Esiste un ponte diretto tra l’invenzione della pallacanestro e Dirk Nowitzki, e non solo per lo smisurato talento cestistico del tedesco con la maglia numero 41. Corre l’anno 1891 a Springfield, Massachusetts, quando l’insegnante di educazione fisica James Naismith scrive le regole di un “nuovo gioco”, nel quale una palla (inizialmente quella di cuoio utilizzata per il soccer) dev’essere tirata dentro un cesto per segnare un gol. Quarantacinque anni dopo il basket diventa disciplina olimpica a Berlino, e per informarsi meglio su questo gioco gli organizzatori mandano in America, da Naismith, il loro ambasciatore Theo Clausen, che apprende tutti i segreti della palla a spicchi da colui che ha inventato lo sport e li racconta al Vecchio Continente. Anni dopo Theo Clausen diventa l’allenatore della squadra liceale di Holger Geschwindner, l’uomo che ha creato una delle macchine da canestri migliori della storia del basket: Dirk Nowitzki.
Corre l’anno 1994 quando Nowitzki, un allampanato sedicenne che gioca a basket da appena un anno nelle giovanili del DJK Würzburg, al termine di una partita viene approcciato da un signore sulla cinquantina, Holger Geschwindner appunto, allenatore della prima squadra. Quest’ultimo, ex capitano della nazionale tedesca di pallacanestro, intuisce il potenziale del ragazzo, capisce che lavorandoci su potrebbe trasformarlo in un campione, e propone di diventare il suo coach privato. Un po’ perplesso, Dirk accetta di farsi allenare da Geschwindner, mai immaginando di aver dato vita a un sodalizio che da una squadra di provincia lo avrebbe condotto ai vertici del campionato di basket migliore del mondo, quell’NBA su cui Dirk fantasticava guardando i poster di Scottie Pippen attaccati in camera.
Holger Geschwindner viene definito da Jason Kidd, playmaker campione NBA 2011 al fianco di Dirk, come “il guru del tiro perfetto”. Le sue competenze scientifiche si mescolano a quelle tecniche e motivazionali, rendendolo quasi un incrocio tra DOC di Ritorno al Futuro e il maestro Miyagi di Karate Kid. Lui e Nowitzki passano giornate intere in palestra. Tra di loro nasce un’amicizia straordinaria. Jessica Olsson, la moglie del fuoriclasse tedesco, racconta di come suo marito e Holger si capiscano quasi senza parlarsi, mentre Michael Finley, suo compagno ai tempi di Dallas, parla del loro rapporto paragonandolo a quello tra Frankenstein e lo scienziato pazzo.
Dirk si applica con un’etica del lavoro da vero numero uno, e soprattutto segue con fiducia incondizionata gli ordini di Holger, i cui metodi di allenamento non sono proprio tradizionali, e comprendono lo yoga e la letteratura, la scherma e il jazz. Attraverso un duro lavoro in palestra e un’accurata analisi a fine allenamento, viene plasmandosi un modello di giocatore completamente nuovo ai tempi: quello del lungo tiratore, un giocatore alto ben oltre i due metri, ma capace di mettere palla per terra e soprattutto letale nel tiro da fuori.
Per migliorare questo fondamentale, il mentore del giovane campione crea un programma al computer che simuli tutti i possibili tiri, tutte le angolazioni, tutte le chanches di riuscita. Si tratta di un modello matematico e fisico che aiuta Nowitzki a trovare il movimento perfetto. I risultati si vedono nei quasi 30mila punti messi a segno da Wunder Dirk in NBA (quinto miglior marcatore di sempre e primo non americano) e in quel quasi 88% ai liberi che ha tenuto per tutta la carriera.
Da molti è considerato il tiro più immarcabile di sempre, per l’altezza da cui parte, per l’angolo da cui viene scoccato, per la sua precisione mortifera. Una sentenza.
Il tiro di Nowitzki viene costruito con esercizi specifici, come tirare partendo in massima accosciata (“a ranocchio” per intenderci) o su una gamba, o in spaccata. Da molti è considerato il tiro più immarcabile di sempre, per l’altezza da cui parte, per l’angolo da cui viene scoccato, per la sua precisione mortifera. Una sentenza. Non a caso il bellissimo docu-film sul campione tedesco realizzato nel 2014 da Sebastian Dehnhardt s’intitola Dirk Nowitzki. The perfect shot.
Selezionato come nona scelta assoluta nel draft del 1998 dai Milwaukee Bucks, passa immediatamente ai Dallas Maverics, fortemente voluto da coach Don Nelson: “Dovevamo convincere Dirk che era pronto per l’NBA, lui non ne era sicuro. Eravamo tra i peggiori team, ne avevamo bisogno subito”. Il suo biglietto da visita sono i 33 punti e 14 rimbalzi registrati a San Antonio nel Nike Hoop Summit, la sfida che si gioca tutti gli anni tra i migliori all star del mondo e le migliori stelle americane del college-basket.
Gli inizi nel campionato dei fenomeni americani non sono comunque facili per il numero 41, che fatica ad adattarsi ai ritmi della pallacanestro d’oltreoceano. Presto i media lo etichettano come il classico europeo soft: “Sei tecnico, ma non difendi”. Alcuni addirittura iniziano a chiamarlo Irk, togliendo la D che sta per defense. Il playmaker canadese Steve Nash, suo compagno e amico ai quei tempi, ricorda di come Dirk sia: “un po’ timido e insicuro all’inizio, in un mondo completamente diverso rispetto a Würzburg”.
La nostalgia di casa si fa sentire, i rodei e i grattacieli del Texas non hanno nulla a che vedere con la serena Baviera. Gli manca la famiglia e manca alla famiglia, ma Dirk non molla. Ha le spalle larghe il ragazzo, e soprattutto ha alle spalle Holger, il suo parafulmine, che lo sprona a migliorare su quegli aspetti del gioco sui quali è ancora troppo debole.
Le storie di sport americano raccontate nei film sono sempre basate sulla seconda possibilità, sul campione che da una grande delusione crea i presupposti per rialzarsi e vincere. La sceneggiatura della vita sportiva di Wunder Dirk non ha nulla da invidiare alle migliori pellicole hollywoodiane, e la sua ascesa al tetto del mondo parte proprio da una sconfitta. Una terribile, cocente, inspiegabile sconfitta.
Florida, Miami, American Airlines Arena, 13 giugno 2006.
Dirk Nowitzki si presenta in lunetta a 3,4 secondi dalla fine con Dallas sotto di due punti ma avanti 2-0 nella serie di Finals contro gli Heat di Dwyane Wade e Shaquill O’Neal. Di fronte a sé ha un muro bianco di 20mila persone. Un’eventuale due su due del tedesco porterebbe in parità la partita, ma la sua mano grande e dolce, la stessa mano che ha portato fino a quel punto del torneo i suoi Dallas Mavericks, trema sul più bello: uno su due, vittoria Miami, serie riaperta. A quella sconfitta ne seguiranno altre tre consecutive, in una delle più clamorose rimonte della storia delle NBA Finals. I Miami Heat, guidati da un Wade stellare (34,7 punti di media nella serie finale) vincono 4-2 e si portano a casa il loro primo anello. A Dallas non resta che leccarsi le ferite.
Dirk Nowiztki arriva ad un passo dal cielo, e la caduta fa male. Leader carismatico e tecnico dei Mavs, il fallimento della squadra è tutto sulle sue spalle. Dovranno passare altri cinque anni prima che il tedesco si tolga quel peso dal cuore e alzi in aria il trofeo Larry O’Brien di campione NBA.
Dirk Nowitzki è un professionista serio, ma anche una persona molto simpatica, gentile, mai arrogante. Basta vederlo parlare o sentire i racconti della moglie, degli amici e degli allenatori per capire di avere a che fare con un ragazzo eccezionale anche fuori dal campo. Le centinaia di milioni di dollari guadagnati in carriera non gli hanno fatto perdere il carattere umile e sereno. Nella casetta di Würzburg, dove vivono ancor’oggi i genitori, campeggia, nella bacheca di famiglia, i suoi trofei di MVP 2007 (stagionale) e 2011 (Finals) appena dietro quello di papà Jorg, miglior giocatore del campionato tedesco di pallamano negli anni ’80.
