Cristina è stata la prima persona con cui ho fatto amicizia quando sono arrivata a Pescara. Era il 1998. Lei era la più alta della classe e spesso quando parlava non la capivo.
“Abbiamo cosato. C’era quella cosa e si doveva cosare, capito?” Annuivo diligentemente, ma alle elementari in Brianza la voce del verbo “cosare” non l’avevo mai studiata. Cristina raccontava palle gigantesche, ma mi piaceva l’entusiasmo con cui lo faceva, la convinzione che ci metteva. Mi ha insegnato a fare gli scoobydoo, sia quello piatto che quello quadrato. E in quinta elementare mi ha regalato un libro ‘La ragazza con la valigia’, mai titolo fu più profetico. Un inciso che starebbe bene dopo il mio nome, ma soprattutto dopo il suo.
Pescara, Milano, Lille, Londra, Pokhara, Phnom Penh, Chiang Mai, Bruxelles, Chennai, Venezia, Ramallah, Parigi, Calais, Chalkida, Amman, Ouagadougou.
Questi sono i posti dove Cristina Cardarelli ha vissuto, studiato, lavorato. Dopo la triennale alla Statale di Milano in Scienze Internazionali ed istituzioni diplomatiche, un master alla London School of Economics in Teoria delle Relazioni Internazionali e un altro alla EIUC di Venezia in Diritti Umani e Democrazia in Medio Oriente, ha fatto tirocini, volontariato e ricerca in giro per il mondo. Si occupa prevalentemente di progetti per lo sviluppo di nazioni in stato di crisi, diritti umani e raccolta dati e analisi in contesti in cui si trovano rifugiati.
Quando le chiedo che effetto le faccia spostarsi così tanto mi dice che non le pesa, lo ricerca, é il suo ambiente.
“Dopo Londra mi sono accorta di essere una zingara.” Ma la modalità con cui si muove non è quella dell’esploratore, del giramondo o del viaggiatore, “per forza di cose adotti un atteggiamento di breve periodo, last minute.” Le domando di spiegarmi meglio e lei racconta che quando va in missione — è così che si dice — non ha tempo per adattarsi, si deve buttare immediatamente: “vivi periodi temporalmente compressi, ma di grande intensità, due settimane con i rifugiati in Grecia sono come tre mesi di vita normale”. L’impatto, fisico e psicologico, dura molto più a lungo del tempo passato in un determinato luogo. Last minute nel senso che se le chiedessero oggi di andare a lavorare in Uganda il mese dopo sarebbe già lì.
È bello ritornare a casa e non essere nessuno.
Ma trovarsi in paesi così lontani da quello a cui siamo abituati nel mondo occidentale a volte presenta delle questioni morali: “Tu lì sei sempre il bianco europeo privilegiato. Anche nell’autobus più di fortuna tu viaggi in prima classe. Ti rendi conto di avere sempre un altro status e questa consapevolezza spesso ti fa sentire come un intruso. In più, se è una singola persona a spostarsi in questo modo è un conto, ma se è un intero mondo a farlo, a creare un mercato solo per privilegiati, è un altro. È quello che causa danni e che crea dei meccanismi disfunzionali. Per esempio in un contesto in cui è tutto estremamente povero, trovi il ristorante in cui una cena ti costa cento euro, perché c’è un mercato che lo rende possibile. Gli occidentali che vengono a lavorare in questi luoghi hanno il diritto e le risorse per permettersi determinati agi, ma quelli del posto no. C’è molto paradosso e umanamente ti prende male. È bello ritornare a casa e non essere nessuno.”
Domando a Cristina quale siano i posti più difficili in cui è stata. Lei ride, poi mi risponde il Burkina Faso, che è dove si trova ora per una fellowship con la UN presso la Cooperazione Italiana. È il quarto paese più povero al mondo, le risorse e i confort sono molto limitati, i confini nord del paese sono zona rossa, quindi gli spostamenti non sono sempre possibili. Anche geograficamente non è il massimo, non ha sbocchi sul mare, non ci sono montagne, é piatta e fa un caldo devastante, fisicamente ti uccide, mi dice. Seconda in lista c’è Milano, lo dice ridendo. Mi racconta che anche Parigi l’ha molto provata, lei era lì durante gli attacchi terroristici nel 2015. Quella che l’ha colpita di più psicologicamente però è stata la Palestina. “Perché é un evergreen delle relazioni internazionali, é una questione che studi in tutte le salse, quindi pensi di conoscerla, ed un metro di paragone per tutto il diritto internazionale. Quando vai là ti accorgi che il diritto internazionale ha fallito. Devi resettare dei parametri, ti rendi conto della discrepanza tra politica e realtà. Probabilmente la Palestina è il posto in cui ci sbatti più la faccia. In particolare se vieni da un contesto di studi focalizzato sulla questione del Medio Oriente, ti senti davvero frustrato. Nonostante tu l’abbia studiata per anni quando arrivi in loco non possiedi neanche le categorie mentali per capire una situazione talmente di merda come quella in cui ti trovi che ti chiedi cosa effettivamente faccia e cosa effettivamente sia il diritto internazionale.”
Cristina ed io ora ci vediamo raramente, ogni tanto a Natale, più spesso d’estate, che è la sua stagione, mentre io soffro il caldo e la depressione stagionale, lei si ricarica e si trasforma. La sua carnagione raggiunge delle pigmentazioni che le hanno valso il soprannome di Mowgli. I suoi occhi, normalmente color nocciola, in contrasto con quella pelle nera diventano gialli, ipnotici, giungleschi. I suoi capelli, patologicamente lunghi, si sbiondiscono con il sole. Se non sorridesse così spesso sembrerebbe una divinità saggissima, una sorta di implacabile dea della giustizia.
“Tornare a casa ti va sempre bene se sai dove ritorni, se hai delle radici forti, ed io ce le ho. Mi fa bene e ne ho bisogno. Mi svacco. Certo l’impatto è forte, di più o di meno, a seconda del paese da cui torno, e lo spaesamento è imprevedibile, arriva sempre qualche giorno dopo la gioia iniziale, ma non so mai quando. Però qui c’è la leggerezza della vita di quartiere, degli amici e della ripetitività. C’è la mia famiglia, che per me significa casa. C’è il mare, il mio analgesico, sia d’estate che d’inverno. E c’è la routine, che mi rimanda ad un periodo felice, quello di quando ero al liceo. Mettersi in pari con tutto ciò che è successo in mia assenza non è sempre piacevole, c’è un sacco da assimilare e spesso questo include brutte notizie, ma ha anche del bello: fa parte del pacchetto ritorno.”
Ho il dubbio che il muoversi così tanto sia una questione di carattere, secondo lei no, il carattere non ti fa pesare il fatto che ti sposti spesso, ma non ti istiga a farlo. Poi aggiusta il tiro, sì, in parte è una questione di indole, lei per esempio ha viaggiato molto con la sua famiglia. Soprattutto il padre le ha trasmesso la curiosità per il mondo, ma sono poi le persone che incontra e la passione crescente per il lavoro a deviare i suoi percorsi. Mi chiedo anche se il viaggiare, trasferirsi, essere così mobili sia una forma di fuga, di rifugio da una realtà che non si riesce ad affrontare. “Spostarsi non è curativo, accumuli stress, paranoie, se hai delle turbolenze interne quando torni sei ancora più disturbata di quando sei partita. No, non mi cura e non lo uso come cura. Spostarsi più che un rifugio è un confronto, quello sì, e il confronto mi piace e lo voglio, dà un senso al muoversi. Poi penso che lo spostamento di per sé non sia un male, e più che indagarne le cause cercherei di capirne l’andamento.”
Cristina ha lavorato molto con i rifugiati, in particolare a Calais e in Grecia con il progetto Refugee Rights Data Project, in cui funge da ricercatrice, le chiedo come la faccia sentire il fatto che lei si sposti per scelta, per un desiderio interiore, mentre le persone con cui lavora sono obbligate a farlo a causa di situazioni esterne. Le sembra un paragone forzato e pericoloso, mi dice. Che accentua il lato disfunzionale di questa relazione di chi lavora nella Cooperazione e chi viene aiutato da essa, perché sottolinea il privilegio di uno e la vittimizzazione dell’altro. Anche i rifugiati scelgono di spostarsi e sono mossi da speranza, che è qualcosa di interiore. C’é anche chi rimane là. Poi le ho chiesto che effetto le facesse entrare in contatto con persone le cui storie di vita fossero così difficili. Lei ci tiene a precisare che i rifugiati non sono speciali, sono persone come tutte le altre che si trovano casualmente in una situazione speciale. Una condizione che dovrebbe essere temporanea. Sono uomini e donne estremamente normali, nei bisogni, nelle emozioni e nelle ambizioni. “ C’é chi è scappato dalla guerra, chi dalla povertà, chi dalla famiglia, come qualsiasi essere umano che desidera porre fine ad una condizione di oppressione. Purtroppo ce ne si rende conto solo gradualmente perché i media promuovono questa sorta di “esotismo”, ma i rifugiati sono persone che, come molte altre, hanno avuto la loro dose di tragedia e cercano prospettive migliori.” Poi però mi racconta un episodio. Stava parlando con un ragazzo curdo iracheno di circa vent’anni che aveva combattuto nell’esercito di liberazione, Cristina doveva raccogliere dati e cercava di metterlo a suo agio creando un’atmosfera spiritosa mentre lo intervistava. Lui le parlava guardandola solo di sbieco, senza mai girarsi completamente verso di lei. Quando gli chiese perché non potesse tornare nel suo paese lui si alzò la maglietta e le mostrò una cicatrice che partiva dal cuoio capelluto e gli attraversava l’intero corpo dividendolo in due. Le disse che l’ISIS lo aveva catturato, legato mani e piedi, appeso e tagliato a metà. Poi lo aveva lasciato lì. “La cosa che mi ha colpito di più é stata la posatezza con cui mi ha raccontato tutto ciò, con un mezzo sorriso.”
Le ricordo che una volta mi aveva detto che stando in mezzo alla vera sofferenza, la propria diventa più sopportabile. Conferma. Dice che il dolore altrui ridimensiona il proprio, vedere la resilienza degli altri è fonte di ispirazione. Ma mi avverte che bisogna stare attenti quando si fanno questi discorsi, non è che uno vada a “vedere i poveri” per sentirsi meglio, si va a vedere la bellezza del loro modo di reagire. Mi fa l’esempio delle manifestazioni civili in Palestina. Avere a che fare con persone in situazioni difficili non ti fa essere meno triste per la tua di situazione difficile, ma ti mette davanti all’evidenza di non essere l’unica ad aver vissuto una tragedia. Entrare in contatto con realtà differenti e complesse fa scoppiare la bolla di egocentrismo in cui si vive in Occidente. Capisci anche che certi problemi non possono avere tutto il peso che gli si dà, o che se ce l’hanno c’è qualcosa che non funziona nella scala delle priorità.
Alla domanda se ogni tanto non avesse voglia di mollare tutto e fare una vita regolare mi dice che ad un certo punto ne avrà bisogno, ma non ora. Che benché sia un lavoro totalizzante, uno degli aspetti che preferisce é parlarne, divulgare le informazioni accessibili a persone ricettive, informare, creare consapevolezza su cosa succede nel mondo non occidentale.
Mi ricordo una volta che eravamo al mare insieme e io le avevo confessato di non leggere i giornali.
“Ogni tanto ci provo, ma fa tutto così schifo che finisco sempre col piangere.”
“Ma non puoi fare così.”
Abbassai lo sguardo ed infilai le dita tra la sabbia, sentii i granelli che mi si conficcavano sotto le unghie ed era una sensazione sgradevole tanto quanto la conversazione che avevamo appena avuto. Quando alzai gli occhi Cristina mi stava ancora guardando. Con una voce meccanica e lenta iniziò a raccontarmi la storia di un ragazzo siriano che aveva conosciuto a Venezia. Non sbatteva le palpebre quasi mai. Era come se mi stesse tenendo la faccia tra le mani perché io non la muovessi, invece erano quei suoi occhi gialli e felini che mi rendevano immobile. La vita di questo nostro coetaneo è forse la cosa più triste che abbia mai sentito. Senza singhiozzi, le lacrime iniziarono a bagnarmi le guance e mi imbarazzavano. Le dissi basta, perché non riuscivo a smettere di piangere, mi disse no e andò avanti. “Devi sapere.” Mentre mi asciugavo il moccio dal naso lei si azzittì, la sua faccia non rivelava né disprezzo, né soddisfazione, né compassione. “Queste storie si devono conoscere.”
Immagine di Copertina: © Mykensie Halily
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