Helmut Kohl ha la testa abbassata, ripiegata su un colletto della camicia troppo stretto. I suoi occhi vagano per la sala alla ricerca di un’approvazione di cui mai aveva avuto bisogno. In alcuni momenti sono invece rivolti verso l’alto, in attesa, forse, di un’ispirazione. Una folla di giornalisti lo circonda, scandagliando i peccati presunti di quello che fino a poco tempo prima era un gigante della patria.
È il 6 luglio 2000, Helmut Kohl oggi è all’epilogo della sua lunga e per certi versi folgorante carriera politica. Il Mohammed Ali della Repubblica Federale Tedesca, il gigante che aveva demolito il Muro di Berlino a colpi di spallate politiche, adesso appare come un pugile sull’orlo del K.O.
Finanziamenti illeciti al partito di cui è presidente onorario e con cui è stato eletto cancelliere. L’accusa è pesantissima, soprattutto in un paese in cui la corruzione è praticamente inesistente e sicuramente inaccettabile. E infatti Helmut Kohl vacilla, stordito dall’alto dei suoi 190 centimetri poggiati su 130 chili orgogliosamente made in Renania.
Kohl ammette, ma nasconde, confessa, ma protegge: sì, la CDU, il partito di cui ha fatto parte per decenni, ha accettato tangenti; ma no, non sarà lui a rivelare i nomi degli oscuri e munifici donatori. Non che all’epoca del benamato Konrad Adenauer la prassi fosse molto differente, ma i tempi di Adenauer erano, come si dice, altri tempi. La terza guerra mondiale era un pericolo concreto e la politica certamente più sbrigativa e meno trasparente. Nei momenti di distensione la lente d’ingrandimento si concentra invece su tutto, comprese le piccole macchie sul curriculum del cancelliere della riunificazione. Helmut Kohl comincia proprio nel suo ultimo decennio politico a fare i conti con l’ingratitudine dei tedeschi: avergli dedicato la propria vita, averli riportati ad essere un solo popolo dopo le macerie (ideologiche) del nazismo e (reali) della seconda guerra mondiale è valso tutto questo?
Conoscendo le profonde convinzioni dell’uomo in questione la risposta è sì: Kohl avrebbe comunque rifatto tutto da capo, nello stesso modo.
Quello che avrebbe però volentieri evitato, col senno di poi, è il suo triste crepuscolo politico: nel 1998 l’ex cancelliere si candida ancora una volta, ma viene sonoramente sconfitto dal socialdemocratico Gerhard Schroeder.
Cosa spinge Kohl a mettere ancora una volta il suo imponente fisico al servizio della Germania quando avrebbe potuto ritirarsi e passare alla storia? Forse l’essersi reso conto dell’Errore, con la “e” maiuscola: la Germania Est, all’epoca della riunificazione, nel 1990, non era ancora pronta a ricongiungersi con l’Ovest. Quasi dieci anni dopo la caduta del Muro, le conseguenze di un passaggio storico tanto desiderato, quanto affrettato, sono sotto gli occhi di tutti: l’ex Ost è un “peso morto” con un tasso di disoccupazione elevatissimo, economicamente fatiscente e in preda ad una crisi sociale diffusa.
La Repubblica Federale, in nome di un bene superiore, si era fatta carico del peso della Repubblica Democratica e Kohl si era a sua volta caricato sulle robuste spalle il peso simbolico di entrambe. Nel 1998 c’è da difendere quindi, con ancora più forza, la giustezza di quelle scelte, e Helmut non è tipo che si tira indietro. I tedeschi questo lo sanno ma, nel loro pragmatismo, gli riconoscono i suoi errori passati. E gli voltano le spalle al momento del voto.
Il Cancelliere più longevo della Germania fra i cancellieri tedeschi dai tempi di Bismarck si fa dunque da parte, anche se non completamente: non si ricandiderà più per il cancellierato, lascerà la direzione della CDU (di cui manterrà la presidenza onoraria) ma resterà membro del Bundestag fino al 2002.
Impossibile abbandonare un partito cui si era iscritto, giovanissimo, già nel 1947 e con cui era stato eletto per la prima volta nel 1960, a 30 anni, come parlamentare, nelle elezioni del Land Renania-Palatinato. Da lì in poi è una cascata ininterrotta di successi per Die Birne (la pera, come malignamente lo chiamano i critici riferendosi alla sua costituzione fisica): viene nominato cancelliere della Germania Ovest nel 1982 al posto dello sfiduciato Schmidt, quindi stravince le elezioni del 1983 e quelle del 1987.
E poi decide di passare alla Storia. Portando avanti uno dei cavalli di battaglia dei suoi avversari politici dell’ SPD, perseguendo una Ostpolitik (la politica di apertura e conciliazione con la Germania Est) a tratti aggressiva, accorgendosi degli scricchiolii allarmanti che provengono dal blocco sovietico.
Quando i rumori si trasformano in delle evidenti crepe, Kohl ha già in mano un simbolico martello pneumatico pronto alla demolizione.
La sera del 9 novembre 1989 la DDR collassa. Gorbačëv è sul punto di inviare i carri armati sovietici piazzati a Potsdam per riportare l’ordine in una Berlino Est in subbuglio. Prima, telefona però al cancelliere federale: non conosciamo l’esatta conversazione tra i due capi di stato, ma sappiamo che i tank sovietici quella notte non lasciarono mai le loro basi. Nei mesi successivi i martelli pneumatici, stavolta quelli veri, furono usati dai tedeschi per demolire ciò che restava del Muro di Berlino.
Undici mesi dopo Kohl è l’eroe della Germania e dell’Europa intera: il 3 ottobre 1990 festeggia a modo suo, con un discorso televisivo ingessatissimo, la riunificazione politica della nazione, resa economicamente possibile anche grazie al cambio paritario tra le monete dei due paesi. Con una trattativa diplomatica molto complicata, Kohl riesce ad accontentare tutti, o quasi: l’Unione Sovietica, offrendo un trattamento equo ai cittadini del loro ex paese satellite e il rimpatrio a spese proprie di quel che resta dell’Armata Rossa in Germania Est; la Thatcher e Mitterand (con Bush osservatore interessato) garantendogli che la Germania riunificata sarebbe stata sotto l’influenza della NATO.
Da questo momento in poi, il cancelliere cessa praticamente di essere umano e si trasforma in un monolito indistruttibile agli occhi di tutti: nessuno osa più metterlo in discussione, non ci sarebbero proteste nemmeno se qualcuno di azzardasse a rinominare Helmut-Kohl Stadt la capitale Berlino.
E ovviamente continuano i successi elettorali a pioggia, con la riconferma a cancelliere nelle elezioni del 1990 e del 1994.
Poi qualcosa si inceppa. I tedeschi, disarcionati bruscamente dall’onda emotiva, iniziano a percepire i costi reali di una riunificazione fatta troppo di corsa. I problemi economici derivati dalle enormi spese necessarie a sostenere l’ex DDR, l’elevato tasso di disoccupazione e un immobilismo nelle riforme segnano il declino di Kohl, probabilmente colpevole di aver eccessivamente assecondato l’entusiasmo sguaiato di un popolo diviso da troppo tempo.
Al netto delle agiografie politiche, cosa vorremmo ricordarci di Kohl? Forse proprio quello che dovrebbe essere l’aspetto più importante, ma che spesso rimane in secondo piano: l’essere umano.
Helmut Kohl era una persona alla buona, un ragazzone di campagna buttato allo sbaraglio in una seconda guerra mondiale che non avrebbe praticamente combattuto, che aveva percorso a piedi cinquecento chilometri per tornare a casa da Berchtesgaden, dove era stato dispiegato il suo battaglione.
Un uomo timido dalle grandi convinzioni, che amava la cucina tradizionale e apprezzava le persone semplici come la giovane Angela Dorothea Kasner da Templin, piccola città della DDR immersa nel rurale Brandeburgo. Se il nome non vi dice niente, cercatelo su Google e non sorprendetevi quando vi troverete davanti la foto di Angela Merkel: fu proprio Kohl a prenderla in simpatia e a farle iniziare la carriera politica nelle file della CDU.
In una dichiarazione confidenziale, ormai anziano, si lasciò sfuggire che la giovane Merkel era cresciuta in maniera talmente spartana da “sapere a stento mangiare con coltello e forchetta”. Fu lui a credere in lei per primo, ad intuirne le innegabili capacità politiche e a nominarla ministra delle donne e i giovani durante il suo terzo cancellierato.
E fu sempre lui a rimanere umanamente sconvolto quando nel 2000 la sua pupilla scrisse una lettera pubblica per invitarlo ad abbandonare la CDU in seguito allo scandalo dei finanziamenti. Frugando tra le memorie private di Helmut Kohl si trova proprio questo: la sensazione di un uomo profondamente segnato dal tradimento. Quello politico, che fa però parte del gioco e al quale sicuramente era abituato, quello umano, incarnato dalla missiva della Merkel, e in ultimo quello di un popolo intero, pronto ad osannarlo e poco dopo a scaricarlo, indicandolo come causa di tutti i suoi mali.
Quando l’ex cancelliere sarà ormai caduto in disgrazia davanti all’opinione pubblica, al banchetto della carcassa cominceranno ad aggiungersi anche gli avvoltoi della stampa tedesca (soprattutto scandalistica), pronti a scandagliare la sua vita personale e a metterne in luce profonde tristezze cha avrebbero potuto, e dovuto, restare private.
Nella sua ultima conferenza stampa, incalzato dai giornalisti, sottoposto ad una raffica di domande, Kohl è a disagio. Forse pensa ancora a ciò che ha fatto per la Germania e per tedeschi, a una carriera politica in cui chiunque a continuato a tirargli l’enorme giacca, come i bambini fanno con un padre severo a cui si può chiedere tutto, sapendo che non si riceverà mai un no come risposta. Kohl non era un uomo dalla coscienza cristallina, ma si muoveva in un mondo politico fatto di personaggi altrettanto machiavellici, nel quale il fine giustificava quasi sempre i mezzi, anche i più loschi.
Nella nostra Italia, negli stessi anni in cui Kohl governava energicamente un paese in via di riunificazione, avevamo al Governo Giulio Andreotti.
Nel suo film “Il Divo”, Paolo Sorrentino gli fa pronunciare queste parole: “… non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del paese.”
Le stesse identiche parole devono aver attraversato la testa del cancelliere in qualche momento della sua carriera: la Germania aveva idea di cosa significasse esattamente fare quello che Kohl aveva fatto?
E, soprattutto, pensava davvero che potesse mantenere immacolata la sua moralità?
In quegli occhi sollevati in alto davanti alle telecamere, nell’ultima conferenza stampa di una carriera formidabile, lo stanco Kohl avrebbe forse voluto fare un’ultima, definitiva domanda ai suoi amati tedeschi: “Ma voi, esattamente, che altro volete da me?”.
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