“Che importa chi parla, qualcuno ha detto, che importa chi parla.”
Samuel Beckett
Ho scoperto che a me, nella vita, piace fare collegamenti. Intraprendere lunghi voli pindarici per poi tornare al punto di partenza. Mettere in contatto persone che conosco per fargli fare cose insieme, così come associare idee. Confrontare le tendenze, studiare convergenze, unire i puntini. Poi possibilmente chiudere il cerchio, ma non alla maniera di Giotto.
Di conseguenza, l’arte che su di me fa presa è quella che mi fa pensare a qualcos’altro. È il quadro che mi fa pensare ad una foto, è la foto che mi fa pensare ad una storia, è il video che mi fa pensare a una poesia, è il film che mi fa pensare ad una statua.
I lavori di Giulio Squillacciotti, artista e videomaker romano classe 1982, mi fanno questo effetto.
Ho visto ‘Far, from where we came’ che è la storia fittizia di una famiglia raccontata attraverso fotografie trovate nei mercatini di Spagna e Turchia, ed ho pensato ai primi Luther Blisset, che si inventavano persone scomparse da far cercare a Chi l’ha visto.
Ho visto ‘Zimmerreise’ che mostra una donna ad una finestra in cerca di un paesaggio che qualcuno le sta descrivendo a voce come se fossero istruzioni per disegnarlo, e penso a ‘La storia dei miei denti’ di Valeria Luiselli che è un romanzo scritto a scaglioni ascoltando le storie ed i commenti dei lavoratori della fabbrica di succhi Jumex in Messico.
Sembra che il lavoro di Giulio si incaselli nel contesto attuale di post-verità, ma applicato all’arte, dove per post-verità si intende la percezione emotiva e sensoriale di una notizia come più importante della sua veridicità.
Mi dice infatti che per lui la verità è poco obiettiva, che non ne esiste una. Le storie si possono costruire in vari modi, o partire da eventi reali e poi sofisticarli, o inventare una storia e poi condirla con elementi reali. Come per esempio in ‘Scala C, interno 8’ che nasce dall’aver trovato per davvero una casa rimasta chiusa quindici anni, perfettamente preservata con i mobili di una volta, a cui è stata intrecciata la narrativa di Fausto e Livia i due protagonisti inventati, la cui storia viene sbobinata, messaggio dopo messaggio, dalla segreteria telefonica.
Il fine ultimo dei suoi film, d’altronde, è creare un’esperienza godibile, non gli interessa la credibilità in termini storici o estetici, lo spettatore non deve chiedersi se è vero o no, ma gustarsi il racconto.
Completamente controtendenza è invece la sua posizione rispetto all’elemento autobiografico.
In un momento storico in cui la scena artistica e letteraria, specialmente anglofona, ed anche più banalmente i social media, sembrano essere dominati dalla narrazione in prima persona, vedi le storie di instagram, i saggi personali e la ribalta dei memoir, Giulio sembra invece essere rimasto fedele ad una tradizione prettamente europea.
A me gli scrittori che ‘io, io, io’ non convincono. Lo scomparire da un lavoro per me è la cosa principale. Foucault e Barthes riecheggiano nelle sue parole anche quando afferma di non volere che il suo spettatore ideale pensi: ‘Chi sa il regista quante ne ha vissute per fare questo film.’ Nei miei lavori voglio annullarmi fino al punto che non c’è bisogno di sapere chi sia io per entrarci dentro. Gli artisti che a me piacciono, per esempio, ti parlano delle loro ossessioni, della loro storia, ma lo fanno applicandoci dei filtri. Come Basma Alsharif che è palestinese, però cresciuta in America, parla sempre di Gaza, ma in maniera estremamente metaforica, che se non sei attento e non leggi la sinossi dei suoi lavori pensi solo che sia matta.
Parliamo di ‘RMHC -1989/1999 Hardcore a Roma’, il suo primo documentario, e ammette che sì, è quello che gli è anagraficamente e geograficamente più vicino, ma che se fosse stato autobiografico in senso puro, se avesse dovuto raccontare l’hardcore romano attraverso i suoi occhi, ne sarebbe uscito tutt’altro lavoro. RMHC nasce più che altro da una necessità autobiografica, cioè quella di capire meglio, di esplorare a fondo un fenomeno che ho vissuto in prima persona. E di raccontarlo nel miglior modo possibile, in maniera che fosse fruibile a tutti e non solo a quelli che ci sono cresciuti dentro.
Mi dice che comunque la cosa che lo interessa di più è indagare come le cose cambiano spostandole di contesto. Come l’hardcore americano si sia trasformato una volta che è arrivato a Roma, per esempio. Mi racconta della sua formazione da medievista, mi spiega che nell’analisi di un manufatto fondamentale è risalire alla fonte, capire come gli stili si mischiano e cambiano a seconda della ri-funzionalizzazione del manufatto o del suo spostamento in termini geografici. Ma per capire come si mischiano gli stili devi prima conoscerli tutti. Gli interessano i meccanismi per i quali da un singolo fenomeno ne derivino altri quaranta sparpagliati in diversi luoghi. È questa curiosità che lo ha spinto a girare il suo ultimo documentario ‘Archipelago’, nel quale racconta come in alcune isole del Golfo Persico, a sud dell’Iran, l’incontro tra cultura africana, iraniana e dei paesi arabi ha dato origine a nuove credenze religiose che mischiano elementi dell’Animismo e dell’Islam. Delle entità spiritiche chiamate ‘Bād’, spostandosi tramite aria e correnti prendono possesso dei corpi degli abitanti delle isole e richiedono di essere quietate attraverso il rito musicale dello Zār. Non so se sia per qualcosa che mi ha raccontato di questo rito o se è per un’associazione spontanea, ma gli spiriti che viaggiano nell’aria mi fanno pensare alle voci trasportate dal vento e mi rendo conto che una costante dei film di Giulio è una voce narrante esterna ed incorporea. Penso a ‘La dernier image’ in cui si sente una donna rivolgersi ad un amante perduto e ripercorrere l’abbandono, mentre sullo schermo scorrono le immagini di quadri in un museo che sembra anch’esso abbandonato.
Gli chiedo che funzione abbia la voce come strumento narrativo nelle sue opere, mi dice semplicemente che gli è congeniale, che una voce onnisciente, fuori campo o che esce da un oggetto, sono il modo che gli sembra più semplice ed efficace per raccontare. Poi mi confessa un amore per le audioguide dei musei e capisco meglio. Mi racconta del suo ultimo lavoro, un video in cui una scolaresca va in visita all’ex Ospedale Psichiatrico di Collegno e la voce meccanica dell’audioguida esce a turno da uno dei ragazzi, come se ne fossero impossessati. Il film è parte di una mostra personale che risulta a sua volta da una residenza artistica in cui l’associazione Arteco gli aveva chiesto di riflettere sul lavoro di archiviazione del progetto Mai Visti nell’ambito dell’art brut o outsider art. Gli dico che da alcune riprese nei suoi film avevo intuito questa fascinazione per gli archivi, lui risponde che invece si era ripromesso di non averci più a che fare, ma che in fondo sì, sono esteticamente e concettualmente belli, conservano la memoria e la rendono disponibile al pubblico. Proprio la memoria mi sembra il tema conduttore di tutta l’opera di Giulio Squillacciotti, cominciando dal suo passato da medievista, alla scelta del medium del documentario, dalle immagini di archivi ai contenuti stessi delle storie che racconta. Chiedo conferma e questa prontamente arriva.
Quando sei più giovane fai le cose senza ragionarci troppo, nascono da un’esigenza che non ti spieghi. Ho iniziato a preoccuparmi di star accumulando una serie di lavori che non c’entrassero nulla l’uno con l’altro. Con il tempo però mi sono accorto che invece sono collegati tra loro: nascono dal desiderio di tramandare una memoria.
Tutto torna. È come staccare la matita dal foglio, allontanare il quaderno stendendo il braccio, per vedere meglio il disegno, nel suo complesso. Il tratto è intermittente, a volte più calcato a volte quasi trasparente. Non è sicuramente perfetto, ma somiglia ad cerchio che si chiude.
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Immagine di copertina: Visto due Volte – screenshot
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