“Lo spazio va sfruttato al massimo, 15 anni della mia vita sono compressi in questi 12 metri quadrati”.
Alfredo ha 47 anni e la sua esistenza è tutta racchiusa in una casa mobile. Lì dentro c’è un po’ il necessario per la sopravvivenza: fili per stendere la roba, una stufa elettrica, un saggio sull’anarchia, un sapone ecologico, un armadio incastonato in uno dei lati del carro. La bombola del gas riscalda il caffè, da una radiolina a pile si sente musica classica. Intorno a noi diverse candele, con le quali bisogna fare costante attenzione: molto del materiale del carro è legno.
Quello che colpisce di Alfredo, insieme alla sua contagiosa umanità, è il suo modo di parlare: calmo, serafico, con un tono della voce monocorde, uniforme, mai noioso. Preciso e dettagliato nel raccontare e nel descrivere le sue creazioni: maschere meccaniche, tute spaziali, installazioni che somigliano a stazioni intergalattiche. Tutte realizzate lavorando materiali di scarto, plastiche, legno, carta, raccolti qua e là nella Berlino del nuovo millennio. Dal 2001, appunto, anno in cui Alfredo Sciuto, artista siciliano originario di Catania, si è trasferito nella capitale tedesca.
Alfredo vive in un luogo che non è stato ancora intaccato dalla modernizzazione, ai margini dell’attuale Schlesischer Busch, un parco che divide il quartiere di Kreuzberg da quello di Alt-Treptow, ad est della città. Fino al 1989 questo non era affatto un parco – lo diventerà solo nel 1992 – ma un’area desolata in cui si ergevano le torri di guardia dei soldati della DDR a protezione del Muro che l’attraversava. Lì, dopo aver lasciato l’Oberbaumbrücke, il penultimo degli otto punti cittadini di passaggio pedonale per la popolazione di Berlino Ovest, il Muro virava verso sud, infilandosi nel groviglio di canali artificiali realizzati a metà Ottocento, e proseguiva poi il suo assurdo tracciato dettato dalla Storia.
un altro lembo di terra, compreso fra il Landwehrkanal, il canale, e la Lohmühlenstraße, in quella che prima del 1989 era la Todesstreifen, la striscia della morte, una lingua di terra fra i due muri che formavano la barriera fra est e ovest
Caduto il Muro l’area resta selvaggia, desolata e vuota: un’opportunità per tanti giovani in cerca di uno stile di vita alternativo. Fra loro due ragazzi, i fondatori del Wagenburg di Lohmühnlestraße, che decidono di lasciare Waldehalde, un’area fra Kreuzberg e Mitte occupata con carrozzoni, rimorchi e furgoni, e di cercarsi un nuovo posto in cui vivere: lo trovano in un’area isolata poco fuori dalla vecchia cinta muraria di Schlesisches Tor. Nel 1992 la zona diventa parco e i due, che intanto si sono decuplicati formando una piccola comunità, sono costretti a sloggiare; eppure non si perdono d’animo e trovano, appena 600 metri più a sud, un altro lembo di terra, compreso fra il Landwehrkanal, il canale, e la Lohmühnlestraße, in quella che prima del 1989 era la Todesstreifen, la striscia della morte, una lingua di terra fra i due muri che formavano la barriera fra est e ovest. Nasce qui, dunque, nel 1992, il Wagenburg Lohmühle; una pietra miliare nella storia alternativa di Berlino.
Oggi, anche dall’alto del dismesso ponte ferroviario che dal Görlitzer Park, passando sul Landwehrkanal, conduce al Wagenburg di Lohmühlenstraße, il tracciato del muro non è più riconoscibile. Qui, Alfredo vive da 15 anni; da quando cioè, pochi mesi dopo il suo arrivo a Berlino, fu accolto nella comunità. “Mi fecero fare due settimane di prova per vedere se avevo le capacità e le abilità pratiche per rimanere” ci racconta.
Con Wagenburg – altre parole che hanno lo stesso referente sono Wagenplatz, Bauwagenplatz, Wagendorf- ci si riferisce a insediamenti abitativi costituiti da carrozze da circo, roulotte, container o rimorchi adibiti a casa. Nell’antichità – le prime testimonianze risalgono al V secolo a. C. – accampamenti di carri venivano usati da gruppi nomadi come formazione difensiva, per cui il nome più adatto in questi casi è sicuramente Wagenburg (in tedesco Burg significa infatti rocca, fortificazione, castello).
Dopo quasi 25 anni, quello che era un terreno arido e desolato è diventata un’oasi ecologica con aiuole, sentieri, percorsi didattici ambientalisti, sistemi di depurazione naturali realizzati con ghiaia, sabbia e piante, impianti solari. E poi, ancora, oggetti d’arte, concerti, mostre, cinema e altre attività culturali che hanno aiutato a superare l’iniziale scetticismo degli abitanti della vicina Karl Kunger Straße, trasformando il Wagenburg in una curiosità. “Noi facciamo attività culturale a costo zero” ci dice Alfredo durante la nostra chiacchierata all’interno del suo Bauwagen, il suo carro, in una giornata grigia, con la pioggia che rimbalza sul tetto creando un effetto acustico che sa di meraviglia. La musica classica che proviene dalla radiolina a pile passa una suite di Debussy. “Abbiamo dovuto costituirci come Associazione Culturale a sfondo ecologista e no-profit nel 1995” ci spiega Alfredo. “L’associazione è nata anche come forma di garanzia, per poter essere protetti e avere contatto con l’amministrazione e il distretto di quartiere.” Gli abitanti della zona aiutano la comunità del Wagenburg, offrendo anche dei contributi per le feste che si organizzano durante l’anno, che attualmente sono sei. Una vicina, addirittura, dal balcone di una delle case di fronte offre il Wi-Fi per connettersi ad Internet, anche se poi i ripetitori sorti tutt’intorno nella zona disturbano il segnale e quindi si utilizzano principalmente delle precarie penne Usb.
Dal punto di vista burocratico, gli inquilini non potrebbero dichiarare il proprio domicilio presso un’associazione culturale come il Wagenburg. Eppure, i suoi abitanti sono riusciti nell’impresa e risultano residenti nella Lohmühlenstraße 17: hanno perfino una cassetta della posta in comune. Per quanto da tempo si cerchi di cambiare la legge ancora in vigore, vivere nei carrozzoni resta tuttavia ancora vietato. Si tratta di una norma che risale ai tempi del nazionalsocialismo, con la quale si giustificarono gli sgomberi dei campi Rom.
“Se costruisci la tua casa male, sperimenti tu stesso le conseguenze di un cattivo costruire. Non è che qualcuno la fa a norma, un geometra o un ingegnere, e poi tu ti occupi soltanto della manutenzione. No, devi fare tutto da solo!”
Per vivere al Wagenburg devi sapere come “funziona” la natura e i suoi meccanismi. Devi, per esempio, imparare che se intendi piantare un asse di legno in terra – per costruire un deposito- è molto utile bruciare e carbonizzare l’estremità della trave che andrà sotto il terreno. “Perché il carbone resiste all’umidità e protegge” ci spiega Alfredo. Oppure, che per costruire il tuo Baumwagen, dove vivrai senza elettricità e acqua corrente, è fondamentale inserire, fra lo “scheletro” in legno e la plastica che deve proteggerti dalla pioggia, delle strisce di tappeto o della moquette, nelle punte e negli spigoli: è un dettaglio semplice, ma molto importante. In questo modo, infatti, la plastica non si consuma per attrito a contatto con i punti taglienti. “Se costruisci la tua casa male, sperimenti tu stesso le conseguenze di un cattivo costruire. Non è che qualcuno la fa a norma, un geometra o un ingegnere, e poi tu ti occupi soltanto della manutenzione. No, devi fare tutto da solo!”, spiega ancora Alfredo. “Quando sono arrivato qua i fondatori mi diedero due consigli”, ci rivela. “Devi costruire il pavimento rialzato di almeno 30 centimetri, mi dissero, in modo che ci possa passare un cane o un gatto, perché altrimenti avrai i topi! E poi devi rivestire la struttura in legno con dei tappeti, per il freddo”.
I viottoli che si snodano dentro il villaggio creano due vie principali intorno a cui si aprono degli orti, diversi punti d’incontro e un piccolo parco gioco per bambini: il più piccolo abitante del Wagenburg ha sei mesi. I sentieri sono ricoperti di uno strato soffice di legno tritato. I giardinieri del Görlitzer Park potano gli alberi, spezzettano minutamente quanto rimane e poi lo consegnano agli abitanti del villaggio: si tratta di un materiale utilissimo perché in inverno, quando piove tanto, questo strato di legno assorbe l’acqua e fa sì che si cammini su uno strato di legno umido, anziché sul fango: anche per questo qui lo si trova dappertutto, nei viottoli, sotto e tutt’intorno ai carri.
A rendere abitabile un posto del genere è sicuramente l’esistenza dei servizi igienici: il bagno deve esserci per forza.
I coinquilini del Wagenburg ne hanno costruito uno in piena regola, per tutti, che si trova al centro del villaggio. Oltre al bagno, i residenti condividono altri spazi comuni, come l’ampia sala provvista di stufa a legna che viene utilizzata per le proiezioni di documentari e film ogni mercoledì; o come la stanza dai vetri trasparenti, che invece viene adoperata al lunedì, durante il plenum, l’incontro settimanale che prevede la partecipazione di tutti gli inquilini, tra cui anche quella del “Sindaco”, l’unico rimasto dei tre fondatori. Nelle sale comuni sono in bella evidenza le lampade colorate create da Alfredo con piatti e bicchieri di plastica.
I venti abitanti del Wagenburg – massimo ventuno, in genere chi se ne va lascia il posto a chi arriva – sanno bene cosa significhi sviluppare una vera coscienza ecologista. Si tratta di cooperare con la natura, di creare un equilibrio tra dare e ricevere. “Ogni pietra, ogni insetto, pianta, animale e ogni essere umano ha pari diritti ed ha il suo compito, la sua funzione”: è questo il motto degli abitanti del Wagenburg. Sviluppare un’autentica consapevolezza ecologica, che vada un po’ più in là dell’andare a fare la spesa in un Bioladen, non è sempre facile nelle città globalizzate. Qui invece le persone hanno la possibilità di sperimentare e avvicinarsi a un equilibrio armonioso con la natura. Dal compostaggio dei rifiuti con cui si fertilizza il terreno al riciclaggio degli stessi, al Wagenburg si tocca con mano la possibilità di coniugare l’ecologia con l’economia. Il fatto di non essere allacciati alla rete idrica non è un problema, ma un’opportunità per imparare a gestire consapevolmente la risorsa “acqua”. Alfredo ci racconta che due dei fondatori, quelli che sono andati via, hanno costruito, oltre al sistema di compostaggio, anche un meccanismo di filtraggio dell’acqua. “L’acqua di scarico che usiamo per pulire i piatti la buttiamo dentro questo sistema di filtraggio che è composto da diversi bidoni. I primi 20 centimetri sono riempiti con della ghiaia e sopra c’è della sabbia; e poi ci si mettono delle piante che sembrano canne di bambù. Piante che hanno il compito di filtrare”.
L’acqua successivamente passa attraverso due metri lineari da un bidone all’altro e quella che casca fuori si può riutilizzare o si lascia cadere sul terreno, visto che è filtrata. L’acqua utilizzata nel villaggio la prendono da una pompa che la pesca dal sottosuolo. Naturalmente non è potabile, ma risulta utile per lavare i piatti o farsi la doccia.
“C’è una doccia all’aperto che alcuni – non so come facciano – utilizzano anche d’inverno, ma io mi sono costruito una doccia da solo”, ci racconta catturando la nostra curiosità. Si tratta di una bacinella nera incastrata all’interno del carro stesso. Le tende trasparenti e plastificate, create su misura, vengono appese per delimitare la bacinella ben incastrata all’interno del carro. L’acqua consumata per la doccia viene poi scaricata nei tombini della strada di fronte. Così vengono smaltiti eventuali residui di shampoo e bagnoschiuma.
Anche la corrente elettrica, come detto, non viene dalla presa del muro. In questo microcosmo ideale non esistono infatti campi elettromagnetici o emissioni nocive di CO2. La maggior parte degli inquilini ha sul tetto del proprio carro uno o due piccoli pannelli solari che producono 12 Volt e che si possono usare per ricaricare computer o cellulare. Con un piccolo trasformatore si ottiene corrente a 220 Volt, necessaria per far funzionare un elettrodomestico. L’esempio più lampante di come funziona un piccolo impianto ad energia solare lo troviamo però nel tendone per le attività culturali, situato nello spiazzo antistante l’entrata del villaggio. Sopra la struttura sono montati due pannelli fotovoltaici che assorbono la radiazione luminosa – quando c’è – che viene poi mandata a degli accumulatori, che sono delle batterie di camion. Con dei semplici trasformatori si ottiene poi la tensione desiderata e si ha l’energia per fare cinema, teatro e attività varie. Soprattutto d’estate si riesce ad incamerare talmente tanta energia che si possono organizzare concerti o altre attività almeno due o tre volte alla settimana. D’inverno, per le emergenze, quando c’è poco sole e le batterie non riescono a caricarsi con i pannelli solari, c’è a disposizione un generatore che funziona a benzina.
Torniamo al carro di Alfredo. Fuori ha smesso di piovere ma il cielo è grigio e la luce delle candele illumina l’ambiente. Ogni cosa è al suo posto. “È come vivere in una barca” ci dice “devi sfruttare al massimo lo spazio”. Alfredo ha frequentato a Catania l’Istituto d’Arte, specializzazione Architettura e Arredamento e nella sua “casa” si concentrano tutte le sue abilità e capacità pratiche. Lui non si è adeguato completamente agli standard ecologici dei suoi coinquilini e riscalda l’ambiente con una piccola stufa a legna: “Ancora non siamo superecologici!”, ironizza. Le batterie della radio si stanno esaurendo. La musica classica che ci ha accompagnato durante tutta la nostra visita svanisce. In un angolo riusciamo a scorgere una grande riserva di candele di cera. Sono il modo più naturale per avere luce, specie negli inverni bui e freddi in cui, all’interno del carrozzone, la differenza di temperatura rispetto all’esterno è di appena un grado. Ma è anche il modo più diretto per mandare tutto in fiamme. “Tre volte ho rischiato l’incendio” ci dice un po’ preoccupato. Non c’è conoscenza senza esperienza. E le conoscenze di cui parla Alfredo fanno davvero la differenza nella sua vita.
Come ha fatto una comunità che vive secondo parametri che confliggono con l’economia dominante a resistere fino ad oggi, in un territorio su cui tra l’altro hanno messo più volte gli occhi le potenti lobby immobiliari? Alfredo racconta che ci sono stati vari tentativi di sgombero nel corso degli anni: un progetto di costruire un complesso di palazzi con vista sul Görlitzer Park; la costruzione di un asilo e quello “terribile” di costruire un ponte, il Wienerbrücke, che da Wienerstraße potesse collegare la viabilità con Schlesischesstraße. Il rischio più grande però l’hanno corso nel 2000. “In quell’anno si rischiò lo sgombero per la costruzione della strada che corre parallela al canale”. Il “Sindaco” riuscii ad impedirlo con l’aiuto di alcune persone conosciute all’Università, dove gestiva un bar. Era chiaro che con il pretesto della costruzione della strada pedonale lungo il canale si volesse far fuori il Wagenburg. Alla fine i politici della SPD e della Linke li appoggiarono e si giunse ad un compromesso: “si fecero indietreggiare i carri di qualche metro per far spazio alle ruspe, che hanno potuto costruire la strada che tuttora corre lungo il canale”, ci racconta Alfredo.
Il futuro, tuttavia, rimane incerto. Le sorti di questa comunità e di altre simili che esistono oggi a Berlino sono infatti in mano alla politica, sino ad ora attenta a salvaguardare quella pluralità di stili di vita, quella libertà, che hanno reso la capitale tedesca famosa in tutto il mondo. Ma non sempre è stato facile. Anzi. Nel 1990, quando Berlino divenne capitale, si fece di tutto per sgomberare le zone occupate: posti come il Wagenburg di Lohmühle erano un ostacolo concreto per gli investitori immobiliari. Nel 1991 il Senato berlinese, all’epoca politicamente rosso-nero (SPD – CDU) del Sindaco Momper, decise di eliminare dal centro città tutte le aree occupate. Si parlava di “gente dall’aspetto pericoloso”, di “problemi per la sicurezza pubblica”. Spettacolare rimane l’operazione di sgombero, nel 1993, all’Engelbecken, fra Kreuzberg e Mitte, contro gli abitanti del Waldehalde. Furono impiegati mezzi blindati e 900 poliziotti per evacuare i 70 abitanti del villaggio occupato. Oggi l’immagine dei Wagenburg è migliorata e non si sottovaluta anche il ruolo sociale e politico che svolgono queste comunità: la presenza di un Wagenburg nel quartiere può avere la funzione di calmierare i prezzi degli affitti e anche quella politica di impedire, o quantomeno di frenare, la costruzione di appartamenti di lusso.
Quanto tutto ciò possa andare avanti, non è facile da immaginare. Ci si trova disorientati di fronte alle contraddizioni che la Berlino del terzo millennio lascia intravedere. Da una parte gli interessi politico-economici che stanno colonizzando il lungo Sprea. Dall’altra il necessario sviluppo di una nuova consapevolezza verso la natura e la giustizia sociale. Paure e speranze che non riguardano soltanto gli abitanti del Wagenburg di Lohmühlenstraße 17.
Segui Alessandro Borscia su Yanez | Facebook
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin