C’è una scena in Matrix, in cui Neo si risveglia dentro la vasca, nudo e ricoperto di liquido amniotico. Il primo respiro è angosciante, profondo, il respiro di chi è appena scampato alla morte per soffocamento. Poi si guarda attorno e le domande cominciano ad affiorare: “Chi sono? Dove sono? È questa la realtà?”.
La differenza, nel mio caso, è che sono steso sul letto, e che a ricoprirmi c’è solo una coltre di sudore, ma i quesiti che mi pongo sono esattamente gli stessi, così come il lungo respiro affannoso che esalo prima di riuscire a riordinare i pensieri. Una fitta allo stomaco mi ricorda il motivo dello stato di morte apparente da cui mi sono appena destato: il maiale di Paraskevi. La bestia con cui l’ottuagenaria nonnina – proprietaria dell’appartamento dove risiedo da più di un mese – ha voluto deliziarmi era solo un assaggio di ciò che mi aspetta stasera al monastero di Aghios Ioannis Theologoscon. C’è un panigiri, lassù, a Nikia, un paese che chiamarlo paese è un’esagerazione, in cima ad uno dei monti che circoscrivono l’isola. Il panigiri è una festa per celebrare il santo che dà il nome al monastero di turno. Il pretesto religioso viene liquidato con una cerimonia lampo, e poi via di souvlaki, altre carni, e vino a fiumi. Si balla tutta la notte e oltre, fino al mattino, fino a che le gambe non cedono e non c’è più la forza di fare parte di quel cerchio umano che gira senza sosta.
Paraskevi è una delle vecchiette addette al cibo. Mi ha usato come cavia per testare la sua ricetta. L’ho vista prepararla: tocchi di carne più grossi del mio pugno lasciati bollire nel grasso e poi fritti. Sia mai che qualcuno possa rimanere con la fame. Ho visto quel maiale ribollire per ore in modo che si impregnasse fino all’osso. L’ho visto poi friggere, così che il grasso potesse rimanere sigillato nei secoli in quella palla mortale. Ho annusato l’odore forte, selvatico, che fa a cazzotti con lo stomaco. Paraskevi si è presentata alla porta del mio appartamento con il piatto fumante ed un sorriso a mettere in risalto la dentiera. Non abbiamo modo di comunicare se non tramite gesti e quelle quattro parole che ho imparato nella grammatica greca, comprata prima di prendere il volo, e grazie alla quale ho scoperto che paraskevi significa “venerdì”. Battendo una mano sullo stomaco ho cercato di farle capire che ero sazio, che avevo già mangiato. Non ha ritenuto il mio rifiuto un’opzione ragionevolmente valida. Ha ripetuto il mio gesto tirandomi un cazzotto sulla pancia per poi lasciarsi andare in una grassa risata, meno grassa comunque di quella cazzo di carne. Dopo avermi messo il porco sotto il naso, poco ci mancava che iniziasse ad imboccarmi. Il suo assaggino consisteva in un piatto degno di una nonna bulimica del sud-Italia. È rimasta lì a fissarmi compiaciuta fino a che non ho trangugiato l’ultima delle sei palle di grasso. C’era del sadismo nel suo sguardo anche se sono sicuro che l’intento fosse benevolo. A ogni boccone gettavo litri di sudore. Si sa che il sole del merìdie greco non si sposa con il maiale fritto. Sudavo e intanto mugugnavo in segno di approvazione, ma già mi sentivo mancare. Chiudendo gli occhi ho inclinato la testa appoggiandola sulle mani congiunte a mo di preghiera, sperando che capisse. Ha controllato che sul piatto non fosse avanzato nulla, solo allora mi ha concesso di andare a morire sul letto.
Da quando sono arrivato a Nisyros, Paraskevi ha deciso che sono uno dei suoi figli. Gli altri sono sparsi per i pochi paesi. È con Sotiris, il più piccolo, che ho stretto una grande amicizia. Lui ha un bar a Pali, il villaggio dove risiedo, poco più di cento anime delle mille che abitano l’intera isola. L’ha chiamato φαλιμεντο (Fallimento) alla faccia della recente crisi, come a dire che a lui delle regole che dominano l’economia globale non gliene può fregar di meno. È un sentire comune qui a Nisyros. Cinquanta chilometri quadrati di superficie sono pochi abbastanza da sviluppare una sorta di autarchia che li porta ad esularsi dalla realtà europea. Gli abitanti di Nisyros se la sono sempre cavata da soli, e così faranno. Poco importa a loro dei dettami della Merkel. Ci si aiuta a vicenda, e questo basta, come in una grande famiglia di cui già mi sento parte.
Il Fallimento dà direttamente sul porticciolo dove Yannis ogni mattina arriva con la sua piccola barca a vendere il pescato. È un buco. Dentro c’è spazio solo per il bancone, qualche sgabello e le due enormi casse che sparano musica greca in continuazione. Fortuna che qui fa sempre caldo, che non piove mai e quindi ci si può sistemare nell’area appena fuori, dove c’è l’insegna del bar intagliata e dipinta da Sotiris stesso. Lì c’è lo spazio per i cinque tavoli realizzati con vecchie bobine di legno, di quelle che una volta servivano per avvolgere i cavi elettrici. Sotiris le ha trovate in un magazzino abbandonato, le ha levigate, riverniciate e ora sono il sostegno perfetto per bicchieri di ouzo, mazzi di carte, e set di backgammon. La parete esterna l’ha fatta color ocra mentre gli infissi delle finestre e dell’unica porta sono dipinte di un verde foresta, e vaffanculo ‘sta cosa che in Grecia tutto deve essere bianco e blu. Sotiris è un anarchico senza aver la minima idea di esserlo.
È al Fallimento che ogni sera passo le mie serate. Ci vado finite quelle sessioni di lavoro post-siesta che non durano mai più di tre ore. Non c’è voluto molto perché mi adattassi ai ritmi dell’isola. Quando il sole è alto si pranza, poi ci si riposa fino alle cinque. In quel lasso di tempo fuori dal tempo non c’è modo di trovare un’attività aperta, un’anima viva. Tutto ricomincia quando il sole si fa più docile, ma poco dopo già arriva il momento dei mezés, piccoli antipasti offerti da ogni bar e locanda. Involtini, polpette, foglie di vite ripiene, per accompagnare la birra greca – buona solo perché fredda – o l’ouzo diluito con acqua ghiacciata. È così che l’ozio ritorna prepotente per andarsene solo al risveglio, il giorno dopo. Ed è così che un terzo della mia giornata se ne va: chiuso in un bar, che chiuso non è, a ubriacarmi di raki, con la stomaco mezzo vuoto, e a riempirmi la bocca di chiacchiere da Bar Stadio, che poi manco c’è lo stadio a Nisyros.
Di tutti gli avventori i mie preferiti sono Renata e Andrea. Lei greca, lui italiano. Lei un donnone, lui piccolo e secco. Hanno messo in piedi un ristorante a Mandraki, il capoluogo dell’isola. Sono la classica coppia che ti fa chiedere come diavolo siano finiti assieme. Due macchiette sempre pronte a stuzzicarsi. Ti aspetti che dopo ogni frecciata parta una di quelle risate registrate, e ba-dum-tsss, come se fossero la versione divertente di Sandra e Raimondo. Con loro e Sotiris parliamo di massimi sistemi, senza ovviamente esserne in grado. Abbiamo già stabilito come sia facile uscire dalla crisi, o portare la pace nel mondo, e presto faremo il favore di rivelarlo a chi ne tira i fili.
Con i clienti che non parlano inglese mi limito a giocare a backgammon. Non c’è una volta che sia riuscito a vincere. A ogni lancio di dadi mi metto con il dito a ponderare le possibilità di movimento delle mie pedine quando i miei rivali, invece, hanno già in testa ognuno degli schemi che li porterà a godere della mia disfatta. E poi tutti a deridere il turista scemo, che si sente uno del posto solo perché ha deciso di passare tre mesi della sua vita lontano dalla città.
Il numero di bicchieri vuoti è direttamente proporzionale al volume dello stereo. Verso notte la musica riecheggia lungo tutto il porto, ed è quando si comincia a ballare che la vera essenza della Grecia emerge. A turno, come indemoniati, ci si mette al centro di quel cerchio sbilenco formato da clienti ubriachi, e non resta che lasciarsi trasportare dal rebetiko. Poco importa se non lo si sa ballare. Mani al cielo, mai ferme, gli altri che tengono il ritmo e rompono i piatti vicino ai piedi di chi danza. È diventata la più bella delle mie ossessioni da quando sono sbarcato. Il rebetiko è per i greci quello che il blues è per gli americani, o il fado per i portoghesi. Non per le sonorità ma per il suo significato. È la musica dei reietti, degli emarginati. I testi parlano di droga, di amori disperati, di povertà, di prigionia. In quelle registrazioni low-fi, a volte intervallate da un “Yassou, Maria”, c’è tutto lo spleen di chi quella musica la cantava, e tutta l’ironia necessaria alla sua sopravvivenza.
Ancora non so spiegarmi come dopo ogni sbornia riesca a svegliarmi così presto, fresco come il basilico di Paraskevi. Non riesco a spiegarmi da dove vengano le forze per prendere quotidianamente la vecchia bici monomarcia, e pedalare sotto il sole lungo i sei chilometri di strade montuose che mi separano da Pachia Ammos, la spiaggia più bella dell’isola. È sempre deserta al mattino. Sarà che non è proprio facile raggiungerla, che bisogna fare un lungo pezzo a piedi, e che non c’è ombra dove potersi riparare, ma per la tranquillità e il senso di pace che quel luogo offre è il giusto prezzo da pagare. Abbrustolirsi lo scroto per poi stemperarlo nelle calme acque del Mar Egeo, camminare in totale nudità lungo la spiaggia senza rischio di pallonate in faccia, sguazzare in mare senza i boxer pieni di sabbia che ti si appiccicano lungo le cosce, sono forse i motivi per cui non scelgo di stare a casa a rigirarmi nel materasso aspettando che il sole tramonti.
Non c’è turismo a Nisyros, non ancora. Giusto una barca piena di villeggianti che le mattine, da Kos, vengono vomitati sul porto di Mandraki, e subito prelevati dal bus che li conduce al centro dell’isola dove c’è il vulcano, la maggiore attrazione, per poi riportarli nel capoluogo a divorare la moussaka di Renata, che non riusciranno mai a digerire prima che gli ormeggi siano sciolti.
Ci sarebbero molte altre cose da vedere: il villaggio quasi completamente abbandonato di Emporios, dove una delle figlie di Paraskevi gestisce la taverna con il balcone vista vulcano; Nikia con la sua piazza dai colori – questa volta sì – della Grecia; le vecchie sorgenti termali di Loutra; il sentiero lastricato di ciottoli che porta alla spiaggia Chochlaki.
È un bene per Nisyros che il turismo la ignori, ma il vulcano non ce la fa proprio a passare inosservato. Per arrivarci bisogna scalare le montagne che circondano l’isola per poi ridiscenderle fino a valle. Avvicinandosi, l’odore di zolfo, e quindi di uova marce, si fa sempre più forte tanto da diventare quasi insopportabile. Giusto il maiale di Paraskevi gli può tenere testa.
L’unica cosa del vulcano che si vede – ed è la sua peculiarità – è il cratere. Il paesaggio intorno è deserto, arido, sembra Marte. C’è un cartello, piantato lungo il sentiero che porta nella bocca del vulcano, su cui c’è scritto che si declina ogni responsabilità nei confronti di chi volesse addentrarsi perché, sì, il cratere è tappato e volendo ci si può camminare sopra. Ci sono stato diverse volte nei pomeriggi senza i turisti. Io, il vulcano, e null’altro per chilometri. Il terreno è argilloso e il piede nudo ci sprofonda facilmente. Si può sentire tutto il calore lungo la pianta, e in alcuni punti quasi brucia, tanto che è facile immaginarsi la forza viva che c’è sotto. Sparse lungo il cratere ci sono le fumarole, delle spaccature nel terreno da cui si può vedere l’acqua che bolle e le esalazioni di gas. Gli unici rumori che si sentono sono i loro sibili e gorgoglii, il resto è silenzio. Fa paura, senza mezzi termini. Ci si sente infinitamente piccoli e fragili al cospetto di tanta potenza e il rispetto che si prova in quel momento per la natura è eguagliabile solo a quella di qualche freakettone new-age, quelli che organizzano i workshop su come abbracciare gli alberi.
Ci sente terribilmente soli ma allo stesso tempo parte del tutto.
Si capisce perché agli abitanti di Nisyros non importi una sega di questa grande crisi che fa tremare il resto della Grecia, ma forse è solo che non ho ancora digerito il maiale di Paraskevi. O forse quello che ho mangiato è dell’halloumi andato a male in qualche bettola di Berlino, e Paraskevi non esiste, e Nisyros non esiste, ed è tutto un sogno allucinato dettato dalla mia voglia di scappare da questo tipo di vita, scappare dalla crisi, in ogni sua forma e manifestazione.
Foto di copertina: Madraki vista dal mare, Nisyros. © Wikicommons
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