Gianni Minà si è spento a Roma, dopo una breve malattia cardiaca, il 27 marzo 2023.
È stato uno dei più grandi giornalisti italiani di sempre, se non il più grande,
protagonista straordinario di un’epoca durante cui ha rivoluzionato
il mondo dell’informazione con il suo approccio schietto e pulito,
con la sua maniera familiare e profonda di intendere il mestiere di reporter.
Soprattutto, e forse è questa la cosa più importante da ricordare,
è stato un bellissimo, un meraviglioso essere umano.
Nonostante in questi giorni venga celebrato da più parti, è giusto sottolineare che Gianni Minà
venne epurato dalla Rai nel 1996, dopo essersi rifiutato,
nella puntata del suo programma Storie dedicata al caso Ilaria Alpi,
di tagliare delle immagini che mostravano come alle valigie della giornalista uccisa in Somalia, di rientro su un volo di Stato insieme alla sua bara, fossero stati tolti i sigilli.
Anche per questo, negli ultimi mesi, aveva dovuto ricorrere a un progetto di crowdfunding per provare a recuperare l’eccezionale materiale di archivio costruito in oltre cinquant’anni di carriera. Abbiamo deciso di celebrare Gianni Minà su Yanez con le sue stesse parole e per questo pubblichiamo oggi un estratto da Storia di un boxeur latino, uno straordinario libro pubblicato da Minimum Fax nel 2020, in cui Gianni Minà ripercorre alcune delle tappe fondamentali della sua vita e della sua carriera, dipingendo un ritratto storico del nostro tempo pieno di fascino e meraviglia.
L’ammiraglio Lacoste e il dramma dei desaparecidos
L’America Latina, all’epoca, non abitava solo in Brasile. Era un continente troppo grande per poterlo interpretare, e questo era proprio quello che mi piaceva. La sfida con la complessità delle cose. Mi sentivo come un criceto che ballava dentro un caleidoscopio. Più aguzzavo la vista, più forte le ruote smerigliate di quel cannocchiale si mettevano a girare.
Avevamo fatto le riprese in meno di due settimane: l’Argentina, l’Uruguay, la Bolivia, lavorando dodici ore al giorno. In Argentina avevo conosciuto Susanna Rinaldi e Mercedes Sosa, la cantante pop e la regina del folclore. In Uruguay eravamo entrati in contatto con altri due folcloristi, Daniel Viglietti e Alfredo Zitarrosa. Avevamo ammirato anche Hugo Diaz, un dio dell’armonica a bocca. Ma a Montevideo mi ero reso conto che la situazione politica del continente era molto più drammatica di come la descrivevano i giornali o telegiornali italiani. A parte qualche voce, come quella di Italo Moretti che aveva girato per la Rai un reportage coraggioso sul colpo di stato in Cile e sulle sue conseguenze. L’avvento al potere di Pinochet aveva segnato infatti per tutto il continente subtropicale uno spartiacque decisivo e sanguinoso. Da quel momento, chiunque si dichiarasse progressista era in pericolo. Alcuni artisti notoriamente comunisti se n’erano andati in esilio, altri avevano scelto di restare, ma correndo grandi rischi personali. Jorge Cafrune era stato ucciso, in Argentina, alla fine di un concerto.
La paura, la potevi avvertire: nuotava negli occhi e nel sangue delle persone, incrinava le loro voci, gli concedeva una particolare risonanza. Io ero andato lì per la musica, ma come giornalista dovevo raccontare tutto quello che percepivo. Così avevo cercato di intervistare i Buenos Aires 8. Me li aveva presentati Astor Piazzolla, che li produceva. Due componenti del gruppo erano già entrati in clandestinità. Incontrarli era difficile e sconsigliabile. Ma ero riuscito a ottenere un appuntamento, alle loro condizioni. Ci saremmo visti davanti a un’edicola convenuta. Io ero con Ruggero Miti, il regista di quel documentario, e un fonico che aveva nascosto i microfoni sotto ai giornali. I Buenos Aires 8 ci avevano fatto precipitare nel dramma dei desaparecidos fornendoci dei documenti inediti sul Plan Condor approvato da Nixon e Kissinger. E così avevamo scoperto che molta gente era stata già torturata e ammazzata. Inoltre c’erano state delle restrizioni significative alla libertà dei cronisti stranieri. Noi non potevamo fermarci a lungo, ma qualcuno doveva averci segnalato come presenze sospette, da tenere sotto controllo. Non si fidavano dei giornalisti occidentali, neppure di chi come noi era venuto a girare un documentario sul folclore musicale. Così avevano iniziato a marcarci, a farci storie per i permessi, per il diritto di suolo quando si filmava. Infine ci avevano affibbiato una poliziotta per controllarci da vicino. Ci avrebbe accompagnato per tutto il tempo che saremmo rimasti a Buenos Aires. Il primo giorno lei ci aveva portato alla centrale operativa perché vedessimo con i nostri occhi che la città era calmissima e l’ordine regnava nella notte bonaerense.
Alloggiavamo in un piccolo albergo, poco fuori dal centro. Ricordo che era stata una giornata piena. Mi ero buttato sul letto e avevo aperto il giornale. In prima pagina, c’era la notizia che l’indomani l’ammiraglio Lacoste avrebbe tenuto a Buenos Aires la conferenza stampa per la presentazione del Mondiale che si sarebbe svolto l’estate seguente. Allora avevo bussato alla camera del regista con il foglio del quotidiano in mano: «Non possiamo perderci questa conferenza stampa», avevo detto a Ruggero. «Ma tu che c’entri?», mi aveva chiesto lui. «Non sei qui come inviato sportivo!» Aveva però desistito subito, sapeva che era inutile insistere.
Alla conferenza dell’ammiraglio Lacoste c’erano i giornalisti di tutto il mondo. Almeno duecento colleghi, tra fotografi e cronisti televisivi e radiofonici. Appena entrato nel parterre, molti mi avevano riconosciuto e mi avevano salutato con grandi pacche sulle spalle, come quando arriva un amico che non ti aspetti di vedere.
Quel giorno, la conferenza rappresentava la notizia più importante dell’informazione mondiale. L’ammiraglio era la massima autorità della manifestazione. Erano iniziate le domande, sempre le stesse, quelle d’obbligo: «Qual è per lei la squadra favorita?», «Come saranno sorteggiati i gironi?» A un certo punto, non so cosa mi era preso. Forse un prurito sotto la lingua. Ogni volta che lo sento, non riesco a stare zitto. Avevo chiesto la parola e avevo detto: «Sono Gianni Minà, della Rai, siamo qui per un documentario musicale, ma siamo stati informati che ci sono dei problemi, che in questa città, da un po’ di tempo, sparisce la gente. È una notizia attendibile?»
Lo avevo detto in spagnolo. Ma non mi ero accorto, mentre la pronunciavo, della delicatezza della mia domanda in quella sala. Avevo letto il gelo e la preoccupazione sul viso degli altri giornalisti, anche di quelli migliori, più capaci e onesti. Per tutti era una domanda pirotecnica, che avrebbe acceso un gioco di fuoco. Da giornalista curioso quale sono sempre stato, non avevo calcolato il rischio.
L’ammiraglio mi aveva risposto secco: «Lei è male informato».
Ma qualcosa, nella sua voce, mi aveva urtato. Mi hanno sempre dato fastidio i toni categorici, che non ammettono repliche. «Guardi, non sono qui a fare la lezione all’Argentina, l’anno prossimo tornerò per i Mondiali. Volevo solo sapere, come giornalista, se dobbiamo preoccuparci per la nostra sicurezza».
«Lei è male informato», aveva ribadito l’ammiraglio.
Ma io, coglione, avevo sottovalutato la dimensione delle cose. Mi era venuta in testa una frase che mi aveva regalato il mio amico Osvaldo Soriano: «È sempre meglio sbagliarsi con le dittature, che avere ragione tacendo».
«Ma se qualcosa di simile succedesse, lei promette di intervenire?»
Per me era la tipica domanda sulla sicurezza. Per loro, la mia adesione pubblica alla campaña antiargentina. «Sapremo essere all’altezza della situazione», aveva replicato stizzito Lacoste, e aveva chiuso l’argomento.
Un regista italiano, Stefano Incerti, avrebbe raccontato, in seguito, quell’episodio nel film Complici del silenzio, una di quelle opere, come La notte delle matite spezzate e Garage Olimpo, che hanno tentato di rompere l’olvido, il silenzio al quale il mondo capitalista aveva condannato la realtà argentina per gli interessi delle multinazionali.
Alla fine della conferenza, un drappello di quei colleghi che mi avevano salutato all’entrata mi aveva girato le spalle e se ne era andato, facendo finta che non esistessi. Qualcun altro, invece, mi aveva tirato per un braccio e mi aveva soffiato sottovoce un «Bravo, bravo». Ma giuro che non lo avevo fatto per mettermi in mostra, era stato semplicemente più forte dei miei dubbi. Se fossi stato bravo per davvero sarei riuscito a provocarlo e a farlo esporre senza che lui se ne rendesse conto, con più eleganza e meno rischio. Ma l’ammiraglio si era irrigidito immediatamente, come se gli avessi toccato un nervo.
Non erano passati dieci minuti che era arrivato Giangiacomo Foà, il corrispondente del Corriere della Sera che era stato eletto portavoce di tutti i giornalisti inviati in quella stagione in Argentina, non soltanto di quelli italiani, ma anche dei belgi, degli americani, degli olandesi, dei giapponesi eccetera… Giangiacomo mi avrebbe ben presto spedito in Brasile, perché non era più sicuro per me rimanere in Argentina. Tutto stava degenerando velocemente.
Foà era stato drastico, asciutto, non mi aveva fatto quasi parlare: «Gianni, te ne devi andare, se puoi oggi pomeriggio stesso, altrimenti entro domani mattina». Avevo pensato che mi stesse prendendo in giro, che la situazione non poteva essere già arrivata fino a quel punto. Ma mi aveva messo con le spalle al muro. «Gianni, il rischio è molto più serio di quanto pensi, qui la gente sparisce davvero. La tua faccia l’hanno vista in televisione, in tutto il mondo». Io superficialmente ci avevo scherzato sopra: «Dai, andiamo in albergo, prendiamoci un caffè, ho un documentario da finire».
Eravamo andati in albergo. Appena entrati, si era presentata la poliziotta che ci avevano assegnato come guida turistica. Io avevo pensato: «Cazzo, questa volta devo averla fatta davvero grossa». Mi era salita un’angoscia sconosciuta. Ma anche quella sera la vita ci aveva spiazzato. Per fortuna, il ridicolo è in ogni situazione, anche nelle più drammatiche.
La poliziotta, a sorpresa, aveva chiesto del nostro regista. «Stanza 16», aveva risposto il concierge. Lei, senza fare altre domande, aveva preso l’ascensore ed era salita. In quei giorni, aveva fatto amicizia con Ruggero, che è sempre stato un tipo affascinante, ma non sapevamo fino a che punto. La poliziotta, intanto, era arrivata su, aveva bussato alla sua porta, era entrata nella camera e senza dire nulla si era spogliata nuda e si era infilata nel suo letto. Ruggero si era tolto i vestiti e l’aveva raggiunta sotto le lenzuola. All’apice del piacere si era sentito chiedere un disarmante: «Ma tu sei comunista?» E lui, senza perdere minimamente il controllo della situazione, aveva risposto: «No, io son di Bologna».
Avevamo riso anche di questo per anni, ma non abbiamo mai saputo se quella poliziotta stesse raccogliendo informazioni per lavoro oppure se la sua era stata un’appassionata insubordinazione. La verità è che se il nostro fonico, Gianni Gitti (anche lui di Bologna), non fosse riuscito a tirarci fuori dagli impicci, chissà che fine avremmo fatto. Gianni aveva le interviste che avevamo girato ai Buenos Aires 8, e i filmati di tante foto e documenti scottanti. Se li avessero trovati, per loro saremmo stati automaticamente conniventi. Ma per fortuna Gitti, per nasconderli, aveva riavvolto le pellicole fotografiche per farle apparire tutte ancora vergini. Un’idea semplice e quasi banale.
Non era più il momento di scherzare.
Giangiacomo Foà mi ordinò di andare a fare le valige. «Devi sparire. Il prima possibile».
Avevo lasciato agli altri della troupe l’incarico di terminare le riprese e il mattino dopo avevo preso il primo volo per l’Italia, con scalo in Brasile. Appena avevo messo piede su quell’aereo avevo tirato un gran respiro. Mi era venuta incontro una donna bellissima. Era Giuliana, la fidanzata di Little Tony, che lavorava come hostess per l’Alitalia. «Ti posso abbracciare?», le avevo chiesto.
Pochi anni dopo sono venuto a conoscenza che i desaparecidos, dati in pasto ai tiburones, gli squali dell’oceano, solo in Argentina sono stati, con la benedizione di Nixon, Kissinger e delle democrazie europee, oltre quarantamila.
© Gianni Minà, 2020
© minimum fax, 2020
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