illustrazione di copertina di Giulia Dasiari
Questo racconto è stato realizzato nell’ambito dei laboratori di scrittura creativa organizzati da Le Balene Possono Volare
___________
Bologna se l’era sempre vissuta come la città di suo padre, anche se lui era di Modena. Arrivavano in treno con la madre e i fratelli, spesso durante le vacanze. Il padre li veniva a prendere al binario con la fronte alta e i capelli di solito neri e dopo poco brizzolati e dopo molti anni completamente bianchi, ma lui li ricordava sempre grigioscuri. Lo abbracciava e sapeva di pino e della casa di famiglia, in campagna.
La fronte alta del padre aveva in cima due protuberanze a bernoccolo, che lo facevano somigliare a un diavolo dalle corna spezzate come Hellboy. Da piccolo alla stazione il padre l’aveva fatto andare veloce su quei vecchi carrelli per bagagli che ora non si vedono più, finché a tutto spiano non aveva picchiato in pieno contro un cestino di marmo. E così da quella volta i bernoccoli sulla fronte erano cominciati a crescere anche a lui, un’eredità dell’inferno.
Non fu però l’unica cosa che gli era stata tramandata. Nella città con più portici al mondo, nel capoluogo che ospitava la prima università della storia (era sempre suo padre a dirgli queste cose), non era mai riuscito a intravedere la benché minima traccia dello spirito studentesco che si diceva la animasse. Tra un McChicken divorato all’angolo tra Via Indipendenza e Ugo Bassi e una visita alla Feltrinelli (una volta Ricordi) in Via dei Mille, lo spirito gli era sempre rimasto celato al di qua dell’esperienza, perduto tra la Ford su cui erano da caricare i bagagli e la spesa da fare prima di andare a casa. Incontrare lo spirito era stato il desiderio di suo padre, e lasciava adesso a lui la mancanza di un idillio perso per sempre, come un paio di corna spezzate.
Forse lo spirito studentesco si muoveva di notte, in forma di bestia taurina si aggirava per altre sconosciute piazze. La sera, mentre andavano verso l’ipermercato di Bazzano, esso già si muoveva sulle mattonelle levigate che riflettevano la scarsa luce dei lampioni nelle logge. Era animato da qualcosa di più basso del desiderio. Si avvicinava a personaggi come un giovinastro malandato, bolognese o magrebino, con la birra in mano che si appoggiava sullo stipite di un abbeveraggio da quattro soldi, dove venne avvicinato dallo spirito.
«Com’eri tu, prima di arrivare qui?» disse quest’ultimo.
«Ma sì dai, te lo dico io com’ero, ero uno che stava per lasciare il liceo senza finirlo, poi dopo che mi han segato ho detto – diobò regaz l’ultimo anno tocca spingere. Poi si va a Bologna a rimediar’ la gnocca» disse il giovane.
«Non sei più la persona giusta» e lo spirito si rituffò nella notte velata d’arancio per cercare un’altra preda.
Entrò in uno dei palazzi dove si diceva che i viavai degli studenti fossero molto fitti. Attraversò il cortile di quel mondo senza sede. Al terzo piano non fu uno studente ad aprirgli, ma una signora di mezza età.
«Vieni, ti stavo aspettando» gli disse con un sorriso ingenuo e un’aria risoluta, guidandolo verso un’altra stanza. Lo fece accomodare su una poltrona rigida e molto magra. Pelle e acciaio formavano la struttura ossea.
«Mi dica, che fine hanno fatto gli studenti che abitavano qui?» chiese lo spirito, fingendosi innocuo.
«Ma cosa dice? Pensa forse che a Bologna vivano solo studenti? Noi abitanti non esistiamo più? E anche gli studenti non sono forse abitanti? E perché mi dà del lei? Non potrei essere stata una studentessa anch’io?».
Lo spirito, sulle prime fiducioso, fu deluso e impietosito da quella signora fuori tempo, dai suoi racconti tediosi e ondulatori, dall’eco di quelle annate perse: sogni sospesi e mai vissuti che avvizzivano l’anima e lasciavano il corpo pelle e ossa.
«Lei è già stata divorata» disse, e si congedò nell’ombra.
Andò a cacciare altrove. Vide una ragazza nascosta tra le nebbie di una piazza di cui soltanto esso conosceva il nome. Aveva i capelli rossi o castani, gli occhi verdi o marroni, un cappotto scamosciato o una giacca di jeans. Una vera prelibatezza.
«Cosa fai in questa città?» domandò lo spirito.
«Fin dalla prima volta che sono arrivata mi sono sentita ben accolta. La lingua del posto mi era familiare, anche se non la parlavo con scioltezza. Non so se la imparerò mai del tutto. Ma in ogni bar sei la benvenuta, prendi un caffè ed è subito casa tua. Una volta, passeggiando sulla leggendaria Via Zamboni , mi fermai a uno slargo di cui non ricordo il nome. In quel settembre felice non conoscevo ancora questi luoghi, non avevo ancora deciso se iscrivermi qui o a Milano o a Roma. Entrai in un bar molto largo e profondo, con le pareti nere. Ordinai un chinotto, sedendomi al tavolino occupato da un ragazzo perché solo lì c’era una presa libera. Mi sedetti solo per questo, lo giuro!».
Lo spirito era elettrizzato e non vedeva l’ora che la ragazza continuasse.
«Vai pure avanti, prego» disse.
«Quel ragazzo fu molto gentile e il suo sorriso sembrava aver capito che ero nuova, ma che volevo ambientarmi. Speravo saremmo diventati subito amici. Solo amici. Per il resto del tempo in cui restai al tavolo non so chi dei due cercò di ignorare l’altro con più gentilezza, di rubare uno sguardo con meno imbarazzo. Non ricordo chi dei due non chiese all’altro il numero.
«Subito dopo cercai un’aula studio e chiesi informazioni in segreteria, come avevo fatto in tutte le facoltà di tutte le città in quegli ultimi mesi. Non dovevo studiare nulla ma trattai il libro appena comprato come il testo di un esame molto importante, solo per sentirmi parte del gruppo di ragazze che stavano lì in silenzio, in attesa dei rumori piacevoli che sarebbero arrivati la sera. Quello spazio chiuse alle cinque, ma non prima che si spargesse nei corridoi l’alone musicale della parola Verdi . “Andiamo in Piazza Verdi”, sembrava dire qualcuno dal niente. Mi unii a due ragazze che avevo appena conosciuto perché una delle due – per fortuna – era stata abbastanza spudorata da farmi un commento sul libro.
«Se leggi ancora Agamben devi essere nuova qua» mi disse.
«Nuovissima» le risposi.
«Un bel sorriso» aggiunse l’amica, non per farmi una foto a tradimento come alle medie ma per commentare l’espressione che evidentemente stavo già sfoggiando di mio. Gianna e Marina mi piacquero subito, rappresentavano un sogno insperato, un incontro a lungo atteso».
«Continua, il tuo racconto si fa ancora più interessante» disse lo spirito, trattenendo a stento l’appetito. Andarono a fare due passi, a ristorarsi dalla brezza autunnale tra i portici dell’università. Dopo poco, lei continuò:
«Era una piazza come non mi sarei mai aspettata, non riuscirò mai a definirla. Gente dalle provenienze più disparate e dalle appartenenze più indigene si affollava a destra e sinistra in un’immonda confusione. La plastica delle cannucce era accompagnata dal vetro delle bottiglie che un mare di persone, con gli atteggiamenti più diversi, portava fuori dai bar e lasciava ad accumularsi sulle strade, in un ciclo senza fine. C’erano gruppi che facevano a botte, ma un secondo dopo si stringevano l’un l’altro la mano in segno di pace; poi riprendevano il diverbio per dare sfogo all’ultimo sputo del loro orgoglio. Diverse comitive inneggiavano all’occupazione di alcuni spazi, al supporto di una giusta causa per mezzo dell’appropriazione di una certa area. Più condividevo la loro idea, meno avrei potuto far parte del gruppo che la sosteneva.
«Gianna incontrò il ragazzo che avevo conosciuto nel pomeriggio al bar. Da come si salutavano era chiaro che si conoscevano da tempo, che il loro rapporto era avvolto da una coltre di tradimenti e complicità per me inavvicinabili. Non so se lui fece finta di non conoscermi o se non mi vide e basta. Sarei potuta rimanere sola con Marina, ma nel guardarla mentre loro si allontanavano, mi sembrava un’altra persona, la sua carica si era interamente spenta, mi guardava con occhi che parevano aver perso tutto l’interesse per me. Sarei andata a prendere una birra da sola se non fosse che proprio in quel momento i bar chiusero, la polizia fece qualche multa e sparì, Gianna e il ragazzo che sembrava esserle così legato si separarono e andarono, come due sconosciuti, in direzioni opposte».
In quel momento lo spirito fu attraversato da una scossa, la sua ombra sembrò prendere corpo. Voleva ridere famelico, ma si sforzò di trattenersi. Era molto soddisfatto dal resoconto del suo operato, dal putiferio di quella piazza di cui soltanto esso conosceva il nome. Ma in parte era stato preso alla sprovvista, come qualcuno che non è sicuro di aver vinto davvero alla lotteria. La sua astuzia richiedeva un’ulteriore conferma. Così gettò cautamente la sua esca: «Ma in fin dei conti, non credi che valga la pena di venire a vivere qui ora? Pensa a quanto di bello ti aspetta! Giovane e innocente e piena di vita!» disse per legare fatalmente la ragazza.
«Non credo proprio, sai. Nonostante l’iniziale accoglienza, questo posto non assomiglia affatto al sogno di mio padre» disse la ragazza.
«Come osi!» disse lo spirito in un ruggito di indignazione «quello che dici mi suona fin troppo familiare!»
La ragazza si tolse il cappotto scamosciato o la giacca di jeans, si strappò di dosso i capelli rossi o castani, si cavò gli occhi verdi o marroni.
«Hai ragione, diavolaccio, ma che vuoi farci? Soltanto questa maschera con cui ti ho ingannato mi ha consentito di vedere il tuo vero volto. Il tuo idillio non era altro che un desolante inganno, la promessa di riparare qualcosa che non era mai stato spezzato per davvero. A che serve avere le corna intere se poi devi essere il demonio?»
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin