La biografia di Donatella Di Pietrantonio sarebbe affascintante da scrivere. E’ infatti una donna di una riservatezza pacata, che non fa pesare, ma lascia lì, tra parole equilibrate. Fiera della sua terra di origine e, permettetemi il termine duro, ma è l’unico che trovo, ossessionata dalla figura materna. Ci siamo sentiti un giorno di aprile e abbiamo parlato dei suoi libri, in particolare de L’Arminuta che, da poco, è stato tradotto anche in tedesco.
Abbiamo parlato dell’Abruzzo, terra tormentata, e di che cosa significa scrivere quando è l’unico mezzo per espugnare la parte più profonda di sé.
La maternità è il tema conduttore di tutti i suoi libri, però ne L’Arminuta è imperante anche il tema della sorellanza.
Sì, la sorellanza diventa importante nel vuoto lasciato dagli adulti. È un tema prevalente perché è l’unica cosa che funziona in questa famiglia a cui la protagonista viene restituita.
Mi riferisco a quel tipo di vuoto lasciato dalle madri.
La protagonista si definisce orfana di due madri viventi, quindi entrambi i tipi di maternità, quella biologica e quella adottiva, elettiva, hanno, nel suo caso, fallito. Questa relazione con la sorellina minore di tre anni, Adriana, diventa un elemento importante per la sua sopravvivenza nel momento in cui lei è costretta a tornare presso la famiglia originaria di cui ovviamente non può avere nessuna memoria consapevole, visto che è stata ceduta agli altri genitori quando aveva soli sei mesi e si trova davanti una nuova madre così poco accogliente, empatica e affettuosa.
La figura della protagonista ha una importanza narrativa determinante, sia come costruzione del personaggio che come messaggio che passa attraverso il racconto. Una delle domande che mi sono fatto è stata: com’è riuscita a mettersi nei panni di una tredicenne e raccontare quel tipo di storia tormentata? Che tipo di lavoro narrativo ha fatto sulla voce del personaggio principale?
In realtà mi è stato più facile identificarmi con la tredicenne che con l’adulta che racconta la storia. È stato del tutto spontaneo assumere la voce della tredicenne che ha subito due abbandoni. Mi è stato, invece, più difficile sintonizzarmi con la voce della trentenne che narra la storia, ho avuto più difficoltà ad inserirmi con le riflessioni e le considerazioni dell’adulta che lei diventa.
Questa empatia con la tredicenne me la spiego con la mia personale esperienza di figlia di una famiglia contadina che, nell’infanzia, ha patito in qualche modo la parziale assenza della figura materna. L’Arminuta non è un romanzo autobiografico, nulla di ciò che accade è accaduto a me. Quello che invece è in comune tra la mia protagonista e me stessa è questo senso di abbandono, che nel mio caso era dovuto dal fatto che mia madre, essendo una donna contadina, trascorreva tutta la giornata nei campi. Quando poi la sera entrava in casa, doveva fare la casalinga. Quando c’era era impegnata a fare qualcosa di diverso. Questo è il vissuto che ho in comune con L’Arminuta.
Ma lei che tipo di madre è, una madre di oggi o una madre di ieri, nella concezione in cui è lei a decidere dove circoscrivere ieri e oggi?
Penso di essere una madre di oggi che si è portata dietro le conseguenze di figlia declinandole al contrario, quindi patendo la mancanza e la presenza/assenza della madre. Credo di essere stata una madre troppo presente, troppo invadente, troppo ansiosa.
La madre troppo invadente e ansiosa, è una madre di ieri?
Ma io non ci credo a questa distinzione di madri di oggi e madri di ieri, nel senso che, a conti fatti, i problemi sembrano diversi ma sono in fondo gli stessi. Ci sono molte componenti, alcune strettamente personali, psicologiche, intime che non penso siano diverse a seconda delle epoche. Poi c’è sicuramente l’influenza di un ambiente e una società che muta, ma solo superficialmente, a mio parere. Allora mia madre non aveva la possibilità di stare con me perché stava lavorando nei campi, oggi le donne condividono le stesse difficoltà, ma gli impegni sono diversi. Forse lavorano in fabbrica o sono manager, donne in carriera, ma in fondo le problematiche sono sempre quelle.
Quindi non è cambiata la figura della madre, ma è cambiato ciò che sta intorno alla figura della madre.
Sì, sicuramente sono cambiati i tempi, ma in ogni caso non credo si possa generalizzare. Le madri attuali, in generale, forse sono più competenti, più pronte, ma poi dipende sempre da quella che è la storia personale di ognuna, dal vissuto. Le differenze sono più di superficie che di profondità. Forse oggi c’è una maggiore percentuale di madri adeguate, dico forse, dato che non so come si fa a stabilirlo.
se la scrittura è morte, è annientamento, allora perché scrivere, perché uccidersi ad ogni libro. È evidente che è un’attività sofferta e sofferente, ma resta necessaria, indispensabile, irrinunciabile.
Quando ha scoperto e, in qualche modo, deciso di avere la necessità di scrivere e quando ha capito che poteva diventare determinante come lo è in questo momento?
L’ho scoperto molto presto e molto tardi. Molto presto la scoperta dell’urgenza, del bisogno di scrivere e molto tardi poi l’inizio dell’avventura editoriale, la pubblicazione. Ho cominciato a scrivere da bambina, quando con la scuola elementare ho imparato la manualità della scrittura, perché era tutto quello che avevo, era l’unico mezzo espressivo che mi si è presentato. Vivevo in un piccolissimo borgo pedemontano, dove non c’era nemmeno la corrente elettrica, il telefono, nemmeno una strada carrozzabile, quindi si arrivava al borgo a piedi o a dorso di mulo. Ecco, che cosa avevo io per esprimermi? Quello. Quando ho iniziato la scuola che frequentavo con grande sacrificio, due chilometri a piedi all’andata e due al ritorno, che percorrevo attraversando il bosco da sola, lì si è manifestata la mia prima modalità per poter tirare fuori da dentro di me la sofferenza che avevo ed è stata un’attività che ho coltivato in segreto, in solitudine, fino a quando, a quasi cinquant’anni, dev’essere scattato una sorta di meccanismo dell’adesso o mai più. Quindi ho cominciato a propormi agli editori ed è iniziata la seconda parte.
Ho sempre pensato allo scrivere narrativa come a qualcosa che si ha il tempo di fare fino all’ultimo istante della propria vita, però è una cosa che mi è sempre rimasta un po’ lì, perché poi il dubbio del ‘forse non ho più tempo, forse è troppo tardi‘ resta appiccicato addosso allo scrittore. Lei è l’esempio lampante, uno degli esempi, che questo pensiero è superfluo. È interessante.
Lei ha detto che la scrittura è stata la sua salvezza, mentre spesso ho letto che per altri è stato l’opposto. Mi viene in mente, per esempio, Norman Mailer che durante un’intervista per Paris Review, rispose ad una domanda dicendo che la scrittura è una specie di annientamento, che consuma profondamente, non si è più tutti interi. È come se, terminando un romanzo, uno scrittore si tolga la vita.
Credo sia un pensiero esattamente opposto al suo.
La considero una salvezza dopo una malattia. A volte ci piace dare più importanza a queste cose di quanta ne abbiano. A me piace molto la definizione che mi ha dato Michela Murgia in una mail che mi inviò personalmente quando era da poco uscita L‘Arminuta. Lei mi scrisse “la scrittura è una malattia che si cura da sé“. Quella probabilmente è una definizione esaustiva perché comprende entrambi gli elementi. Certo che se la scrittura è morte, è annientamento, allora perché scrivere, perché uccidersi ad ogni libro. È evidente che è un’attività sofferta e sofferente, ma resta necessaria, indispensabile, irrinunciabile. Altrimenti non andremmo avanti. Quello che è certo è che non è un passatempo. La scrittura è dolorosa, mette in gioco delle parti profonde di sé che, forse, starebbe anche bene relegate in una zona inaccessibile, ma se scriviamo è perché non siamo capaci di tenerle buone, dobbiamo necessariamente metterle in gioco, e la modalità che abbiamo trovato è la scrittura. Così come il pittore ha trovato la pittura, così come lo scultore si ammazza contro il blocco di marmo perché non può farne a meno. Ognuno di noi ha bisogno di esprimere quello che ha dentro e che non può contenere. Dobbiamo rassegnarci, ognuno si fa male in qualche modo, citando Alvaro Mutis, per consegnare alla morte una goccia di splendore. Credo che lo scopo di tutto sia quello.
Lei che tipo di pubblico ha in mente quando scrive. Ha un pubblico a cui si rivolge?
Mentre sto scrivendo non ci penso molto, anche perché per la maggior parte della mia vita ho scritto senza un pubblico, poi dal 2011 in poi, quando è uscito il primo romanzo, so che ci può essere un pubblico.
Durante la stesura ci penso relativamente poco, non vorrei sembrare ingenerosa, ma è così. Di certo, se mi sforzo, penso a lettori che non comprano i miei libri per divertirsi, ma casomai per entrare in contatto con le zone profonde del sé, così come io sono costretta a farlo mentre scrivo.
Un’altra cosa che ha detto, sempre per stare sui lettori, è che uno scrittore non è mai completamente consapevole di quello che sta facendo. È una cosa che può sembrare semplice, ma mi ha colpito molto, perché credo abbia una profondità maggiore rispetto a ciò che spiega in superficie. Consapevole di cosa?
Questo è vero per me, ma credo anche per altri. Mentre scriviamo una scena non sempre lo puoi sapere da quali parti di te attingi la necessità di quella scena. A me capita che spesso siano proprio i lettori a svelarmi da dove nasce. In molti momenti io scrivo di getto. Chiaramente poi ci ritorno, limo, aggiusto, taglio, ma quando si scrive di getto, non si sa da dove sgorga la scrittura in quel determinato momento. Solo successivamente puoi diventarne consapevole, attraverso la tua propria riflessione o perché ti arriva un feedback esterno da un lettore.
Quindi mi viene da chiedere, su L’Arminuta, prima del feedback del lettore, a lei che tipo di consapevolezza è arrivata dalle sue riflessioni?
Che ancora una volta stavo scrivendo delle solite mancanze. Alla fine la trama è una sorta di vestito che si indossa, però al fondo c’è sempre quel nodo mai sciolto e, nel mio caso, è il rapporto materno. D’altronde si dice sempre che gli scrittori hanno i propri demoni, oppure si dice che lo scrittore scriva, in fondo, sempre lo stesso libro.
È importante avere la consapevolezza di scrivere tre libri sempre sulla figura della madre. Parto dal fatto che lei mi ha detto che non si è mai totalmente consapevoli dell’origine di ciò che si scrive, però lei, ad un certo punto, comprende che è tornata ancora su quella cosa, nonostante ne sia ormai consapevole. Perché è così potente?
Perché non lo superi, perché non guarisci. Perché nessun romanzo è così risolutivo da regalarti una catarsi e allora ci ritorni, come un assassino sul luogo del delitto. È un bisogno che non viene meno, però non credo che questo sia inutile. Può essere vero che uno scrittore in fondo scriva sempre lo stesso libro, ma fortunatamente lo scrive anche sempre diverso. Entra sempre in nuove pieghe di quel tema, altrimenti non si spiegherebbe nemmeno perché i lettori debbano continuare a seguire lo stesso autore.
È una sorta di serialità. Si diventa killer seriali della propria ossessione.
Sì, in qualche modo sì.
Durante le feste non so mai bene cosa fare, dove mettere le mani, lì viene fuori la riservatezza e forse anche la timidezza che è un dato legato alla mia appartenenza geografica e territoriale, gli abruzzesi.
Ha sempre detto di essere una donna molto riservata, il successo ha inciso sulla sua personalità, se consideriamo il successo come un nemico della riservatezza?
Ha inciso nel senso che incontro moltissime persone, rilascio interviste, viaggio, ma diciamo che la mia è anche una riservatezza selettiva. A me non dispiace parlare degli argomenti dei miei libri, anzi, il dialogo con i lettori è sempre fonte di arricchimento e di consapevolezza. Quello verso cui mi sento riservata è la parte mondana, il mondo editoriale. Io sono terrorizzata dalle feste, per esempio.
Come la gestisce questa cosa?
Cerco di sottrarmi. Però, al di là di questo, gli incontri umani sono sempre interessanti. Per me è stato importante incontrare certi scrittori. I primi due nomi che mi vengono in mente sono Paolo Giordano e Franco Arminio, oltr che diverse colleghe scrittrici. Ora ho anche paura di fare una lista, perché temo la dimenticanza.
Durante le feste non so mai bene cosa fare, dove mettere le mani, lì viene fuori la riservatezza e forse anche la timidezza che è un dato legato alla mia appartenenza geografica e territoriale, gli abruzzesi.
Gli abruzzesi. Mi viene da citare nuovamente la Murgia, la quale afferma che l’Abruzzo è, in certi suoi aspetti, anch’esso un’isola. Qual è la sua prospettiva rispetto alla sua terra?
La mia è una prospettiva interna e, a volte, mi capita nelle interviste, che l’interlocutore non si rassegni a questa mia scelta di continuare a vivere in Abruzzo. Mi è capitato che una giornalista insistesse molto su questo. Io le ho detto che vivo a Penne, un paese di dodicimila abitanti in provincia di Pescara. E lei ha insistito dicendo “Sì, ma torna lì a vivere il fine settimana, durante la settimana vive a Roma” e io le ho risposto che mi muovo se devo, ma abito qui, vivo qui. Quindi sembra una scelta bizzarra e, invece, questo è il mio luogo.
Naturalmente ho, con il mio territorio, un rapporto ambivalente, di odio e amore. Ho un legame profondissimo con questa terra, ma ho anche molta rabbia rispetto al fatto che questo territorio non sappiamo né valorizzarlo né proteggerlo nella sua straordinaria e riservata bellezza.
Cosa significa che non sapete proteggerlo?
Parlo in generale dell’Italia e in particolare dell’Abruzzo. Come le ho detto, casa mia è questa. A me piace molto viaggiare, conoscere luoghi molto impattanti dal punto di vista di natura e ambiente, però tendo a considerare casa mia l’Abruzzo. Quando dico che non riusciamo a tutelare i nostri luoghi, mi riferisco soprattutto all’Italia in generale, e poi all’Abruzzo perché è quello che conosco meglio. Paradossalmente, la grande ricchezza che abbiamo sia in termini di paesaggi che di bellezze architettoniche è anche la nostra debolezza. Nel senso che non riusciamo a stare dietro a questa grande meraviglia. È una cosa che mi fa arrabbiare.
Quando parlo dell’Abruzzo mi riferisco, per esempio, alla cementificazione delle coste, all’acqua inquinata. Io non credo che l’Abruzzo sia un territorio che si debba aprire ad un turismo di massa, perché non è vocato per quello e poi non saremmo in grado di gestirlo. Dobbiamo puntare ad un turismo consapevole e di nicchia, cercare di tutelare le eccellenze del territorio, come quelle enogastronomiche, per esempio. Cercare di opporci allo spopolamento dei paesi, che non interessa solo l’Abruzzo, ma tutta l’Italia. Perché rischiamo grosso, lo vedo io nel piccolo spazio della mia vita, la casa in cui abito da vent’anni in un quartiere storico di Penne che, in vent’anni si è molto spopolato. Questo mi preoccupa, perché quella di cui sto parlando è un’Italia minore, quella dei paesi, che comunque è depositaria di grandi bellezze, di opere d’arte che stanno andando in malora non solo per i terremoti. Parlo di un’incuria amministrativa che sta lasciando andare un patrimonio che seppur minore, è meritevole di essere conservato.
Vuole molto bene all’Abruzzo, si percepisce.
Moltissimo.
Abbiamo finito. Sta scrivendo in questo momento della sua vita?
Sto scrivendo, anche se rispetto alle altre volte è più difficile trovare il filo, la concentrazione, proprio perché questi viaggi così frequenti, questa esposizione, direi sovraesposizione, non è molto amica di quel ritiro, solitudine e concentrazione che la scrittura richiede. Però sto scrivendo, sì.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin