-45.
Federico Giamperoli
14. Drive (Nicolas Winding Refn, 2011)
La tenerezza e la violenza. Questa è l’antitesi su cui Drive basa le proprie fondamenta. I due sentimenti si intrecciano all’interno di palazzi squallidi dai colori pastello in cui un pilota senza nome vive un’esistenza doppia e solitaria. Stuntman alla luce del sole, autista di rapine la notte. Un giorno dopo l’altro in una ripetizione sistematica, fredda e inesorabile. Irene è una sua vicina di casa, ma è come se fosse distante anni luce.
Finchè il caso non decide di avvicinarli e coinvolgerli in un rapporto in cui tutti e due sanno ma non vogliono e non possono.
E noi che guardiamo vorremmo davvero tanto, ma sappiamo che finirebbe male. E abbiamo ragione perchè le cose si complicano. E inziamo a macerarci dentro esattamente come il volto di uno dei malavitosi che Il pilota massacra a calcagnate, siamo in tensione come le sue mani guantate quando afferra il volante.
Sentiamo la puzza di polvere da sparo e benzina, di moquette vecchia e di rivestimenti in finta pelle. Vorremmo essere protetti da lui come Irene in ascensore e contemporaneamente essere Il pilota e renderci conto che tutto quello che più amiamo è li, insieme a noi, e niente e nessuno dovrà metterlo in pericolo.
Che belli che sono Ryan Gosling e Carey Mulligan. Che bella che è la colonna sonora. Che piccola/grande meraviglia che è Drive.
Francesco Somigli
13. Call me by your name (Luca Guadagnino, 2017)
Giovani corpi perfetti, intonse pelli liscissime, sguardi lontani, location da sogno, i vestiti mai fuoriposto e i capelli al vento, ma sempre nella maniera più giusta. La camera di Guadagnino è minimalista, tenue, elegante, tutto è sempre dosato, contenuto, dolce, in un effluvio di sofisticatezza in cui ogni elemento sfonda la porta del glamour più spinto. Io non ho difficoltà a capire perché questo film abbia riscosso così tanto successo. Quello che rappresenta, dal punto di vista estetico, è la perfezione assoluta, nei colori e nei toni, ma riportata sullo schermo con una fluidità narrativa che si fra strada con leggerezza, sino a costruire un mondo del quale si vorrebbe fare parte per forza. Io però non lo sopporto questo film, mi dispiace. Lo trovo di un’ostentazione al limite del disturbante, oltremisura patinato, strutturalmente finto, incredibilmente furbo.
Però un merito ce l’ha, pure per me. La capacità di raccontare l’omosessualità senza nessun appoggio retorico, portando sullo schermo una storia d’amore tra due uomini che si muove naturale. Il genere, le preferenze sessuali, non hanno mai un ruolo attivo nella corrente narrativa. Vediamo solo la sincerità di un sentimento. Guadagnino, un giorno lo vorrei vedere a sporcarsi le mani, costretto a fare un film senza poter vestire bene i suoi protagonisti.
Minnitta Maccomacchi
12. Il cigno nero (Darren Aronofsky, 2010)
Il nome di Aronofksy è un marchio di fabbrica, una stella polare che indica il cammino a chi cerca una parabola discendente nei profondi abissi del fragile animo umano. I toni di Pi Greco sono cambiati, si sono dispiegati dalla loro intrinseca cripticità. Siamo lontani anche dalla visceralità di Requiem for a Dream.
Il Cigno Nero fonde questi linguaggi per dare vita a un’opera di alto livello e dalla classe invidiabile, che però si guarda bene dal tralasciare il vero leitmotiv del regista, ovvero il viaggio nelle difficoltà dell’esistenza.
L’ambiente cupo e perturbante fa da sfondo alla seducente danza tra due icone del cinema “maledetto”, l’esile Natalie Portman, Nina, e un Vincent Cassel dalla sensualità tagliente nei panni di Thomas Leroy, direttore artistico di una nota compagnia di ballo. Nella prima parte del film, Nina è semplicemente un maestoso e aggraziato “cigno bianco”, con una madre amorevole e un invidiabile talento nel ballo. Tuttavia, proprio come sostiene Leroy, chi necessita ancora di farsi strada nel mondo è il suo cugino oscuro, il “cigno nero”, necessario per permetterle di impersonare il ruolo di prima ballerina nel suo rifacimento de “Il lago dei cigni” di Čajkovskij.
È durante questa ricerca, che vede un vero e proprio sdoppiamento della personalità di Nina, che la realtà si rivela nella sua frammentata interezza. L’amorevole madre si trasforma quindi in una donna ossessionata, frustrata e invidiosa, i graffi sulla schiena in una “disgustosa abitudine” autolesionista, la sua collega Lily nel “cigno nero” da combattere. Il lato di sé che Nina cerca di riscoprire è quello in cui sono celate ribellione, passione e spontaneità, sentimenti accuratamente repressi in grado di risvegliarsi solo per mano di un grande dolore provocato da un gesto estremo, che consentirà alla metamorfosi di compiersi.
Ambra Cavallaro
11. Solo gli amanti sopravvivono (Jim Jarmush, 2013)
lo vidi per la prima volta su uno schermo piccolo, in un balcone ampio a ridosso di piazza Vittorio, a Roma, seduto su un cuscino rosso e con tante persone intorno che conoscevo appena.
Ci pensai tutta la notte. Il giorno dopo, passeggiando per il quartiere, incontrai per caso il ragazzo che aveva organizzato la rassegna domestica e andammo a Monti a passeggiare per parlarne.
All’epoca avevo delle idee e una chiave interpretativa chiara. Ora non solo nella mia memoria di quelle idee non c’è traccia, ma rivedendo la pellicola mi sono scontrato con un vetro invisibile che non me la lascia afferrare.
Una stanza da letto blu zaffiro, azzurro chiaro e oro in una Tangeri aranciata e un soggiorno rossiccio, marrone e porpora in una Detroit spettrale girano lentamente, come gira un vinile che regala una colonna sonora suggestiva. Suggestivi i colori, suggestiva l’atmosfera da fine del mondo, suggestivi i dialoghi tra Eve e Adam, i due vampiri che abitano quegli spazi. Suggestivi al limite del barocco. Ridondanza di cultura e di tristezza. Adam mi ricorda spregevolmente me e il mio nichilismo snob anni 90. Pur sentendomi spesso come la sabbia della clessidra quando non riesce più a scorrere, sentire questa affermazione mi ha dato una certa irritazione.
Il crave, però, è forse il punto focale, quel desiderio simile a un impulso ingovernabile. Quel crave che provano Eve e Adam alla vista del sangue, ma che tengono a bada acquistando sangue e circondandosi di amore e di cultura. Ricordandoci che c’è sempre un modo meno stronzo per soddisfare i propri bisogni primari, per quanto questi possano essere orribili; e che, anche se messi alle strette, c’è sempre la possibilità di una scelta meno violenta. “Li trasformiamo e basta, però, vero?”.
Stefano Boring
10. Whiplash (Damien Chazelle, 2014)
Quando vedo un film, ma molto di più quando leggo un libro, mi capita di ricordare semplicemente se mi sia piaciuto o meno e di scordarmi i dettagli, la fine e a volte anche di cosa parlasse. Di Whiplash ricordo che mi piacque moltissimo. E rivederlo ha riconfermato la sensazione che mi aveva lasciato. Che figata! Per prima cosa la colonna sonora swing, ovviamente graditissima ad una ballerina decennale di swing.
Poi la regia, l’incalzante passare da un personaggio all’altro, da uno strumento all’altro, i vari tipi di inquadrature… se solo avessi studiato cinema saprei anche come si chiamano tali tecniche usate con grande maestria per accompagnare la storia.
E la storia stessa, che lascia un po’ sbalorditi a causa dei personaggi: la caparbietà dello studente che molla (ma in realtà non molla), accompagnata dalla dualità della durezza e affabilità del direttore della band, interpretato in modo eccellente da J. K. Simmons.
E niente. Whiplash è un film che va assolutamente visto al cinema, con la musica sparata al massimo e lo schermo gigante che sottolinea tutto quello di cui ho parlato prima.
Elisa Barrotta
9. Holy Motors (Leos Carax, 2012)
I motori sacri si accendono per gli spettatori nel 2012, quando il film di Leos Carax, Holy motors appunto, viene presentato in concorso a Cannes, dove ottiene generosi applausi e qualche fischio.
Carax costruisce un film bellissimo, nei dodici anni precedenti, durante i quali trova pure il tempo per girare un cortometraggio, Merde, per il film a episodi Tokyo! girato con i colleghi Michel Gondry e Bong Joon Ho.
Il regista anglo/francese (incrocio che suona sempre e comunque bizzarro, e che giustifica la scelta dell’inglese del titolo) non ha fretta quindi, pur sapendo che sarà un film esplosivo, destinato a divenire un cult per cinefili, o un’esperienza da dimenticare per altri. Pane per i suoi denti.
Non è un film facile da decifrare, Holy motors. Ci sono troppe cose dentro, alle quali ognuno può dare un senso diverso (sempre che un senso si debba per forza trovare). Provo a dar conto di due aspetti.
Esperienza è una delle parole chiave per capire il film. Non solo perché vedere il film di Carax lo è di sicuro, ma perché esperienza è quello che vive, in modi di volta in volta diversi, e sempre intensi, il protagonista del film: Monsieur Oscar (parola feticcio per Carax, contenuta anche nel suo nom de plume).
Oscar passa le 24 ore raccontate nel lungometraggio a fare esperienze di diverso genere, cambiando identità e luogo a bordo della propria limousine e riuscendo proprio attraverso il concetto di esperienza (la sua, vissuta, e la nostra, osservata) a far coincidere chronos e aion, il tempo definito del film e quello indefinito e informe, lo stesso al quale si rifà Jung nel saggio Aion, ricerche sul simbolismo del sè.
La seconda idea che pare circolare e’ appunto quella di aion, il tempo del sè.
Scrive Deleuze che esso è l’istante senza spessore e senza estensione che suddivide ogni presente in passato e futuro, invece di presenti vasti e spessi che comprendono gli uni rispetto agli altri, il futuro e il passato.
Il tempo infinito è il tempo giusto per parlare di sè. L’esperienza pura che crea l’essere. Il gesto continuo, che rinnova il copione, il gesto che non si ferma, perpetuo. Come la limousine con la quale si muove Oscar, che è motore sacro e schermo tridimensionale come in un altro straordinario film del 2012, Cosmopolis di Cronenberg.
“Di nessuno mai sarò contemporaneo” diceva Osip Mandelstam, e Carax fa sue le parole del poeta russo, decretando la fine di Chronos e rivendicando l’eternità: che è ciò a cui credo sia destinato questo film, fuori dagli schemi, dai canoni, dalle narrazioni banali a cui la maggior parte di noi è condannato.
Piera Ghisu
8. Joker (Todd Phillips, 2019)
Quante volte una persona può rialzarsi dopo una rovinosa caduta? Quanti tentativi si possono fare per costruirsi una vita rispettabile? Quante bastonate si possono sopportare prima di ribellarsi e reagire? Che risvolti può prendere una vita del genere in una persona con problemi psichici? E infine quali realtà si possono inventare per riuscire a sopravvivere ai soprusi, pretendendo di vivere una vita ordinaria? Arthur Fleck non ha risposte a tutte queste domande, Joker invece sì. Ma Arthur e Joker sono la stessa persona, la stessa bocca dalla quale esce una risata survoltata, sintomo e al contempo chiara espressione di una dualità esplosiva.
Joker ci affascina e ci terrorizza al medesimo tempo perchè anche noi potremmo essere Arthur in alcuni aspetti; ci fa paura guardarci allo specchio perchè temiamo di vedere l’abisso in cui vorremmo lasciarci precipitare.
“Per tutta la vita, non ho mai saputo se esistevo veramente. Ma io esisto. E le persone iniziano a notarlo.”
Elisa Barrotta
7. Argo (Ben Affleck, 2012)
Il motivo principale per cui la storia raccontata nel film Argo, interpretato e diretto da Ben Affleck, risulta convincente è perché narra di fatti realmente accaduti. In questo senso il film di Affleck, alla cui origine c’è un articolo uscito nel 2007 sulla rivista Wired, è l’ennesima dimostrazione che la realtà supera di gran lunga la fantasia.
I fatti risalgono al novembre 1979, quando gli studenti della rivoluzione islamica assaltano e occupano l’ambasciata statunitense a Teheran, tenendo in ostaggio 52 diplomatici americani dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Argo si concentra sull’operazione Canadian Caper, l’azione organizzata congiuntamente da autorità canadesi e CIA americana per tentare disperatamente di far uscire dall’Iran un gruppo di sei cittadini americani che, per sfuggire all’assalto degli studenti islamici, si erano rifugiati nell’ambasciata canadese.
Alessandro Borscia
6. Grand Budapest Hotel (Wes Anderson, 2014)
Dopo la prima visione di Grand Budapest Hotel ho avuto un momento di smarrimento, le mie certezze wesandersoniane hanno cominciato a vacillare ed ho iniziato a sentirmi in colpa.
Fino a qualche ora prima, la prima cosa che mi veniva in mente quando pensavo a Wes Anderson era la famiglia Tenenbaum, il film che occupava la prima posizione sul mio personalissimo podio delle sue pellicole, ma immediatamente dopo i titoli di coda, dopo tutto quel rosa, quel violetto e quei colori pastello, dopo tutti quei dolciumi e quei flaconi di acqua di colonia, dopo funivie, ferrovie e stanze di musei, gli inseguimenti in moto e gli ascensori con le porte in ferro battuto… “ecco – ho pensato – adesso mi tocca aggiornare il podio”.
Guardare questo film è un po’ come guardare un quadro in movimento.
Prima ancora della storia in sé, non appena l’inquadratura ci mostra il Grand Budapest Hotel, prima dall’esterno e poi quando ci porta al suo interno, quello che colpisce é l’infinita serie di dettagli, l’accuratezza con cui ogni stanza è arredata, così come per ogni altro ambiente presente nel film: l’osservatorio sui monti innevati, il maniero della famiglia Desgoffe und Taxis, la pasticceria Mendl’s e persino la piccola mansarda che si trova proprio al di sopra, associando inoltre ad ognuno di questi ambienti una scelta cromatica che rimane propria per tutta la durata del film.
Aggiungeteci poi una bizzarra storia, quella di un triste autore – the Author nella versione originale – che soggiorna al Gran Budapest e racconta dell’incontro con uomo solo e riservato, il quale gli narra di come ad un certo punto lui di quell’hotel sia diventato il proprietario.
Ed allora si viene catapultati in una stramba avventura nella quale un sempre profumato ed impeccabile concierge, M. Gustave, ed il suo fedele garzoncello Zero cercano di sfuggire alla temutissima polizia ZZ che accusa l’uomo della morte di una attempata e ricca signora, Madame D, con la quale questi soleva intrattenersi.
Nel mezzo c’è un furto di un quadro inestimabile, un quartetto di galeotti tatuati, una evasione, scatole e scatole di bellissimi dolci, un testamento, un figlio molto arrabbiato ed il suo fedele scagnozzo, un altro testamento ed una sorta di confraternita che riunisce i concierge dei più grandi alberghi, la “società delle chiavi intrecciate” che corre in aiuto di M. Gustave e riesce a riportarlo al Grand Budapest.
Il lieto fine é quasi scontato, il testamento modificato da Madame D poco prima della sua morte lascia tutto al narciso concierge che grazie a questa immensa fortuna dona l’hotel al suo fedele garzone, chiudendo anche la narrazione partita ad inizio film e regalando allo spettatore tra le altre cose dei simpatici titoli di coda ed una colonna sonora dominata da motivi suonati rigorosamente con la balalaika.
Elena Arcidiacono
5. Non essere cattivo (Claudio Caligari, 2015)
Ci sono due amici, che però sono come fratelli. Fratelli veri, dove uno protegge l’altro, dove l’uno si mischia all’altro, nel bene e nel male. C’è un sottile filo invisibile ad unirli, talmente teso da tagliare qualsiasi cosa ci passi attraverso. C’è la periferia, i margini della società, la droga, lo spaccio, l’ignoranza. C’è una storia che può essere la storia di tanti, imbevuta fino al midollo del gasolio della vita stessa, quella che brucia e si consuma in parole maciullate dall’assenza di educazione ma tanto vere da essere poesia, nell’anarchia dell’essere cattivi in un mondo falsamente buono. C’è la rincorsa primitiva alla sopravvivenza, al nascondersi e al prevaricare, all’amarsi senza sapere di cosa tratta l’amore, per poi accorgersi che l’amore è proprio quella cosa lì: amarsi e basta, in un modo puro, carnale, a volte violento e meschino, forse beffardo, dove le farfalle nello stomaco sono pesanti come falene e il bene e il male sono due regole, non due concetti. C’è un mondo di soli vinti e questo è reale, perché è reale il cinema di Claudio Caligari, il regista dei margini, il regista senza posto nel cinema, il regista di culto, ma scomodo. C’è, ancora una volta, come in quel tossico amore dell’83, la consapevolezza della perdita come una cosa naturale. E noi sappiamo di aver perso un grande uomo di cinema. Ma eccolo qui Non Essere Cattivo, a ricordarci che ci sono persone che quando lasciano qualcosa, la lasciano per sempre.
Mattia Grigolo
4. Inception (Christopher Nolan, 2010)
Una volta ho fatto un sogno talmente incredibile che, ancor prima di svegliarmi, avevo già deciso che avrei voluto ricordarlo per tutta la vita. Così la mia mente, sorprendentemente sveglia in una situazione del genere, utilizzò uno stratagemma che in genere funzionava per ricordarmi le lezioni a scuola: me lo fece raccontare ad alta voce. Appena finito il sogno mi ritrovai pertanto in un secondo sogno in cui c’erano anche la mia migliore amica e sua mamma. Ricordo nitidamente che stavamo al banco frigo di un supermercato, con i cartoni del latte e gli yogurt disposti in fila ordinata sugli scaffali, e la luce a led che regalava all’atmosfera un aspetto piuttosto impersonale, standardizzato, quasi non fosse nemmeno il mio sogno. Mentre abituali clienti senza volto riempivano i loro carrelli io, seduta a gambe incrociate fra uno stracchino e una confezione di mascarpone, completamente insensibile al freddo, descrivevo minuziosamente l’esperienza precedente alle mie interlocutrici, cercando di riportare quanti più dettagli potessi di modo da non dimenticare niente. Seguivo il flusso della memoria sentendolo tuttavia assottigliarsi sotto di me, e ciò che tanto volevo ricordare si sgretolava sempre più velocemente, mentre io cercavo di fissarlo con le mie parole.
Di quella notte ovviamente ho memoria soltanto del sogno al supermercato, ma non ho la più pallida idea di cosa sia successo prima.
Per anni ho pensato di aver perduto per sempre chissà quale memorabile esperienza onirica, fino a che non è uscito Inception e sono andata a vederlo al cinema. Da quel momento ho avuto la rassicurante consapevolezza che mi sarebbe bastato riguardarlo per rivivere ogni volta un sogno dimenticato.
Caterina Coral
3. The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013)
Jordan Belfort è un broker originario del Bronx, che negli anni ’80 si ritrova a fare troppi soldi – e ad usare troppe droghe – truffando ingenui malcapitati con la vendita di penny stock, le azioni di aziende destinate a sicuro fallimento. Jordan Belfort è il self-made man più tipico, quello che raggiunge il suo scopo (diventare molto ricco) senza alcuno scrupolo, nemmeno verso se stesso. È un venditore, e come tutti i venditori ha il dono della parola che persuade, la parola magica: quella del mago di Oz, vuota e potentissima. La persuasione non ha bisogno di ragioni, la persuasione non spiega. Belfort non convince, Belfort ammalia con la dialettica sofistica che non va da nessuna parte se non sul conto in banca altrui. Quando ne diventa consapevole è in carcere per frode, e decide di fare un uso migliore delle sue doti oratorie scrivendo un libro, mentre ancora paga il risarcimento alle sue vittime. Un libro pieno di dettagli succulenti per farci un film. Scorsese, il quale ha a cuore il destino dei guasconi americani, lo capisce, e nel 2013 esce nelle sale il suo The Wolf of Wall Street (uno dei nomignoli affibbiati a Belfort agli apici della sua carriera nella finanza creativa).
Quale attore avrebbe potuto vestire meglio i panni grigi del broker/mago anni ‘80, se non quell’alpha male di Leonardo Di Caprio? L’interpretazione è difatti assolutamente perfetta. E se Di Caprio è sempre enorme e sempre impressiona, qui è impeccabile.
Forse perché quando la sua luce può occupare tutto lo spazio, quando non si tratta di film corali, pare essere decisamente più a suo agio. Di Caprio non è Gian Maria Volontè, preferisce cacciare da solo.È più tigre che lupo. Eppure nell’incarnare il broker del Bronx, uno degli archetipi dell’americanità, prende parola a nome di un intero branco per parlare del liberismo sregolato, di un capitalismo così degenerato e immorale al quale si stenterebbe a credere, se solo non fosse terribilmente vero, nonché abbondantemente storicizzato dal punto di vista estetico.
Di Caprio sa infatti che Jordan Belfort non è the Aviator. Sa che sarebbe un personaggio caricaturale, se solo non fosse così radicato e centrale nell’immaginario della modernità, se solo non incarnasse la drammatica corsa all’oro senza l’oro a cui assistiamo quotidianamente e globalmente. Pur nella eccezionalità della sua vita, Belfort è chiunque aspiri a un riscatto sociale attraverso il denaro. L’uomo medio che rinuncia alla sua identità per aderire a un modello.
Ed è un peccato. Perché sotto le sue giacche doppio petto, i suoi Rolex, le macchine sportive, Belfort seppellisce il suo essere più autentico, che invece ritroviamo nel suo eloquio degli esordi, nella sua capacità di mentire e travestirsi, nella sua creatività. Quando nel film il protagonista smarrisce l’aspetto ludico e originario del suo fare, ecco infatti che arrivano i guai.
Il lupo di Wall street, come i lupi delle favole, non è in fondo altro che una vittima del sistema che lo aveva generato, instancabile nell’alimentare il potere sognante della moneta, capace di generare veri e propri mostri.
Un personaggio pieno di chiaroscuri, uno di quelli di cui è ricca la produzione filmica del regista Italo-americano, che forse per questo ha all’attivo un’unica statuetta hollywoodiana per la regia.
Piera Ghisu
2. Parasite (Bong Joon-Ho, 2019)
Ci siamo chiesti, con un amico, mentre scalavamo una montagna siciliana, se questo film coreano resisterà alla prova del tempo, se l’entusiasmo straordinario che lo circonda adesso non sia frutto più di una moda, che di una reale opinione, e se in realtà la storia familiare di Parasite non sia, in fondo, un film soltanto normale. Le risposte alle prime due domande non le abbiamo trovate, ma alla terza sì: no, non è un film normale questo. E’ un lavoro meraviglioso, che gioca su un’infinità di piani (le caratterizzazioni dei personaggi singoli, le riflessioni sull’esistenza circondate da una forte analisi di politica sociale, le location, la fotografia, la recitazione, il montaggio, la struttura narrativa di una storia che ha almeno tre punti rottura, il ritmo, e potrei andare molto oltre) e che ha il merito di essere alla portata di tutti, pur non essendolo. Si può scegliere di guardarlo e basta, senza farsi domande, quasi fosse un film d’azione, tanto è serrato nella dinamica di tutti gli avvenimenti, ed essere felici quando tutto è finito. Oppure si può decidere di guardarlo e poi rifletterci, ragionare su quello che vi vuole dire, scandagliare i tantissimi elementi di cui è disseminato e aprire un confronto aperto con sé stessi sul senso puro delle cose. Viva la Corea del Sud.
Mentegatto Mufloni
1. Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Martin McDonagh, 2017)
Come reagiresti se ti uccidessero una figlia? Come andrebbe avanti la tua vita, come continueresti a lavorare, avere rapporti sociali ed educare un altro figlio adolescente?
Semplice: prendi in affitto tre grandi spazi pubblicitari in un campo, proprio all’ingresso della città in cui vivi, e ci incolli tre enormi manifesti in cui esprimi tutto il tuo disappunto per come l’indagine – chiusa senza aver trovato un colpevole – sia stata svolta e per come la polizia abbia gestito il caso.
La tua vita continua, va avanti. C’è il lavoro e c’è un figlio da crescere e, mese dopo mese, i tre cartelli in affitto sono sempre lì a ricordare a chiunque il disprezzo che provi per le istituzioni. Non aiuta affatto che quasi chiunque alla polizia ti prenda per pazza e che lo sceriffo del paese ti dica che no, lui non ha mai abbandonato il caso, ma che purtroppo non si trova un colpevole. E allora, che fare? Semplice, di nuovo: dai fuoco alla stazione di polizia con una bella molotov perché fanculo gli sbirri, decidi di farti giustizia da sola e cominci a sentirti meno in colpa pensando che forse tua figlia sarebbe ancora viva se quella sera le avessi lasciato la tua macchina.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri in realtà è anche un altra storia, o forse altre due; la prima è una storia di redenzione, quella di un omofobo bifolco in divisa, l’agente Dixon, cresciuto e vessato da una madre seduta in poltrona o sul portico di casa a bere birra. Un uomo violento e represso che sfoga la sua rabbia lanciando dalla finestra un giovane pubblicitario, reo di aver concesso a Mildred, la madre in cerca di giustizia, i tre spazi pubblicitari. La redenzione avviene quando il suo sceriffo gli lascia in eredità una lettera, spiegandogli che tutto il suo odio represso e la sua frustrazione non lo porteranno a nulla e che solo l’amore potrà dargli un po’ di sollievo.
Ed ecco la seconda storia, quella dello sceriffo Willoughby che, scopertosi malato terminale, con moglie e figlie, decide di porre fine alla sua vita per evitare che la malattia arrivi a renderlo un peso per la sua famiglia. Ma non prima di aver pagato per un intero anno la rata di affitto dei tre manifesti ordinati da Mildred, in segno di scuse per non aver dato giustizia ad una ragazza violentata ed uccisa senza pietà. E poi tutti gli altri personaggi di contorno, nessuno mai banale, ognuno intento a combattere i suoi demoni interiori e a vivere la sua vita nella realtà di provincia del sud degli Stati Uniti, bifolca e bigotta come solo una provincia del sud degli Stati Uniti sa essere.
Elena Arcidiacono
Hanno collaborato alla realizzazione di questo pezzo, in ordine sparso: Viola Mondello, Giuseppe Cassone, Loris Rizzo, Davide Grimoldi, Pier Attilio De Luca, Francesca Dalla, Martina Palli, Paola Moretti, Alonso Sandoval Velasco.
L’illustrazione di copertina è di Marta Bianchi
REDAZIONE
Wale Café
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