Holy Other - Remain main track
A Berlino non avere un lavoro con orario d’ufficio è un lusso. Puoi visitare la città a tuo piacimento mentre sta vivendo. Il fine settimana lascia un sapore di artefatto, dovrebbero scriverlo tipo le avvertenze sulle sigarette: “Attenzione. I posti che state visitando, pieni di vita e di persone, potrebbero non rispecchiare la realtà quotidiana.”
Durante la settimana la gran parte delle persone normalmente lavora, i bambini sono a scuola, il rumore è dato solo dal traffico. Non tutti possono permettersi un pomeriggio libero dal lunedì al venerdì. Io sì. Ma il fatto che spesso decida di passarlo a spasso per la città non fa di me una persona da invidiare: a me piacciono il cemento, l’alienazione, la polvere e il degrado. I vialetti del Tiergarten non fanno per me, il caos di Mitte lo lascio volentieri ad altri.
È per questo che in un normalissimo pomeriggio infrasettimanale ho deciso di visitare Marzahn, il quartiere sito nell’estrema periferia est di Berlino. Più che di Berlino Est si potrebbe quasi parlare di Polonia Ovest, ma di fatto si tratta, comunque, di un quartiere satellite della capitale, costruito a cavallo tra gli anni ’70 e ’90 per volontà del SED (il Partito Socialista della Germania Est). Lo sforzo edilizio si è limitato all’imponenza e alla rapidità di costruzione, per l’estetica bisogna citofonare altrove: gli enormi Plattenbau, alcuni lunghi chilometri, sono il sistema circolatorio del quartiere. Le strade sembrano essersi adeguate ai palazzi, non viceversa. Se non fosse per i numeri civici sarebbe praticamente impossibile distinguere gli edifici fra di loro.
Ma queste valutazioni urbanistiche non mi appartengono, in realtà. Se vengo a Marzahn è per le persone: voglio vedere chi vive negli alveari, chi ogni giorno si sveglia, apre la finestra e vede il cielo grigio cemento che incornicia il resto del cemento made in DDR. Cerco di capire cosa succede quando tutti rientrano a casa dal lavoro, a cosa si pensa nei piccoli salotti illuminati al ventesimo piano di un dinosauro prefabbricato.
I centri commerciali sono lo specchio dell’anima. Non è una citazione famosa, lo dico perché ne sono convinto: spesso ho trovato più verità e umanità su delle scale mobili che in delle discussioni intrattenute di persona davanti ad una tazza di caffè.
Marzahn non fa eccezione: al centro del quartiere, quasi equidistante da tutti i palazzoni, si erge la maestosa struttura dell’Arkaden. Maestosa in quanto colorata e dalle linee stranamente sinuose: in un contesto di angoli retti è quasi pornografia (architettonica).
Arkaden è un nome così altisonante che mi porta ad avere delle aspettative fuori dalla norma. Entrando mi rendo conto che in realtà si tratta di un normalissimo centro commerciale. Le solite cose: i panini di Subway, un chiosco di gelati color raggio fotonico, ristoranti simil-orientali piuttosto unti, multinazionali dell’abbigliamento, piante finte, ascensori.
Cercando di orientarmi nel labirinto di negozi e fra gruppi di adolescenti, la mia attenzione è attratta da un insolito assembramento di persone. Non posso immaginare di cosa si tratti, ma so che ne sono attirato.
Davanti a me si apre un cortile coperto, affacciati alle ringhiere ci sono molti altri curiosi. Al piano sottostante un azzimato presentatore in giacca e cravatta, coadiuvato da due vallette in tailleur di paillettes, spiega ai presenti il funzionamento di un gioco a premi. Nel mezzo del palco si trova una misteriosa struttura in plexiglass, un qualcosa che nella mia immaginazione si colloca a metà tra la gogna sulla pubblica piazza e una tortura medievale. Il concorrente, scelto da un’ordinata fila di candidati, è invitato ad entrare all’interno della capsula in plexiglass. Sul pavimento sono sparse delle palline di plastica sulle quali sono stampati vari montepremi: 5€, 10€, 50€, 100€, e via a salire. Una volta chiusa la capsula, un getto d’aria fa vorticare le palline intorno al concorrente, lapidandolo senza pietà in ogni angolo del suo corpo. L’obiettivo (oltre che sopravvivere) è acchiappare quante più palline possibile. Facile, apparentemente. Ma il presentatore si affretta a precisare: si possono utilizzare solo le mani aperte per acchiappare e trattenere le palline già prese. Divieto di braccia a conca, no palline nelle tasche, non si possono usare maglioni e felpe come reti improvvisate. Una specie di “Giochi senza Frontiere” applicato al consumismo, solo ambientato a Marzahn e senza il Belgio che gioca sempre il Jolly.
L’impresa si rivela abbastanza complessa per quasi tutti i concorrenti: i vincitori sono pochi e i premi abbastanza bassi.
In coda fra le tante (troppe?) persone ci sono dei rifugiati: sono degli uomini adulti, con in mano un sacchetto di plastica in cui hanno sistemato le loro poche cose. Anche loro aspettano il turno per annaspare nel flusso d’aria e vincere qualche euro. Come molti altri, non ci riescono. A quel punto, senza perdersi d’animo, si rimettono semplicemente in fondo alla fila, attendendo pazienti il loro turno.
Appena si accorge dello stratagemma, il presentatore impugna il microfono e decide di introdurre una nuova regola sul momento: ognuno può partecipare al gioco una sola volta. Dopo l’annuncio, alcuni dei rifugiati se ne vanno diligentemente dalla fila, altri decidono di opporre l’unica resistenza possibile al gioco crudele: vanno dalle mogli e dai figli (fino a quel momento ordinatamente seduti intorno al palco) e li posizionano al posto loro nella fila, tipo pedine del Monopoli.
La nuova regola è improvvisamente demolita. Il presentatore se ne rende conto, farfuglia qualcosa al microfono e poi lascia perdere. Il gioco continua: Venghino siori, venghino!
Ho trovato quello che cercavo? Certamente, senza alcun dubbio. Però la sensazione che mi rimane addosso è quella di desolazione: per vedere la versione moderna del panem et circenses mi sono dovuto spostare in quella che era la Germania Est, in un quartiere popolare in cui i meno poveri si godono lo spettacolo dei più poveri che cercano di guadagnare qualche spicciolo. Sono confuso, mi vergogno di aver assistito allo spettacolo. E poi mi vergogno anche dell’idea che, se non avessi assistito, sarei rimasto comunque ignaro di tutto. Mi vergogno addirittura per cose che non ho fatto e che probabilmente mai farò.
Marzahn non è proprio il posto adatto per riprendersi dall’agitazione, l’ho imparato quel giorno. Uscito fuori dall’Arkaden ho cercato una boccata d’aria e ho trovato solo molto freddo e un quartiere al tramonto. Il sole dietro i Plattenbau fa paura: lo cerchi, arrivi all’angolo del palazzo pensando che finalmente potrai averlo in faccia e invece no, dietro c’è un altro Plattenbau.
Tornando verso la S-Bahn osservo gli sforzi dei nuovi investitori edili: quando dopo la riunificazione, si sono ritrovati a dover amministrare questi edifici, hanno pensato bene di iniziare un’operazione simpatia. Qualche facciata colorata, fantasie boschive che decorano gli ingressi, qualche alberello secco in delle aiuole post-atomiche. Il cemento e i prefabbricati però rimangono gli stessi. E spesso anche le prospettive grigie.
E non è un doppio senso. O forse sì.
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foto di copertina: © Zaira Biagini
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