Hebron è cemento.
Hebron è griglie di ferro.
Hebron è barriere di acciaio e cemento.
Hebron è un groviglio di filo spinato.
Hebron è pile di barili di metallo arrugginito a sigillare le strade.
Hebron è cumuli di terriccio.
Hebron è lamiere e detriti, case abbandonate, portoni chiusi.
Hebron è zone verdi e zone rosse.
Hebron è 27 check-points disseminati in giro per la città, con l’intenzione di proteggerla, di dividerla. Hebron è strade polverose, piene di buche.
Hebron è un bambino che palleggia dietro una barriera di cemento.
Hebron è le reti che proteggono dalla spazzatura, dai vetri, dagli oggetti lanciati dalle finestre delle case di quelli che ora vivono più in alto.
Hebron è le inferriate alle finestre dei palestinesi che resistono, nelle strade dove non sono voluti, scudi di metallo per proteggersi dai propri vicini.
Hebron è le insopportabili attese di una luce verde che ti permetta di superare i tornelli dei check-points.
Hebron è ansia per le perquisizioni a giovani, donne e anziani, mentre la fila e la tensione aumentano. Hebron è rabbia.
Hebron è una prigione.
Hebron è frustrazione, odio, rassegnazione.
Hebron è un non luogo.
Hebron è un luogo in cui sentirsi a disagio.
Hebron è una collezione di istantanee della miseria dell’umanità.
Hebron è dove devi andare, ma dove vorresti non mai aver visto.
Hebron ti segna.
Hebron ti intossica.
Hebron è il fallimento, l’indifferenza del mondo.
Hebron è un’ingiustizia.
Hebron è lapidi.
Hebron è vite spezzate, eroi, martiri e vittime allo stesso tempo.
Hebron è la silenziosa desolazione delle strade passate sotto il controllo israeliano, e poi il chiasso dolente del mercato arabo.
Hebron è i bambini dagli occhi vispi e freddi.
Hebron è una ferita.
Hebron è negli occhi lucidi di Ahmed.
Hebron può essere speranza.
Attraverso di nuovo l’ultimo check-point, sotto gli occhi scuri dei militari.
Poi respiro profondamente, quasi a voler cacciare fuori l’aria mista di polvere e cruda realtà.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin