What did you take from home? fa parte di un progetto supportato da Emergency Deutschland. Una mostra degli scatti sarà esposta dal 13 ottobre 2017 (vernissage) al 28 ottobre 2017 presso la Redazione di Yanez.
Qui tutte le info.
La prima cosa che noto di Marjola Rukaj è il suo accento che non ha forma. Per alcuni minuti cerco una provenienza che non riesco a scovare, poi glielo domando e mi dice che è di famiglia mista, suo padre è di origini italiane, mentre sua madre è serba. Marjola è nata in Albania, è cresciuta con tre lingue e quando aveva nove anni si è trasferita in Italia. Ha vissuto in Abruzzo, poi a Trieste e infine a Roma.
Otto anni fa si è spostata a Berlino grazie ad un Erasmus, poi, come spesso accade, si è fermata.
Ci incontriamo perché Marjola esporrà nella Redazione di Yanez – per due settimane a partire da domani – la raccolta di foto del suo ultimo progetto, ‘What did you take from home?’, un lavoro coraggioso e onorevole, supportato da Emergency, di cui è volontaria.
Un concept nato da una paura atavica, intrinseca in ogni persona, che risponde alla domanda ‘e se domani devo lasciare tutto ciò che ho e scappare altrove?‘.
Così Marjola ha chiesto a coloro che hanno accettato di posare per lei quale fosse l’oggetto più importante che hanno portato con sé nel momento in cui hanno dovuto lasciare la propria casa.
Le offro qualcosa da bere e ci sediamo uno di fronte all’altro. Le chiedo di raccontarmi di lei, di cominciare dall’inizio.
“Ho studiato Scienze Politiche e lavorato per tanti anni come giornalista freelance sia per periodici che per la televisione in Italia, in Francia e in Svizzera. Grazie al giornalismo ho scoperto la fotografia e sono rimasta folgorata.”
Un colpo di fulmine.
“Esattamente. È stato un puro caso, ho lavorato alla stesura di un reportage, supportata da una fotografa, e al momento dell’invio del pezzo alla rivista, il redattore mi ha detto che le foto non andavano bene, perché erano troppo ‘fashion’, troppo patinate. Secondo lui non erano abbastanza realistiche e mi ha domandato se per caso non avessi fatto degli scatti anche io. Cosa che effettivamente era accaduta, avevo fatto delle fotografie che volevo tenere per me, non essendo io una fotografa professionista e non avendo velleità di esserlo. Insomma, secondo il redattore quegli scatti erano buoni e me li ha presi.
Immagino la gioia della fotografa che ti ha accompagnato.
“Sì, oltretutto è una fotografa professionista di una grossa agenzia. È stato strano. Però in quel momento ho capito che mi piaceva davvero fotografare. Anni dopo, sempre per puro caso, ho presentato il mio portfolio alla Neue Schule für Fotografie di Berlino, che è una delle migliori scuole di fotografia d’Europa e nella quale è molto difficile accedere, e mi hanno preso. Ho iniziato a studiare con l’idea di fare qualcosa di documentaristico, sempre rimanendo nel giornalismo, invece poi ho scoperto l’arte astratta e la fotografia sperimentale e mi sono appassionata.”
Ora vivi di fotografia?
“Sì, lavoro a tempo pieno come fotografa. Sono fissa in una clinica berlinese dove fotografo neonati e poi, come freelance, mi occupo di ritratti commerciali, nonostante cerchi di essere il meno commerciale possibile. Ovviamente lascio sempre il giusto spazio alla mia parte artistica, sia all’interno dei mio lavoro che fuori.”
Passiamo al tuo progetto ‘What did you take from home?’. Hai voglia di raccontarmelo dall’inizio? Com’è nata l’idea?
“È nato tutto grazie al mio lavoro da volontaria nei centri di accoglienza per rifugiati a Berlino. Ho passato diverso tempo nelle strutture di Pankow e Fehrbelliner Platz, portavo del cibo che i berlinesi scartavano e che a quella gente invece serviva. Lì ho scoperto che tipo di vita facevano i rifugiati prima di scappare dal proprio paese. Ho tastato con mano le loro crisi d’identità e la voglia di riscatto che una persona si porta dietro quando perde tutto. Ho notato che, nonostante i traumi, avevano tanta voglia di raccontare quello che avevano vissuto e poi perso per sempre nella loro terra.”
E come ti sei sentita ascoltando le loro storie?
“Impaurita. Era un terrore che ho sempre avuto, fin da quando ero bambina. Spesso mi sono chiesta ‘se io adesso dovessi partire, scappare in un luogo a causa della guerra, come farei con tutte le mie cose, tutto ciò che possiedo?’.
Io ero bambina negli anni 90, c’era la guerra in Jugoslavia ed eravamo tutti bombardati da quelle notizie terribili, quindi, nonostante non vivessi il conflitto in prima persona, ero terrorizzata da questa cosa. Credo che sia un trauma collettivo. Ricordo che lessi dei libri di Dubravka Ugrešić, una scrittrice croata che ha parlato molto della sua fuga e di ciò che è riuscita a portare con sé, ed io ho pensato che, in fondo, il destino dei rifugiati, a prescindere dal luogo di provenienza, è lo stesso. A quel punto ho pensato di indagare sulle persone che scappano oggi, perché in qualche modo la storia si ripete.”
È stato macchinoso riuscire ad intervistare i rifugiati a Berlino?
“Ho dovuto chiedere dei permessi, che mi sono stati accordati senza grossi problemi, e comunque era sempre presente, insieme a me, un addetto del centro di accoglienza che si occupava dei rapporti con la stampa. In realtà è stato molto più facile di quello che pensassi.
Immaginavo ci fosse una barriera linguistica invalicabile, dato che non parlo l’arabo, l’urdu e altre lingue. Anche le persone che mi hanno dato l’autorità e i permessi credevano che questo potesse essere un grande problema per me. Invece coloro che ho incontrato e fotografato era gente molto aperta, alcuni si sono improvvisati interpreti istantanei con l’inglese o il francese. Si è trattato di una comunicazione molto umana, quasi primordiale, al di sopra delle lingue e delle sovrastrutture.”
Mi puoi spiegare qual è stato il concept del lavoro?
“L’intenzione era quella di lavorare il più semplicemente possibile; le persone si ponevano frontalmente alla macchina e guardavano l’obbiettivo al fine di instaurare una sorta di comunicazione. Non avevo un target preciso, anche perché ho trovato interessante l’etereogeneità dell’estrazione sociale delle persone con cui ho lavorato. Alcuni provenivano dai villaggi, analfabeti e tradizionalisti, altri erano imprenditori ricchissimi che anche loro, come tutti, hanno perso ogni cosa. Il denominatore comune fra tutti era uno solo: il senso di dignità.
Qualcuno di loro mi ha mostrato, sul cellulare, le foto delle loro abitazioni e dei luoghi dove vivevano, ed erano paradisiaci. Mostrandomele mi dicevano ‘oltre le montagne, però, c’era la guerra, e lì finiva il mondo’.”
E tu come ti sei sentita ascoltando le loro storie?
“Inizialmente, temevo che questa cosa dell’essere occidentale potesse sembrare, ai loro occhi, un approccio voyeuristico, come se volessi approfittarmi del loro trauma. Invece sono stato accolta molto bene, mi sono sentita una di loro. A prescindere dalla provenienza geografica, economica e sociale, le persone, in fondo, sono simili tra loro. Cosa vogliono? Vivere con dignità ed essere prese in considerazione. Se tu guardi loro come delle persone, senza le sovrastrutture e i pregiudizi che ci sono dietro, loro si aprono e ti accolgono come persona, quale sei.
Mi sono presentata come quella che sono nella realtà, spiegando che anche io, vivendo a Berlino, ho un background di immigrazione, esponenzialmente più fortunato, però anche il mio è uno sradicamento. Non ho mai incontrato resistenza da parte loro.
Puoi raccontarmi qualche momento particolare del processo che ti ha portato a creare ‘What did you take from home?’
