Alla mia amica Veronica vengono sempre delle idee su cui mi ritrovo spesso a recriminare.
Quando c’è stato proposto di andare al Festival del Cinema Arabo ero immersa nei miei pensieri, stavo ascoltando una canzone spaccatimpani e non ho dato molta attenzione al fatto che mi venissero prospettate tutte le cose belle del festival e dei film presentati, finché non ho sentito dirmi: “Ci andiamo noi, vero?”.
Presa in contropiede e con il mio tipico debole per il cinema, ho annuito, sorvolando sul ponderare meglio la proposta. Male, errore madornale! Solo in seguito ho realizzato che probabilmente avrei rimpianto di aver affidato ancora una volta a Veronica il compito di decidere anche per me. Chiariamoci, non tanto per i film (alcuni dei quali sono certamente validi, interessanti), ma perché ho passato il week end rinchiusa in cinema polverosi e dalle poltrone che dire scomode è un eufemismo, mentre fuori c’erano ventidue gradi, una giornata soleggiata di cui poter godere dopo il grigiore dell’inverno.
La prima tappa del nostro viaggio nel mondo arabo ci ha condotte vero il Cinema Arsenal, in Potsdammer Strasse. Proiezione di apertura del festival: “Tramontane”, un film francese- libanese, diretto da Vatche Boulghourjian.
Rabih, il giovane cantante cieco protagonista del lungometraggio, un talento, è stato invitato insieme al suo coro ad esibirsi in Europa; ha sempre trascorso la sua vita in un piccolo paesino tra le montagne del Libano e questa è la sua occasione per poter evadere, ma presto il suo microcosmo viene sconvolto, capovolto, quando al commissariato gli dicono che la sua carta d’identità è falsa. Non solo rischia di essere arrestato, quanto sua madre gli confessa che è orfano ed è stato adottato quando aveva solo tre mesi. Rabih perde ogni certezza sulla sua storia e sulle sue origini. Ossessionato dal conoscere la verità, sfida ogni incognita, l’indifferenza, l’omertà di coloro che sanno ma non vogliono parlare per paura di qualche ripercussione. Le storie si intrecciano, gli interrogativi si accavallano mentre accanto a me noto un tipo che dorme da una buona mezz’ora nonostante il sottofondo musicale arabeggiante, non di certo una ninnananna soporifera. Effettivamente non posso dargli tutti i torti poiché, mi dico, il film prosegue a rilento, man mano che va avanti ci si ritrova esasperati dalla nuova bugia di turno che rifilano al povero Rabih; i paesaggi sono sempre gli stessi; molte scene sono scure, girate senza luce, come a rimarcare il fatto che il protagonista sia cieco e che anche il momento della sua vita non sia particolarmente felice, tantomeno luminoso.
Centocinque minuti in cui si viene catapultaio in Libano, partecipi all’estenuante ricerca delle origini del ragazzo, il mezzo attraverso cui raccontare la cultura, le tradizioni e le vicissitudini di un popolo tormentato. Veronica di tanto in tanto si gira verso di me per controllare il cipiglio che ho messo sin dai primi minuti del film e prova a coinvolgermi nelle sue congetture su chi possa essere il vero padre del ragazzo. Quando finalmente appaiono i titoli di coda, ci affrettiamo verso la porta e lei si lamenta perché alla fine i misteriosi genitori non si sono palesati; è addirittura arrabbiata per essersi dovuta sorbire ben dieci minuti di lamenti in arabo senza che poi si arrivasse ad una certa conclusione. Io lo sono un po’ meno, perché credo che alla fine Rabih abbia quantomeno ottenuto una risposta, per quanto inconcludente fosse: quelli che dovevano essere i suoi veri nonni, infine, li ha trovati, anche se questi con tanta nonchalance e qualche citazione biblica di troppo, gli hanno fatto capire che “chi si fa i fatti suoi campa cento anni” e che a dirla tutta preferivano trascorrere il resto dei giorni della loro vita in santa pace.
Diciamo che su una scala da uno a dieci, merita un voto appena mediocre, un cinque e mezzo.
Se l’inizio della nostra avventura araba non è stato dei migliori, la seconda tappa è stata addirittura peggio.
Sempre Cinema Arsenal, sempre venti gradi all’esterno e le stesse poltroncine scomode. È la volta di “The Last Of Us”di Ala Eddine Slim, regista tunisino, classe 1982. Non credo di riuscire a dire molto, anche perché non c’è molto su cui dilungarsi, visto che per novantaquattro minuti il protagonista non ha proferito parola alcuna e perché, devo ammetterlo anche se con imbarazzo, qualche passaggio devo essermelo perso a causa di un appisolamento temporaneo. È una sorta di “The Revenant” in versione esule, con tanto di cappotto fatto di pellicce, solo che non incontra nessun orso che movimenta la scena e, nonostante lo sguardo magnetico, a mio parere il nostro protagonista non vincerà mai l’Oscar.
Il film racconta la storia di un rifugiato africano senza nome che attraversa il deserto del Nord. Poi, dalla Tunisia prova ad affrontare il mare servendosi di una barca rubata, alla volta della terra promessa, l’Europa, ma si ritroverà ad approdare in un luogo non ben identificato, completamente solo e per sopravvivere dovrà superare ogni tipo di limitazione fisica e mentale facendo affidamento solo su sé stesso. Attraverso il viaggio di N, interpretato da Jawher Soudani, veniamo immersi totalmente nella natura, la cui qualità visiva e sonora è degna di nota, attraversiamo paesaggi che possono apparire post-apocalittici ma al tempo stesso già esistiti. Una sorta di déjà-vu continuo in cui le guerre, le fughe, le migrazioni ritornano e il passato si ripete ancora una volta.
Voto: sei più, relativo soprattutto all’impegno e perché credo che tutto sommato a Leonardo Di Caprio gli hanno dato un Oscar, quindi non vedo perché io debba essere così cattiva con il povero Jawher che non ha avuto nemmeno l’orso a fargli da spalla.
Terza proiezione. Si cambia cinema e zona della città. A questo punto credo di essere rassegnata al peggio e cerco ogni escamotage per superare alla meglio la proiezione che mi attende.
Il cinema è ancora più piccolo di quello precedente e stendo un velo pietoso sui posti a sedere. È l’Eiszeit in schlesisches Tor. Arrivando con cinque minuti di ritardo troviamo la sala piena. Io e la mia compagna di sventure ci guardiamo e in un duello telepatico cerchiamo di decidere se rimanere e trascorrere la successiva ora e mezza sui gradini o andare via, vista oramai l’ora tarda. Alla fine optiamo per i gradini e, nonostante la schiena dolorante, il male ai piedi, il raffreddore, devo dire che ne sia valsa la pena.
“House without roof” di Soleen Yusef, una promettente regista di origine Irachena. Il film racconta racconta il viaggio di Alan, Jan e Liya, tre fratelli nati nella parte Curda dell’Iraq, cresciuti però in Germania, poiché scappati dall’Iraq per ragioni politiche, quando erano ancora bambini (proprio come la regista del film). I tre, riuniti dopo tanto tempo, devono soddisfare le ultime volontà lasciate dalla loro defunta madre e seppellirla nel loro villaggio Curdo accanto al loro padre, caduto nella battaglia contro il regime di Saddam Hussein. Inizia così un’odissea attraverso il Kurdistan, con tanto di grande famiglia curda al seguito che non vuole che la defunta venga seppellita accanto al marito perché in realtà era un traditore. Nel corso di questo viaggio alla ricerca della propria identità, del legame che per tanto tempo è mancato tra di loro, si ride, anche tanto, si azzuffano tra di loro, finiscono col perdere persino la bara della madre, piangono, ma si fanno degli strani amici che li aiuteranno a portare a termine il loro compito.
Voto: otto pieno e menzione speciale per uno dei protagonisti di cui Veronica si è follemente innamorata.
in copertina: House without roof – screenshot
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