Figlio di un pallamanista, appunto, e di una cestista, lui e sua sorella Silke crescono in palestra, con mamma Helga che ricorda il piccolo Dirk seduto sul passeggino vicino alla panchina durante le sue partite.
Il basket però non è il primo amore del ragazzo di Würzburg. A quattro anni inizia infatti a giocare a tennis, e non se la cava niente male: diventa uno dei migliori prospetti della Baviera. Anche oggi, quando ha tempo, Dirk prende in mano la racchetta e va a fare due tiri con gli amici e sua moglie. Jessica racconta che addirittura: “Il nostro secondo appuntamento fu un incontro di tennis. Ha un gran servizio, ma non è molto rapido sui piedi”. Quando Dirk introduce Jessica alla famiglia, inizialmente la presenta solamente come sua “compagna di tennis”. Si tratta di una questione di tempo: poco dopo, nel 2012, i due convolano a nozze. Dalla loro unione nascono Max, biondo come papà Dirk, e Malaika, mora come mamma Jessica.
Per non scontentare nessuno dei due genitori, ma continuare anche a praticare lo sport che gli piace, Dirk si ritrova a fare tre attività contemporaneamente quando ha quattordici anni: tennis, pallamano e basket. I risultati scolastici di conseguenza non sono proprio soddisfacenti, e Dirk è costretto a fare delle scelte. Abbandona prima il tennis, poi la pallamano: prevale il basket, per la gioia di mamma Helga, che ancora oggi passa notti insonni a vedere i canestri del figlio in giro per gli Stati Uniti d’America. Il padre all’inizio non la prende bene, ma anche lui diventerà uno dei primi tifosi di suo figlio. Soprattutto si dice orgoglioso non di Dirk come sportivo, ma come uomo.
Un altro turning point della carriera di Wunder Dirk è l’arrivo ai Dallas Mavericks di un imprenditore miliardario scalmanato e patito di pallacanestro, Mark Cuban, che nel 2000 rileva la franchigia texana con l’idea di portarla a lottare per il titolo. Se avete visto anche solo una partita dei Mavs, sicuramente avete visto anche Cuban, che segue la squadra in tutte le partite, casa o trasferta, spesso in panchina con i giocatori. Cuban vive il match con un trasporto incredibile, si emoziona, esulta, abbraccia i suoi uomini, applaude, protesta (dopo gara-5 di quelle famose finali del 2006 di cui si parlava sopra, vinta 101-100 da Miami ai supplementari, si prende 250mila euro di multa).
Nato a Pittsburgh nel 1958 da una famiglia operaia, oggi possiede due jet privati, ed è uno che, a sentire l’ex commissioner NBA David Stearn: “Si alza pensando a come il suo team possa vincere, va a letto pensando a come il suo team possa vincere, e passa la giornata pensando a come il suo team possa vincere”. La risposta a questo suo cruccio costante non può prescindere da Dirk Nowitzki: tra il neo-presidente e il tedescone scatta da subito la scintilla. Undici anni dopo, quando i Mavs riusciranno finalmente a conquistare l’anello, Mark Cuban parla del suo campione quasi commosso: “Dirk è incredibile. Molti lo criticano, ma nessuno lo vede tutti i giorni. Dovreste vedere quanto lavora duro. Ha il cuore di un leone”.
Dopo la sconfitta nelle Finals 2006, Mark Cuban non esce di casa per tre settimane. Non vuole vedere nessuno, non vuole parlare di pallacanestro. Nowitzki e i Mavericks vengono etichettati come dei looser, ma Dirk sa che nello sport bisogna mantenere grande equilibrio e si ributta in palestra a lavorare, con i compagni e con Holger. Dopo un inizio in sordina (quattro sconfitte di fila), la stagione 2006-2007 si conclude con il miglior record della lega per Dallas (67-15). Nowitzki vince il titolo di MVP con 24,6 punti di media per gara, il primo non americano ad aggiudicarsi questo premio (se si esclude Olajuwon, nigeriano ma naturalizzato dagli Stati Uniti). Ancora una volta i Mavericks si presentano alla post-season nel novero delle favorite a Ovest assieme ai soliti Spurs e ai Phoenix Suns, che nel frattempo hanno acquistato Steve Nash proprio da Dallas.
Al primo turno di playoff Wunder Dirk e compagni, primi a Ovest, si trovano di fronte i Golden State Warriors, ottava testa di serie della West Coast, e sono vittime di uno degli upset più clamorosi della storia dello sport americano. La franchigia di San Francisco ribalta il pronostico e batte Dallas in sei gare. E non stiamo parlando della squadra campione NBA 2015 e che ha vinto 73 partite su 82 lo scorso anno, ma di un gruppo che si presentava alla post-season da assoluta outsider, con poche velleità di sconfiggere i Mavs dell’MVP Dirk Nowitzki.
Nello sport è labile il confine che separa un giocatore vincente da un perdente: la mattina sei un dio, la sera sei uno dei tanti. Il fenomeno di Würzburg, dopo una stagione da dominatore assoluto, si cuce addosso l’etichetta del looser: la stessa con la quale ha dovuto combattere per anni Lebron James. Si arriva a un punto in cui nell’NBA si pensa che i Mavericks non vinceranno mai con Dirk. Lui accetta la sconfitta, incassa senza batter ciglio, ma dentro soffre tantissimo. Si richiude su se stesso, facendo affidamento sulle persone che gli sono state vicine: in primis, Holger Geschwindner, sempre pronto a leccare le ferite del suo campione. Soprattutto, Dirk riesce sempre a mantenere grande equilibrio, lo stesso che in campo gli permette di avvitarsi su se stesso, buttarsi all’indietro e sparare tiri in faccia a qualsiasi difensore, trovando sempre e costantemente il fondo della retina.
Le annate dal 2008 al 2010 procedono sulla stessa falsa riga per Nowitzki e compagni: una buona regular season (sempre con almeno cinquanta vittorie), una post-season avara di gioie, fatta eccezione per la grande serie con cui eliminano i rivali texani dei San Antonio Spurs al primo turno nel 2009 (4-1), vanificata dalla sconfitta con lo stesso punteggio in semifinale contro i Denver Nuggets. Nel frattempo, alle due colonne di Dallas, Nowitzki e Terry, si sono aggiunti elementi come Jason Kidd e Shawn Marion, mentre in panchina dal 2008-2009 siede coach Rick Carlisle. I Mavs sono una buona squadra, ma il tempo stringe per Wunder Dirk, che alle soglie dei 33 anni sa di avere ormai poche occasioni a sua disposizione.
La fiducia di Dirk viene completamente distrutta. Poco dopo lo scoppio del ciclone, ai microfoni di una televisione, un Nowitzki visibilmente scosso dichiara: “È indescrivibile. Vivi con una persona che pensi di conoscere, ma alla fine scopri che non è la persona che hai conosciuto e imparato ad amare”.
Nello stesso periodo il tedescone con la canotta numero 41 dichiara a mamma Helga e a papà Jorg di volersi sposare con Crystal Taylor, sua compagna da qualche tempo. Poco prima del lieto evento la donna viene tuttavia arrestata dalla polizia. Accusata di ripetuti furti, Crystal Taylor si scopre essere una fuggitiva, arrivata ad adoperare fino a otto alias per eludere le forze di intelligence americane.
La fiducia di Dirk viene completamente distrutta. Poco dopo lo scoppio del ciclone, ai microfoni di una televisione, un Nowitzki visibilmente scosso dichiara: “È indescrivibile. Vivi con una persona che pensi di conoscere, ma alla fine scopri che non è la persona che hai conosciuto e imparato ad amare”.
Ancora una volta in soccorso arriva Holger Geschwindner. Zaino in spalla, la strana coppia si lascia tutto dietro e parte alla volta dell’Oceania. Prima fermata: Alice Springs, nel cuore della terra dei canguri, e poi via alla scoperta dell’arida Australia centrale a bordo di una jeep, piantando la tenda in mezzo al deserto e raccontandosi le storie alla luce di un falò. Holger ha paura che Dirk, il suo figlio acquisito, il suo amico, la sua creatura, il ragazzo che tutti i giorni sputa sangue in palestra con lui, non si fidi più di nessuno. Durante questa vacanza, i due lavorano molto sull’aspetto psicologico, ma cercano anche di staccare un po’ la spina, soprattutto quando girano la Nuova Zelanda seguendo i set dove Peter Jackson ha girato Lo Hobbit, di cui Nowitzki è un grande appassionato.
Al ritorno negli States, per Dirk il vento inizia a soffiare in poppa. Innanzitutto, fa un altro incontro che gli cambia la vita: quello con la sua futura moglie, Jessica Olsson. Nata in Kenya da padre svedese e mamma keniana, i suoi fratelli sono Martin e Marcus Olsson, due calciatori professionisti, in forza rispettivamente al Norwich City e al Derby County. Lei e Dirk si incontrano in vacanza in Scozia nel 2010, e il feeling scatta immediatamente. Lei descrive Dirk come un tipo: “umile, gentile, e anche molto divertente. Prende la vita molto tranquillamente, per questo siamo in sintonia”. Le fa da eco il futuro marito (i due si sposeranno a Dallas il 20 luglio 2012): “È una gran donna, sveglia e intelligente. Probabilmente la miglior cosa che mi sia successa quest’anno”.
L’anno a cui si riferisce è quello che lo consacra definitivamente nella storia dello sport con la palla a spicchi. E pensare che per la stagione che si prepara nessuno punterebbe un centesimo su quella banda di vecchietti “brutti, sporchi e cattivi”, che sono i Dallas Mavericks versione 2010-2011.
In fase di formazione della rosa, Nowitzki rinuncia a parte del suo faraonico stipendio per consentire a Cuban di acquistare un supporting-cast di valore. Ogni anno il magnate americano ha costruito la squadra attorno al tedesco, consultandosi anche con lui per gli innesti. Nell’estate del 2010 i Mavericks provano a prendere una super-star (si parla di Lebron James, che finisce invece a Miami dopo la famosa decision, ma anche di Shaq), ma alla fine devono ripiegare su degli innesti mirati quali Tyson Chandler, Peja Stojakovic e Corey Brewer. I nuovi acquisti si aggiungono ai vari Nowtizki, Kidd, Terry, Marion e danno profondità al roster, che diventa competitivo in tutti i suoi reparti.
L’ossatura della squadra è formata da un gruppo di veterani over30 che non ha mai vinto nulla, e che sa bene come quella del 2010 potrebbe essere l’ultima chiamata. Questo straordinario manipolo di ragazzi, tutto cuore ed esperienza, fa quadrato attorno a coach Rick Carlisle e a capitan Dirk Nowitzki. Ognuno di loro meriterebbe un profilo a parte, da Jason Kidd, mister tripla doppia, (all’epoca trentottenne, unico giocatore NBA con almeno 15mila punti, 7mila ribalzi e 10mila assist) a J.J. Barea, un portoricano alto 1,83m capace di far impazzire le difese di mezza NBA e di essere sempre decisivo quando conta.
Il Jet Jason Terry, l’altro superstite della disfatta di cinque anni prima, a inizio stagione si tatua sul braccio il trofeo NBA. Proprio lui, decisivo con i suoi canestri nella serie finale, a 34 anni suonati, nell’immediato post-partita racconta cosa siano stati quei Dallas Maverics: “Siamo rimasti uniti, per cinque anni ci siamo portati questo peso io, Dirk e tutti i tifosi. Oggi Dallas ha quello che si merita. Non abbiamo mai mollato, abbiamo avuto fede in ognuno dei nostri compagni. In molti eravamo arrivati qua, ma nessuno ce l’aveva fatta: io, Dirk, Jason, coach Carlisle. Ognuno ha una storia individuale che ci ha portato fino a qui”.
I ragazzi di Carlisle invece si rialzano e vincono le due partite successive, guadagnandosi l’accesso alle semifinali della Western Conference, dove ad attenderli ci sono i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant e Phil Jackson, bi-campioni in carica.
La regular season inizia con un travolgente 24-5, come a dire: siamo vecchi, ma abbiamo voglia di correre e di sudare. A fine stagione saranno 57 le vittorie, a dispetto di sole 25 sconfitte. Dirk, dal canto suo, termina l’annata con 23 punti e 7 rimbalzi di media. Viste le recenti apparizioni ai playoff tuttavia, nessuno crede che i Mavericks possano arrivare in fondo, soprattutto dopo gara-4 contro Portland, nella quale Terry e compagni, avanti 2-1 nella serie, si fanno rimontare 23 punti di vantaggio e perdono la partita. I ragazzi di Carlisle invece si rialzano e vincono le due partite successive, guadagnandosi l’accesso alle semifinali della Western Conference, dove ad attenderli ci sono i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant e Phil Jackson, bi-campioni in carica.
“Resti qui in questa lega per tredici anni, combatti nei playoff per gli ultimi dieci-undici, e ogni volta ci arrivi solo vicino. Ecco perché questo titolo è speciale: se ne avessi vinto uno all’inizio della mia carriera, forse non avrei lavorato così duramente per migliorarmi negli ultimi tredici anni. È fantastico. Questo è ciò per cui ho lottato . Quando arrivi nella Lega vuoi affermarti come giocatore, andare all’All Star Game e vincere altri riconoscimenti, ma a una certa età hai già vissuto tutto e quello che vuoi è solo l’anello”. Le parole di Dirk Nowitzki nella conferenza stampa dopo la partita che lo ha incoronato campione ci fanno capire che niente avrebbe fermato quei Dallas Mavericks nella loro corsa verso l’obiettivo. Niente. Neanche i Lakers. Neanche Kobe Bryant.
E infatti i texani sconfiggono i gialloviola, anzi la parola esatta forse è annientano, con uno sweep (il nostrano “cappotto”) memorabile: vittoria nelle due partite in California, stesso risultato nei due incontri casalinghi: 4-0, Lakers a casa, e passaggio di consegne tra le due franchigie, con Kobe che elogia il talento e la chimica di squadra dei suoi avversari.
Gara-4, quella che conclude la serie, viene vinta 122-86 dalla squadra di Carlisle, che mette a segno 23 canestri dalla lunga distanza e fa realmente ammattire i losangelini (Odom e Bynum vengono espulsi). L’American Airlines Center di Dallas esplode di gioia, ma Nowitzki negli spogliatoi riporta tutti alla calma, invita i suoi a non perdere la testa: “Stay focused” è il mantra. In finale di conference infatti bisognerà vedersela con i ragazzi terribili di Oklahoma, guidati dal trio Durant-Westbrook-Harden.
In gara-1, a Dallas, Kevin Durant e i Thunder partono forti: 13 punti del fenomeno in maglia 35 nel primo quarto e vantaggio degli ospiti sul 27-20. Ancora non si intuisce che quella sarà la notte di Wunder Dirk. Penetrazioni, tabellate, tiri da fuori: con il passare del tempo Dirk Nowitzki trasforma in oro ogni pallone che tocca. Il canestro si trasforma in una vasca da bagno per Dirk, e l’importanza della sfida non fa tremare la mano al gigante di Würzburg: saranno 48 alla fine i punti del tedesco nella vittoria 121-112 dei Maverics, con un irreale 24/24 ai liberi che polverizza il precedente record siglato da Paul Pierce (21/21). Alla straordinaria prova individuale di Dirk si aggiunge quella di squadra dei bianco-blu, la cui panchina è capace di segnare ben 53 punti.
Ci sono notti in cui un giocatore si carica la squadra sulle spalle e la trascina alla vittoria contro tutto e tutti. La storia del basket racconta molte di queste imprese, di questi momenti in cui vedi la differenza tra un buon giocatore e un campione. Dal canestro di Jordan a 5” dalla fine a Salt Lake City per il sesto anello nel giugno del 1998 ai 27 punti, 11 rimbalzi e 11 assist dell’ultima gara-7 delle finali 2016 con cui James ha portato per la prima volta il titolo nella sua Cleveland.
Gara-4 contro gli Oklahoma City Thunder è una di quelle partite per Dirk Nowitzki. Avanti 2-1 nella serie, ma sotto di 15 punti a 5 minuti dalla fine, i Dallas Mavericks chiudono il quarto quarto con un parziale di 17-2. Un Wunder Dirk in versione Alessandro Magno dell’alta Baviera segna 12 di quei 17 punti, compreso un due su due dalla lunetta a 6,4 secondi dalla fine per portare la gara all’overtime (primo calcio ai fantasmi della finale 2006). I Mavericks, guidati dal loro condottiero con il numero 41, si aggiudicano la battaglia ai supplementari. Nella sfida successiva rimontano un altro svantaggio nel quarto periodo e si prendono il titolo di campioni della Western Conference. A 33 anni e a cinque di distanza dalla prima volta, Wunder Dirk e i Dallas Mavericks si giocheranno di nuovo il titolo nelle NBA Finals.
Il destino vuole che, nell’anno della straordinaria cavalcata di Dallas, a Est sia venuta formandosi la Miami Heat dei big three: Dwyane Wade, Chris Bosh, e soprattutto Lebron James, anche lui a caccia del primo anello.
La storia di redenzione e la strada verso la gloria del primo MVP non americano deve passare quindi dalla rivincita delle Finals 2006, perse dopo essere stati avanti 2-0 nella serie. I Mavericks sono sfavoriti, nessuno pensa che abbiano realmente chanches di battere la franchigia della Florida. Ma Dirk Nowitzki questa volta sa di non poter fallire l’appuntamento con il destino. Sa anche di avere tutta l’America, eccetto Miami, dalla sua parte. Tutti tifono per i veterani texani, e vogliono vedere un altro fallimento del Prescelto Lebron James. Anche la storia di Lebron passa da queste Finals, in quel meccanismo di sconfitta-sofferenza-vittoria di cui parlavamo prima e che tanto piace allo sport americano.
In gara-1, a South Beach, gli Heat fanno valere il fattore campo e sconfiggono i Maverics 92-84. Gara-2, sempre in Florida, diventa quasi da dentro o fuori per i Mavs. I primi tre quarti procedono sui binari dell’equilibrio, ma a inizio quarto periodo Miami tenta lo strappo decisivo. A sette minuti dalla fine il tabellone dice 88-73 Heat. Finita? Neanche per sogno: questi Maverics sono duri a morire. Miami inizia a sbattere contro la difesa di Dallas, che in attacco invece segna canestri a ripetizione.
L’appoggio mancino di Nowitzki servito in contropiede da Marion vale il 90-90 a un minuto dalla fine. A 26 secondi dalla sirena Dirk spara anche la bomba che suggella un parziale di 20-2 per Dallas: 90-93. Gli Heat però trovano la forza di reagire, Mario Chalmers risponde con i piedi dietro l’arco e impatta la gara sul 93-93. Nel successivo possesso per i Mavs, la palla finisce nelle mani del capitano Dirk, che supera Bosh con un giro di valzer e appoggia di sinistro il lay-up che a vale la vittoria per i suoi. In quegli ultimi tre canestri c’è tutto Dirk Nowitzki: il suo carisma, la sua capacità di giocare sotto pressione, gli anni di lavoro passati in palestra con Holger per affinare il tiro e la velocità dei piedi. La serie è apertissima quando si sposta a Dallas.
In Texas, LBJ e soci vincono gara-3 88-86, rimettendo la testa avanti. Nel quarto atto delle Finals 2011, come in gara-2, i Mavericks si trovano sotto quando mancano cinque minuti alla fine, ma pure stavolta riescono a rimontare, grazie anche ai canestri di Dirk, che segna 10 dei suoi 21 punti nell’ultimo periodo, compresa l’entrata che vale il +3 a 16” dal termine. Ad aggiungere un tocco epico alla partita, la febbre a 38,5 che affligge Nowitzki: siamo 2-2 prima dell’ultima partita da giocare in Texas. Gara-5 è un’altra battaglia all’ultimo tiro. Con il solito parziale nel finale (17-4 questa volta), i padroni di casa si impongono per 112-103 e si preparano a volare in Florida con il match point già in gara-6. Nowitzki ne segna 29.
All’American Airlines Arena invece, un po’ defilato in quarta-quinta fila, c’è Holger Geschwindner: questa finale è anche sua.
Per la prima volta in carriera, dopo tredici anni di NBA, Dirk è a una partita dall’anello. La famiglia vuole raggiungerlo a Miami, ma dopo che nel 2006 i Mavs avevano perso tre partite di fila in Florida, Nowitzki preferisce che rimangano in Germania. Vorrebbero esserci i genitori e la sorella, ma rispettano la scelta di Dirk. Tutta Würzburg si ferma per supportare il suo campione, i pub stanno aperti fino a tarda notte: c’è una nazione intera dall’altra parte dell’Oceano a spingere Nowitzki verso l’ultimo sforzo. All’American Airlines Arena invece, un po’ defilato in quarta-quinta fila, c’è Holger Geschwindner: questa finale è anche sua.
Il primo tempo della sfida del 12 giugno 2011 Nowitzki lo conclude con un 1/12 al tiro. Per fortuna ci sono Terry e gli altri a tenere i Mavs attaccati alla partita. I compagni continuano comunque ad andare da lui, non smettono di passargli la palla: ognuno si fida ciecamente dell’altro tra i texani. Dirk li ripaga con 10 punti nel’ultimo quarto: i Dallas Mavericks battono i Miami Heat 105-95 e si aggiudicano la serie per 4-2. Contro ogni pronostico, i Mavs sono campioni NBA per la prima volta nella loro storia. La finale del 2006 è vendicata, Jason Terry non deve cancellarsi il tatuaggio dal braccio e, soprattutto, il ragazzino venuto dalla Baviera ce l’ha fatta. E con lui Jason Kidd, Shawn Marion e tutti gli altri. È la vittoria di una squadra che ha giocato insieme, ha sofferto insieme e con cuore e disciplina ha prevalso su un avversario più forte.
Al fischio finale, Dirk scappa in lacrime negli spogliatoi. Troppo forte l’emozione, il senso di svuotamento per essere finalmente riuscito nell’impresa. Le telecamere vanno a cercare Holger Geschwindner, anche lui visibilmente commosso. È la vittoria dello sportivo Nowitzki e dell’uomo Dirk, esemplari tutti e due. Il titolo di MVP delle Finals non può che andare a lui (26 punti a partita nella serie, con quasi 10 rimbalzi e 45-46 totale ai tiri liberi), secondo europeo a vincerlo dopo il francese Tony Parker. Solo quattro giocatori hanno segnato più punti di Dirk Nowitzki prima di riuscire a vincere un titolo NBA.
Qualche giorno dopo, a Dallas ci sono 250.000 persone in giro per le strade. Il presidente USA Barack Obama, nel suo discorso ai campioni, elogia il lavoro di Dirk: “Abbiamo visto raramente una corsa playoff migliore di quella di Dirk. È un duro. Una delle sue peggiori cose è stata la versione di We are the Champions durante i festeggiamenti” (ironizzando sulle doti canore del fenomeno bavarese). Significative anche le parole di Erik Spoelstra, il coach dei Miami Heat, immediatamente dopo la sconfitta: “Dirk Nowitzki è semplicemente uno dei più grandi di tutti i tempi, e lo era già nel 2006. È riuscito a migliorare sempre il suo gioco. Questa è una grande lezione per tutti i giocatori NBA”.
Il 26 dicembre 2015 Dirk Nowitzki supera Shaquille O’Neal e si piazza al sesto posto nella classifica dei migliori marcatori all-time della NBA. Wilt Chamberlain è oggi distante circa duemila punti (Wunder Dirk è arrivato a 29.257), mentre sono tremila le lunghezze che lo separano da Michael Jordan. Primo, inarrivabile, Kareem Abdul-Jabbar con i suoi 38.387 punti. Da quell’anello del 2011, Nowitzki non ha mai smesso di migliorare ancora, e anche oggi, a 38 anni, nonostante qualche acciacco, riesce a fare la differenza. A Dallas è ormai una leggenda, ma lui continua ad essere umile e alla mano con tutti coloro che lo circondano. In palestra, a seguirlo c’è ancora Holger Geschwindner: “Tutto ciò che so, me lo ha insegnato lui” ammette Dirk.
Durante gara-5 della serie finale contro Miami, dopo una tripla del tedesco il telecronista ha raccontato che il tiro: “Ha colpito due aerei, un satellite forse, per poi atterrare e toccare solo la retina”. Una parabola lunga, che ha tenuto tutti con il fiato sospeso, ma con un lieto fine al termine. Come la storia di Dirk Nowitzki, uno dei migliori giocatori che abbiano mai calcato un campo da pallacanestro.
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