“Kunst bleibt immer gleich dasselbe: Kunst. Deshalb gibt es keine Neukunst. Es gibt Neukünstler. Schon die Studie des Neukünstlers ist immer ein Kunstwerk, diese ist ein Stück von ihm selbst, das lebt.”
Egon Schiele, 1909 – Estratto dal manifesto dei Neukünstler
“La nuova arte non esiste.” Non sono solo le linee disperate a tagliare definitivamente i ponti con il passato, ma anche le parole con cui Egon Schiele immortala la sua visione dell’arte. Un passato che si interrompe con il manifesto del Neukunstgruppe (Gruppo della nuova arte), dove a palesarsi è la necessità estetica di trasformare la ricerca stessa dell’artista in opera, voltando per sempre le spalle alla tradizione.
Le “linee guida” dei Neukünstler (Nuovi artisti) strizzavano l’occhio all’espressionismo tedesco, senza però ricalcarlo; molti erano i caratteri esclusivi che elevavano il Neukunstgruppe a corrente artistica a sé stante. In qualche modo, il terreno era già stato loro spianato dal perturbante anti-naturalismo di Gustav Klimt. Tuttavia, lo stile dolce, sottile, ornamentale, soprattutto discreto, di Klimt, non osava penetrare nei punti più reconditi dell’animo umano. I Neukünstler, invece, si sentivano chiamati a esprimere le esperienze interiori dell’essere umano contemporaneo per mezzo di tratti essenziali ma ben manifesti, di colori risoluti e di un forte erotismo. Il risultato era un’anima vivisezionata da dipinti profondamente introspettivi, come quelli di Oskar Kokoschka ed Egon Schiele.
Ma che uomo era Egon Schiele?
Visionario, dissacrante, ha avuto una vita tanto bizzarra quanto breve, iniziata in una stazione dei treni e stroncata in giovane età dalla devastante pandemia di influenza spagnola. Proprio come nel migliore dei cliché, il piccolo genio di larghe vedute e dal carattere rivoluzionario si discosta presto dal percorso accademico per dedicarsi a una proficua ricerca in campo artistico, formalizzata con l’esordio del Neukunstgruppe nel 1909. In questo periodo però il suo avanguardismo è ancora focalizzato sulla tecnica della sovrapposizione dei piani portata in auge da Klimt, dove lo straniante sfondo su cui poggiano i soggetti naturalisti disorienta chi osserva.
Ne è la conferma “Bildnis Gertrude Schiele” (“Ritratto di Gertrude Schiele”), dipinto realizzato proprio nell’anno della pubblicazione del manifesto dei Neukünstler, in cui la contaminazione con il maestro della secessione viennese si palesa in forma di stile grafico. Sono delle linee nette e marcate a dominare sui colori, ora subordinati alle forme e usati a scopo meramente funzionale, gli elementi con cui il giovane Egon esprime le sue condizioni esistenziali. E per farlo si serve della sua musa per eccellenza, la prima sull’asse temporale e la più ritratta in assoluto, sua sorella Gertrude. È lei il soggetto unico del dipinto che porta il suo nome e che spinge con impeto il disegno ben oltre la fase preparatoria. Grazie a tali processi di matrice espressionista, Schiele anima vere e proprie allegorie interiori ed esplora l’esistenza fin nei suoi abissi. Su questi temi si concentrerà la sua ricerca, ma non prima di essersi completamente liberato dalle influenze di Klimt, dando modo alla propria personalità artistica di spiegare le ali.
Nonostante la titubanza iniziale, la personalità di Schiele inizia a venire a galla. Si avvicina da autodidatta alla tecnica di pittura en plain air, all’epoca considerata non convenzionale e assolutamente non contemplata dai piani di studio dell’accademia. Durante questo periodo dedicato all’osservazione della realtà circostante, entra in contatto con quello che diverrà l’elemento chiave del suo cospicuo corpus di opere (circa 3000, tra dipinti, acquerelli e disegni): l’autoritratto. Il suo modo di intenderlo è però nuovo, diverso. Siamo lontani anni luce dall’autocelebrazione. È piuttosto un allenamento alla percezione delle forme e un auto-invito a Mitleiden, a riflettere su se stesso riflettendo se stesso, come uno specchio. I corpi scavati degli autoritratti di Schiele testimoniano il lavoro archeologico da lui compiuto nei confronti dello spirito umano ormai lacerato, dove le pulsioni di vita e di morte si uniscono in una danza dalla mimica concitata e dall’esplosiva carica erotica. L’erotismo è provocazione, è ribellione contro il forte senso di inadeguatezza e disappunto, è un ponte tra il dolore personale e la frustrazione relativa allo spazio che abita. Una società dominata dall’ipocrisia borghese.
Il manifesto del Neukunstgruppe definisce in maniera molto nitida i traguardi che Egon si prefigge, fungendo quindi anche da agenda. L’unica opportunità di mettere a nudo il malessere privato dell’essere umano è quella di spogliarlo dalle convenzioni societarie dettate da buonsenso e decoro, superando il concetto di armonia. Per riuscirci dovrà però gettarsi a capofitto nell’essenza del tormento. Un tormento che in lui alberga sin dall’infanzia, quando nel padre Adolf vede deteriorarsi prima la psiche, e dopodiché il corpo, corroso dalla sifilide.
La provocazione viene lanciata per mezzo di linee tortuose e scure, perturbanti e spigolose, ma allo stesso tempo sinuose e in grado di enfatizzare la visceralità del corpo spoglio. È la stessa imperfezione dell’esistenza terrena a incarnare la carica erotica, un carpe diem perseguitato dalla sua più grande debolezza ed eterno tabù, il sesso. Al contempo il corpo si fonde con alberi, fiori, montagne e corsi d’acqua, lasciandosi inglobare dalla natura. “Tutto ricorda i movimenti del corpo umano”, scrive a Franz Hauer nel 1923. In questa visione sinergica con il paesaggio trova spazio il rapporto mordace di Egon con le donne, nell’arte e nell’intimità. Sicure di sé, impudiche e dominate da una sessualità disinibita manifestata dai genitali in bella vista, le figure femminili lo accompagnano in ogni fase dell’esistenza.
Innumerevoli le muse che si susseguono nel suo atelier, ma solo intessendo stretti rapporti personali riuscirà a rappresentare fedelmente il regno delle emozioni. I confini da tracciare sono quelli di un unicum che si insidia nei foschi interstizi in cui vivono i sentimenti, ben oltre il sottile strato di epidermide. Dopo la sorella Gerti, la seconda donna fondamentale nella vita artistica di Schiele è Walburga Neuzil. Wally è una giovane modella, e costituisce un ulteriore punto di incontro tra il pittore e il suo “mecenate” Klimt, di cui si vocifera sia stata un’amante. La storia d’amore nata tra la ragazza ed Egon si interrompe a causa del matrimonio tra quest’ultimo ed Edith Harms, una donna benestante, al contrario di Wally. Edith, che per un breve periodo poserà in esclusiva per suo marito, fu anche la sua ultima compagna di vita.
Tuttavia, questa esclusività si consumerà presto. Non appena la forma fisica di Edith accennerà a sfiorire, a subentrarle in atelier sarà sua sorella Adéle, instaurando un rapporto con il pittore che valicherà la sfera professionale. Dalla vita privata di Egon stilla trasgressione, un’attitudine che rende il personaggio chiacchierato e che lo mette anche, decisamente, nei guai.
“Il tredici di aprile [1912] venni arrestato e messo sotto chiave nel carcere distrettuale di Neulengbach. Perché? Perché? Perché? Non lo so – le mie domande non hanno avuto risposta. Nessun grido risuona a Vienna per il mio arresto – perché ancora nessuno sa che ho subito una violenza e che sono scomparso dalla circolazione. E se lo sapessero – griderebbero? Mi aiuterebbero? Forse G.K. e A.R. Gli altri però si nasconderebbero come dei vigliacchi e T.F. si comporterebbe come un gesuita dal volto severo e lo sguardo rigido, scrollerebbe le spalle considerandosi migliore di me sul piano morale, sentendosi segretamente liberato da uno che gli intralciava la strada.
Inferno! Un inferno, non l’Inferno, ma un infame, sporco, umiliante inferno nel quale sono stato scaraventato all’improvviso.”
(Diario dal carcere, 1912)
Schiele trascorre ventiquattro giorni in prigione, accusato di avere avuto rapporti, molestato, traviato, rapito, una ragazzina minorenne. Tuttavia riesce a svincolarsi presto dalla situazione, e finisce per essere condannato soltanto per l’esibizione di opere definite “pornografiche”. Il suo ruolo di artista scivola quindi in quello di vittima ingiustamente maltrattata, in cui le inquietudini non fanno altro che acuirsi. Gli stessi tumulti interiori si erano già manifestati nei mesi appena precedenti all’accaduto in opere dalle tinte che noi oggi tenderemmo a definire “dark”. Cupe e angoscianti, a tratti schizzoidi, in grado di mettere in dubbio la luce dell’esistenza.
Il memento mori al centro dell’opera di Schiele si delinea con fermezza in Profeti (Doppio autoritratto), dove danza macabra e concetto teosofico di corpo astrale si uniscono per poi biforcarsi. L’artista si sdoppia quindi in un vanitoso corpo terreno e nel suo enigmatico yang, in una complementarità tra vita e morte che si scontra in maniera perpetua nei suoi lavori.
L’espressività drammatica delle tinte emancipa l’attitudine crepuscolare di Egon Schiele. E sono proprio i colori mesti a metterlo al centro non solo di disegni e dipinti, ma anche di tutto ciò che lo circonda, dello Zeitgeschehen. Quest’arguzia nell’osservazione lo rende un visionario così abile da presagire la desolazione che sarebbe seguita al primo conflitto mondiale, l’evento che stravolgerà i perbenisti equilibri ereditati dall’Ottocento.
“Alles ist lebend tot”. Con questa espressione, Schiele rimarca la forte ambivalenza del secolo appena iniziato. Da un lato, la decadenza. Dall’altro, il respiro rivoluzionario. La stessa ambiguità affiora da tratti contorti, quasi scarabocchiati, e da tonalità che si sforzano di esprimere in maniera lineare ogni concetto esprimibile. La chiamata alle armi segnerà la vita del pittore con un’ennesima viscerale delusione, a cui però riuscirà a reagire grazie all’arte. Intorno al 1917 fonda con alcuni colleghi, tra cui Klimt e Arnold Schönberg, la Kunsthalle, uno spazio nato per supportare gli artisti tramite l’esposizione delle loro stesse opere in mostre collettive. Questi sarebbero stati inoltre “sponsorizzati” mediante la vendita di quadri e manoscritti, oppure con pubblicazioni di concorsi e traduzioni di poesie in lingua straniera. Egon scrive in una lettera al suo amico Anton Peschka che l’obiettivo del fondo “K” sarebbe stato quello di acquistare opere e fondare un museo dedicato alla Neukunst.
Se si pensa a questo denso susseguirsi di eventi, è difficile immaginare di trovarsi di fronte alla vita di un uomo vissuto per soli ventotto anni. Forse, il tragico epilogo della sua morte, avvenuta a soli tre giorni da quella della moglie Edith e del bambino che aspettavano, aveva da sempre inconsapevolmente stregato la persona-artista Schiele. Forse è stata proprio la sua necessità di percepire in maniera impetuosa ogni emozione a spingerlo a tracciare linee in grado di squarciare l’anima.
Autoritratto
Io sono per me e per quelli
ai quali la morbosa sitibonda smania d’esser liberi
tutto a mio avviso effonde,
ed anche per tutti, perché tutti amo – anch’io.
Sono tra i distintissimi il più distinto –
e tra chi rende, il massimo. –
Sono umano, amo la morte e amo la vita.
Egon Schiele
REDAZIONE
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