“Ci sono stati diversi momenti teneri. Una signora irachena, mentre chiacchieravamo, se ne va improvvisamente. Io penso ‘ok, non tornerà più’ e invece, dopo cinque minuti, la vedo venirmi incontro con un tailleur rosa molto bello. Mi dice ‘volevo farti vedere questo vestito, l’ho portato da Baghdad fino a qui, è il mio corredo di quando mi sono sposata.’ Oppure, un altro ragazzo sparisce allo stesso modo, poi torna con un quaderno con delle canzoni siriane, dicendomi che quello era l’oggetto più importante per lui.
Nelle foto che esporrai alla mostra ho notato una centralità, tra gli oggetti, per quanto riguarda lo smartphone.
“Esatto, questa è una cosa molto interessante. C’è stato anche un bombardamento mediatico intorno a questa cosa, ricordi? L’opinione pubblica ha insinuato che questa gente non fosse realmente povera, perché in possesso di uno smartphone. La verità è che, per le persone che fuggono, lo smartphone è un oggetto cruciale, serve da orientamento durante il loro viaggio, ma soprattutto è un archivio che si portano dietro. La maggior parte di loro, nello sfinimento della traversata, perde i documenti e i propri ricordi fotografici. Lo smartphone salva sia le cose burocratiche che la memoria della vita che hanno avuto. Nel presentarsi a me, il loro telefono era una sorta di biglietto da visita. Mi dicevano che io non potevo immaginare che tipo di vita avessero prima, e vedendo le foto mi rendevo conto che era vero, non potevo immaginarla. Quindi la maggior parte di loro ha voluto che fotografassi il loro smartphone, ma non in quanto oggetto. Infatti, si facevano fotografare con il telefono aperto su delle foto personali.”
Quali altri oggetti ti hanno mostrato?
“La signora con il tailleur rosa, mi ha mostrato dei gioielli donatigli dalla nonna, per esempio. Oppure un’altra persona aveva con sé un foulard, un regalo d’addio da parte delle sue migliori amiche.
Una cosa che mi ha colpito molto, perché ha risvegliato i miei ricordi dei balcani, è stata quando, durante la primavera scorsa, ho cominciato a vedere alcuni di loro indossare dei braccialetti composti da un filo rosso intrecciato ad uno bianco. Nei balcani si usa molto, si indossa il primo marzo ed è un saluto alla primavera. In Bulgaria si chiamano marteniza, in Romania si chiamano Mărțișor. Insomma, molte delle persone che ho fotografato lo indossavano ed io mi sono stupita perché immaginavo esistesse solo nei balcani, invece era proprio lui, il braccialetto della mia infanzia. Oltretutto è un simbolo, un saluto alla nuova vita, un rituale che conferma la vita stessa, la continuità.”
Ok, abbiamo finito.
“Posso raccontarti un piccolo aneddoto?”
Certo.
“Durante l’anno in cui ho lavorato al progetto mi è successa una cosa molto bella. Una famiglia siriana mi ha invitata a bere un caffè. Questa cosa può essere considerata normale, probabilmente gentile da parte loro, invece è una cosa straordinaria.
È il gesto in sé che è incredibile, loro vivevano in otto in una stanza di venti metri quadrati, senza divani, con solo letti accampati uno accanto all’altro. Mi invitano a sedermi a terra, su un tappeto, e la signora prepara il caffè. Io mi sentivo quasi in colpa.
Mentre beviamo mi dice che quello è caffè siriano, il migliore al mondo.
La persona che mi ha accompagnato, dato che non potevo muovermi da sola, era stranita da questo gesto.
Accettando l’invito gli ho permesso di manifestare la propria dignità. Loro hanno accolto me dopo essere stati a loro volta accolti e questo è un gesto banale, ma in quella determinata situazione, meraviglioso.”
Segui Mattia Grigolo su Yanez | Facebook | Twitter
Tutte le foto, compresa quella di copertina, sono di esclusiva proprietà di Marjola Rukaj e tutti i diritti sono riservati.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin