Via Rasella è una strada stretta, lastricata di sampietrini, come se ne incontrano tante nel centro di Roma. Si inerpica da via del Traforo su fino a via delle Quattro Fontane, dove sbatte sui cancelli di Palazzo Barberini. La salita è bordata da palazzi attaccati l’uno all’altro, che si interrompono per un respiro nel punto di insenatura di via del Boccaccio, nella parte alta. Sui muri di intonaco sbiadito, squarci di diverse dimensioni conservano il ricordo delle mitragliate tedesche, dopo l’attentato del 23 marzo 1944, data del 25° anniversario della nascita dei fasci italiani di combattimento.
Nel primo pomeriggio di quel giorno, un uomo in divisa da netturbino spazza con fare impacciato la strada sul lato di Palazzo Tittoni. La via è poco frequentata a quell’ora: le poche botteghe si trovano nella parte bassa e la Roma occupata dai tedeschi non esce volentieri di casa. Quell’uomo ha un nome, Rosario Bentivegna, e un appellativo di battaglia, Paolo. Ha anche un carretto, dentro cui tacciono, nascosti, diciotto chili di tritolo. In cima alla salita, una donna lo osserva e cerca di evitare che venga notato da due poliziotti in borghese che la stanno importunando con troppe domande. Da lì può vedere Paolo, ma soprattutto la colonna del I battaglione del Polizeiregiment Bozen che imbocca la salita, cantando Hupf mein Mädel, e si prepara a saltare nella trappola dei Gruppi d’Azione Patriottica. Paolo ha posato la ramazza e armeggia con il contenuto del carretto. Poi risale la strada, velocemente. Un autobus passa su via delle Quattro Fontane, mentre il fuoco divora la miccia. Cinquanta secondi. L’esplosione scuote la terra e i muri, innesca le granate dei soldati. L’autobus sbanda. I mitra degli altoatesini cercano i nemici, mentre l’attacco gappista continua con quattro bombe a mano, precedentemente trasformate in bombe a tempo. Intanto, la donna si libera del grande impermeabile e vi riveste Paolo, per coprire la divisa da spazzino, troppo riconoscibile. Insieme, scappano verso piazza Vittorio, dove confluiranno gli altri compagni. Anche lei ha un nome di battaglia, Elena, oltre a quello che le è stato dato alla nascita: Carla Capponi.
Nonostante i genitori fossero fermi nella loro fede antifascista, non parlarono mai apertamente dei crimini e del pericolo rappresentato dal regime, né a Carla né alla secondogenita, Flora. Le due bambine, figlie del primo dopoguerra, furono educate a casa, tra i libri e le leggi naturali del giardino a cui avevano accesso dall’appartamento di via di Porta Fabrica, alle spalle di San Pietro. Nel 1929, alla famiglia Capponi, cresciuta di numero con la nascita di Piero, venne intimato lo sfratto per lo sbancamento dell’area. Si trasferirono in una nuova casa, nei pressi del Foro di Traiano e, per la prima volta, Carla mise piede in una scuola. L’impatto con quella nuova realtà fu tremendo, non si riuscì a integrare facilmente e la noia le fu insostenibile. Sono anni in cui la giovane aspetta con ansia i mesi caldi e le vacanze che trascorre nella casa di Grottammare. In una delle stanze della dimora estiva, un grande armadio stuzzicava la curiosità delle sorelle: vigeva il divieto di aprirne un’anta, sempre chiusa a chiave. Tuttavia, nell’estate del 1934, scoprirono che l’unica chiave che avevano a disposizione apriva anche la parte proibita. Vi trovarono scatole di cartoline e lettere di carattere amministrativo, guanti e cappellini. Ma anche un opuscolo dalla copertina di cartoncino chiaro, dal titolo “Delitto Matteotti”. E iniziarono a leggere. A quindici anni e mezzo, Carla era uscita dalla bolla di protezione in cui era vissuta e aveva preso in faccia lo schiaffo della verità.
«Chiuse le pagine di quel libretto, in noi si fecero strada una serie di interrogativi: perché mai il babbo e la mamma ci avevano tenuto nascosti quel tremendo episodio? Ci chiedevamo come mai gli uomini politici dell’epoca e anche il re, tutti fossero stati d’accordo nel nascondere quel delitto, cancellarne la memoria permettendo al dittatore di impossessarsi del potere. Riversammo tutta la rabbia contro i nostri genitori, convinte che la maggiore responsabilità fosse proprio da attribuire a loro e a tutti i genitori che come loro avevano tenuto nascosti ai figli fatti di quella gravità, lasciandoli in balia della propaganda fascista, privandoli di notizie così importanti per orientarli e difenderli dal veleno e dalla violenza di quella ideologia.»
Preso possesso dell’opuscolo, una volta tornate a Roma, ne fecero cinque copie scritte a mano, che distribuirono ai compagni di classe del Liceo classico Visconti. Una delle copie finì nelle mani del figlio di un gerarca fascista. Interrogata dal preside, la giovane sovversiva dichiarò di aver ricevuto quel “giallo” da uno sconosciuto in spiaggia durante le vacanze. Grazie alla credibilità del racconto, l’episodio fu catalogato come una ragazzata e non ebbe esiti spiacevoli. Ma il padre di Carla bruciò l’opuscolo originale insieme ad altri libretti di cui le figlie non erano ancora arrivate a leggere il contenuto. Inoltre, cominciò a informarle dei fatti che accadevano in Italia e nel mondo. Qualche anno dopo, appena scoppiata la guerra in Europa, l’uomo ricevette una lettera in cui gli si comunicava che il Duce avrebbe concesso la tessera del PNF a chi ancora non l’aveva ma si era distinto per meriti durante la Grande Guerra. Declinò l’offerta. In seguito, fu mandato a compiere ricerche petrolifere in Albania. Morì in Italia, nel 1940, in seguito a un incidente sul lavoro tra le montagne abruzzesi. Carla lasciò gli studi di Giurisprudenza e trovò lavoro presso il laboratorio chimico del Corpo reale delle miniere, con mansioni di dattilografia a trecentocinquanta lire al mese.
«La guerra disperse i nostri compagni di scuola, gli amici delle vacanze e quelli che avevano catturato il nostro cuore: chi in Grecia, chi in mare, chi in URSS. La scomparsa più dolorosa fu quella dei miei amici ebrei, e di loro mi è rimasto un sentimento perenne di vuoto. La mia vita si svolgeva tutta fra l’ufficio e le incombenze domestiche. La fatica più pesante era fare il bucato e, per evitare che lo facesse mamma, cercavo di assolvere quel compito nelle ore più strane, prima che lei vi mettesse mano; d’inverno l’acqua era talmente gelata da provocarmi un dolore così acuto che arrivava fino al cuore. Tutto era difficile e persino procurarsi un uovo o del latte alla borsa nera comportava lunghi percorsi per raggiungere i luoghi ormai noti delle vendite clandestine. Noi dormivamo con le patate “sotto il letto”: le consideravamo preziose.»
Il mattino del 19 luglio del 1943, le sirene suonarono l’allarme. Le bombe alleate già cadevano su Roma, gli edifici si sbriciolavano. San Lorenzo fu il quartiere più colpito, con circa 1.500 morti e 4.000 feriti. La militanza di Carla cominciò quel giorno. Corse via dall’ufficio e affiancò le dame di San Vincenzo nell’assistenza ai feriti e a coloro che avevano perso la casa, in gran parte sistemati nel Chiosco di San Lorenzo, dove i frati si presero cura di loro come potevano. In quel luogo furono nascoste anche famiglie ebree. Carla offrì il proprio aiuto senza sosta, dal giorno dei bombardamenti fino alla data del 25 luglio. Quella sera, mentre tornava a casa, uno strano e crescente clamore si levò dai palazzi di Roma. Le finestre si spalancarono, liberando inconsuete urla di gioia. Chiese a una donna cosa fosse successo. Lei gridò che Mussolini se n’era andato: “Hanno cacciato via er puzzone”. Il giorno dopo, iniziò la sua vera e propria attività politica, quando accettò di ospitare la riunione di alcuni cattolici comunisti. In seguito, mise a disposizione la sua casa come centro di diffusione del giornale del partito comunista, L’Unità, e come luogo di incontro per le riunioni dei dirigenti. Durante le riunioni, Carla suonava Chopin al piano, per coprire le voci con la musica.
La guerra continuava, a fianco dei tedeschi. Ma si formò anche uno schieramento antifascista attivo nella popolazione romana, a tutti i livelli sociali: la lotta divenne politica e nacque il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale). In data 8 settembre, alle 19:45, la radio EIAR sospese le trasmissioni musicali e annunciò l’imminente comunicato con cui Pietro Badoglio informò il Paese della firma dell’armistizio di Cassibile. Radio Londra rivelò che era stato firmato il 2 settembre, facendo crescere la paura degli italiani che ora si vedevano condannati ad avere il nemico in casa e ne temevano la ferocia. Dalla caduta del regime fascista erano stati fatti entrare in Italia altre sedici divisioni dalla Germania. Finiva così la guerra voluta dai fascisti, ma ne cominciava un’altra: quella degli antifascisti contro i tedeschi. Carla volle parteciparvi fin dalla sera dell’annuncio, quando dalla finestra vide, insieme alla madre, il Gianicolo lampeggiare. La mattina dopo, gli spari arrivavano dalle parti di Ostiense. Sentirono gente per strada che incitava ad accorrere per aiutare i soldati che stavano combattendo.
«A quell’invito, pensai che anch’io avrei potuto essere utile in un luogo dove si combatteva: “Io vado” dissi a mia madre. “Ma sei matta! Ma che ci va a fare una donna? Quell’invito è rivolto agli uomini”. “Vado a vedere. Donne e uomini saremo tutti utili.” Raggiunsi il gruppetto e mi dissero che erano diretti a Ostiense, dove abitava uno di loro che era venuto a cercare aiuto.»
Quel giorno, Carla liberò un soldato che non riusciva a fuggire dall’interno del suo carro armato, prima che il mezzo esplodesse. Gli fermò il sangue delle ferite con pezzi strappati dalla sottoveste, usate come bende improvvisate, e se lo caricò di peso sulle spalle. Era una donna agile, ma esile. Lo portò, con molta fatica, a casa sua, dove rimase per qualche tempo. Fu il primo di molti soldati feriti e clandestini che si rifugiarono sotto il tetto della famiglia di Carla durante la Resistenza: chiedevano aiuto per spogliarsi della divisa e fuggire con documenti nuovi, dal momento che erano cominciati i rastrellamenti nazifascisti tra i militari dell’esercito che ormai era disciolto. Si doveva evitare che venissero trovati e deportati in Germania. Intanto, proseguivano le riunioni e il centro di Foro Traiano divenne anche la base per le organizzazioni femminili della quarta zona, in cui Adele Bei teneva vere e proprie lezioni su fascismo, ideali della Resistenza, lotta operaia e indicazioni su come vivere in clandestinità. Inoltre, l’appartamento era diventato anche un deposito di armi dei GAP.
Un giorno, Adele presentò Carla come Elena: quel nome le rimase addosso fino alla Liberazione. Cominciò a lavorare nella raccolta di informazioni utili alle missioni per il settore “Centro” coordinato da Capranica. Le donne erano utili perché passavano inosservate in alcuni uffici. Venivano impiegate soprattutto come informatrici, staffette, coperture (spesso con il ruolo di finte fidanzate). Non le bastava: chiese più volte un’arma, che le venne ripetutamente negata. Quindi, se la procurò da sola. In autobus insieme a Paolo, diretti a un appuntamento in via Salaria, sfilò una Beretta 9 dal cinturone di un giovane milite della Guardia Nazionale Repubblicana. Fremeva per partecipare alle azioni dei GAP, ma quando lo propose a Giacomo (Antonello Trombadori, al comando del gruppo), lui le oppose un infuriato diniego. Non si diede per vinta e decise di accompagnare Paolo in una missione davanti a teatro Costanzi, oggi teatro dell’Opera. In quell’occasione, Elena e Paolo parlarono di poesia, sottovoce, come due innamorati, e lui le insegnò come accendere e lanciare la sua prima bomba sotto un camion di soldati tedeschi.
Si trovava insieme a Paolo anche la prima volta in cui sparò a un uomo: non fu semplice come gettare un ordigno e scappare. Mirare al bersaglio e vederlo crollare a terra gridando provocò in Elena un grande turbamento, che durò per giorni. Partecipò in seguito ad altre azioni, contro i militari che uscivano dal cinema Barberini e davanti al carcere di Regina Coeli, durante un cambio della guardia. La reazione dei nazisti fu quella di vietare l’uso di biciclette nel territorio della “città aperta” di Roma, dal momento che era il mezzo con cui si erano eseguiti questi ultimi attentati: dalla bici si lanciava la bomba, sulla bici si volava via dal luogo in cui sarebbe esplosa. Il coprifuoco era già stato spostato da mezzanotte alle diciannove, dopo l’attacco all’Hotel Flora, base degli uffici logistici del comando.
Il 1944 iniziò con lo sbarco degli Alleati ad Anzio, il 22 gennaio, e con molti arresti tra i GAP, che sgomberarono le loro basi, tra cui quella di Foro Traiano. La clandestinità dei militanti divenne totale. Elena si separò dalla madre e dal fratellino, con cui aveva vissuto fino ad allora e con i quali non avrebbe più dovuto avere contatti fino alla Liberazione. Nel frattempo ripresero i rastrellamenti, diminuiti per un periodo, in seguito a quello del ghetto ebraico il 16 ottobre dell’anno prima: interi quartieri vennero scoperchiati, i nazisti cercavano mano d’opera per le truppe al fronte o da deportare in Germania per i lavori pesanti. Il primo marzo, più di settecento uomini furono portati nella caserma di viale Giulio Cesare e, due giorni dopo, avendo saputo che i rastrellati erano stati portati lì, centinaia di donne si erano riunite davanti all’edificio. Semplici cittadini che volevano esprimere solidarietà e membri delle organizzazioni della Resistenza si erano mescolati alla folla di parenti. Ed era presente anche Elena, con la rivoltella in tasca. Una donna con un pacchetto in mano si fece largo tra la gente, seguita da un bambino, sotto lo sguardo dei militi della Guardia Nazionale Repubblicana. Dalle finestre, gli uomini scandivano il suo nome: Teresa. Si avvicinò e lanciò in alto il pacco, che probabilmente conteneva cibo, ma mancò l’obbiettivo e ricadde a terra. Si piegò per raccoglierlo e riprovare. Ma, a quel punto, arrivò un tedesco e la tirò da un braccio. In pochi secondi, estrasse la pistola dalla fondina e le sparò. Mentre il bambino urlava dolore, la folla gridava rabbia. Elena mirò all’assassino, nonostante i soldati della GNR le stessero addosso, ma una giovane accanto a lei la convinse a passarle l’arma. Spinta all’interno della caserma per essere interrogata, si mise le mani nelle tasche e vi trovò una tessera del partito fascista “Gruppo Onore e Combattimento”, con il nome di Marisa Musu, la compagna che aveva preso la sua pistola e che l’aveva appena salvata. Teresa Gullace, la cui storia ispirò il film Roma città aperta di Roberto Rossellini nel 1945, e dieci partigiani uccisi qualche giorno dopo, furono vendicati con l’attentato a un corteo fascista a piazza Montedoro. Intanto, si preparava il piano di via Rasella.
«Avevo bisogno di ritrovare tutte le ragioni che mi portavano a compiere quell’attacco. Ripensai al bombardamento di San Lorenzo, a quella guerra ingiusta e terribile, alle voci dei bambini del brefotrofio imprigionati dal crollo, allo strazio delle distruzioni che si vedevano ovunque e di cui avevamo notizia ogni giorno; ai nostri compagni fucilati, torturati a via Tasso; a tutti i deportati di cui non avevamo più notizia; ai duemila ebrei nei lager; a tutti i paesi di oltralpe sconvolti dalla devastazione. A quanti tra i miei amici erano già morti: sul fronte russo, in Grecia, in Iugoslavia, a mio cugino Amleto Tamburri morto a El Alamein, lui, figlio di un socialista.
Recuperai la visione esatta della realtà che stavo vivendo: per tutti coloro che avevano sofferto ed erano morti ingiustamente, che erano ingiustamente perseguitati, per loro dovevo battermi.»
In seguito all’attentato di via Rasella, morirono trentatré uomini del I battaglione del Polizeiregiment Bozen. Alle 11:30 del 25 marzo, con un comunicato emesso dall’Agenzia Stefani, il Comando tedesco di Roma dichiarò di aver ordinato la fucilazione di “dieci criminali comunisti badogliani” per ogni tedesco ammazzato. Lo dichiarò a ordine già eseguito. Alle cave Ardeatine, poco fuori Roma, vennero uccisi 335 prigionieri, di cui solo tre avevano ricevuto precedentemente una sentenza di morte. Nella foga di eseguire l’ordine, i nazisti prelevarono cinque prigionieri in più. I nomi delle vittime furono comunicati alle famiglie dopo qualche settimana, in giorni diversi, per evitare di dar vita a una rivolta.
A fine aprile, le SS scoprirono il nascondiglio dove Elena si trova insieme a Paolo e un altro compagno. I soldati fecero irruzione nell’appartamento, ma i tre riuscirono a scappare e si divisero. Elena trovò ospitalità provvisoria presso una professoressa, ex compagna di università di Antonio Gramsci, che le promise l’arrivo in breve tempo di una staffetta che le avrebbe portato cibo e notizie. Ma, a causa di un malinteso, la staffetta arrivò dopo cinque giorni ed Elena passò restò a digiuno.
C’era bisogno di combattenti anche fuori dalle città, sui monti, nelle campagne. Elena e Paolo lasciarono Roma, diretti a Palestrina, per lottare con i partigiani. Fu un periodo duro per il corpo e per la mente: lei, già magra, divenne sempre più pelle e ossa e Paolo accusò dei malori. Ma resistettero ancora, facendosi forza l’un l’altro, fino alla liberazione di Roma, il 4 giugno. Quel giorno, Elena, debole e febbricitante, si recò nella sede del giornale Il lavoro fascista, dove i nuovi occupanti preparavano la prima copia dell’Unità. Il primo piano dell’edificio divenne in poche ore il luogo in cui si ritrovarono i sopravvissuti di quella estenuante lotta.
«D’improvviso qualcuno mi chiamò “compagna” ad alta voce e allora mi resi conto che finalmente potevamo persino gridare, parlare, dire i nostri veri nomi, e quella parola, “compagna”, mi dava la misura e il senso della libertà conquistata. Una grande gioia mi invase e sentii che erano finiti la paura, la necessità di parlare sotto voce, le severe regole di clandestinità che ci costringevano a evitare di riconoscerci quando ci incontravamo per strada, a ignorare persino i nostri nomi, e a dimenticare gli indirizzi per tacerli in caso di cattura.»
Carla Capponi e Rosario Bentivegna si sposarono nel settembre di quello stesso anno. Ebbero una figlia, Elena e, anche dopo il divorzio, nel 1974, mantennero un legame molto forte. Nel 1953, Carla fu eletta deputata con il PCI e, nel 1972, nel collegio di Roma. Alla sua morte, la figlia non riuscì a ottenere dal Cimitero Acattolico di potervi seppellire le ceneri. Sono state quindi disperse nel Tevere, come disposto da lei stessa come seconda opzione. Entrambi, Capponi e Bentivegna, dopo la guerra, furono decorati con la Medaglia d’oro al valor militare, per la loro lotta al fascismo e al nazismo. Sul sito del Quirinale, l’onorificenza a Carla viene spiegata così:
“Partigiana volontaria ascriveva a sé l’onore delle più eroiche imprese nella caccia senza quartiere che il suo gruppo d’avanguardia dava al nemico annidato nella cerchia dell’abitato della città di Roma. Con le armi in pugno, prima fra le prime, partecipava a decine di azioni distinguendosi in modo superbo per la fredda decisione contro l’avversario e per spirito di sacrificio verso i compagni in pericolo. Nominata vice comandante di una formazione partigiana guidava audacemente i compagni nella lotta cruenta, sgominando ovunque il nemico e destando attonito stupore nel popolo ammirato da tanto ardimento. Ammalatasi di grave morbo contratto nella dura vita partigiana, non volle desistere nella sua azione fino a fondo impegnata per il riscatto delle concusse libertà. Mirabile esempio di civili e militari virtù del tutto degna delle tradizioni di eroismo femminile del Risorgimento italiano.
Roma, 8 settembre 1943 – 6 giugno 1944”.
I corsivi sono tratti da Con cuore di donna, di Carla Capponi, edito da Il Saggiatore, 2000
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin