Sono nella stazione metropolitana di Möckenbrücke e aspetto il treno in direzione Rudow, che mi porterà a casa. Mi guardo intorno, come alla ricerca di qualcosa che mi aiuti ad ammazzare il tempo, e l’immagine su una locandina richiama la mia attenzione. Sei corpi umani nudi, di diverse forme e dimensioni, le mani appoggiate al muro e le gambe allargate. La foto in bianco e nero, che li riprende da dietro, mi trasmette una tensione che in qualche modo sento familiare. Mi avvicino e capisco che si tratta di uno spettacolo teatrale di prossima uscita: Der Schuss 2.6.1967. Sembra interessante.
Qualche giorno dopo, mi viene proposto di scrivere dello stesso spettacolo e mi torna in mente quell’immagine. Dal momento che ho imparato a considerare che non tutto accade per caso, mi viene da pensare che si tratti di un segno dell’universo. Ma poi, cosa potrebbe voler dire, non me lo chiedo.
Arrivo al teatro un po’ in ritardo e la donna alla biglietteria me lo fa notare, ma io non le presto troppa attenzione e riscuoto i due ingressi. Torno indietro, mi fermo sull’uscio dell’entrata principale e allungo lo sguardo in cerca di Laura, che mi accompagnerà. Intanto, la signora che lavora al bar del teatro mi passa più volte accanto, sorride e mi ripete che devo sbrigarmi. La tranquillizzo per almeno tre volte prima che si congedi. Non sono mai stata alla Neuköllner Oper, anche se è a pochi minuti da casa, e sono molto curiosa. Io e Laura saliamo in fretta le robuste scale di legno coperte da un tappeto. Le trovo molto belle. Dobbiamo raggiungere il terzo piano e, con noi, una donna anziana è l’ultima ad entrare.
In sala sono già tutti seduti, la capienza è limitata. Ho la sensazione di ritrovarmi all’intero di un cubo bianco, dove solo i corpi umani creano la dimensione spaziale. Troviamo velocemente i nostri posti e ci inseriamo in quella massa. Oggi fa caldo, qui dentro particolarmente. Sudata, osservo i due ragazzi che ci siedono davanti, e invidio quelle racchette da ping-pong che usano a mo’ di ventaglio. Immagino che abbiano giocato all’aperto, in questa preziosa giornata di sole. Poi mi accorgo che le stesse racchette le sventolano tutti e capisco che in realtà è il teatro stesso a fornirle e che non si tratta di racchette. Mi rimprovero in silenzio per non aver preso un ventaglio anch’io, ma ormai è tardi, lo spettacolo inizia.
Quasi subito, le sei persone che formano l’intera compagnia entrano assieme in scena e si stringono in un gruppo al centro del palco. Con le mani sorreggono dei registri e si accordano in un canto lirico che non mi aspetto: inutile sforzarsi di capirne le parole. Subito dopo, a prendere la nostra attenzione è la coppia protagonista della storia. Due giovani sposi in attesa del loro primo bambino e studenti attivisti dei movimenti rivoluzionari sessantottini.
Il personaggio maschile è Benno Ohnesorg, giovane studente che da lì a poco sarà ucciso da una vile pallottola alla nuca e diventerà per i tedeschi un simbolo di quella lotta.
È il due giugno del 1967, giorno in cui lo Scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi, sostenitore della politica imperialista americana, è in visita a Berlino Ovest, e assiste ad uno spettacolo alla Deutsche Oper. Sotto il teatro si raccoglie una folla di studenti e oppositori, mista ai sostenitori dello Scià. Per la maggioranza, uomini dei servizi segreti del regime persiano, SAVAK e infiltrati in borghese. Dopo le provocazioni di questi ultimi e degli agenti di polizia, la protesta diventa violenta. Sono circa le otto e mezzo di sera quando partono le cariche contro la folla. C’è un gran tumulto e i manifestanti si disperdono nelle strade laterali. Infine, nel cortile in Krumme Strasse 66, fa eco uno sparo, “der Schuss”, appunto. L’ispettore in borghese Karl-Heinz Kurras spara a distanza ravvicinata a Benno, che cade a terra esanime.
Due porte laterali offrono agli attori l’accesso al palcoscenico: uno spazio lungo, piuttosto stretto, che rasenta i piedi del pubblico. Sulla scena, della manifestazione se ne percepisce solo l’esistenza. Inizialmente Ben ci va con Chris (Christa Ohnesorg), ma visto che la tensione è alta, per lei è meglio tornare a casa e mettersi al sicuro. La trama e lo spazio scenico la vedono quindi intrappolata in questa notte infinita, solitaria, in cui tutti i sui fantasmi le fanno visita. Il suo personaggio non abbandona mai la scena.
Ad un certo punto una parte dello sfondo comincia a muoversi, due grossi pannelli salgono verso l’alto lasciando degli spazi aperti di forma rettangolare e mostrando l’orchestra posizionata dall’altro lato. Capisco adesso chi fossero quelle persone che avevo visto approntarsi nell’ombra, nello spazio che si intravede prima di entrare. Mi sembra perfetto il modo in cui i tempi e le movenze degli strumentisti si amalgamano con la recita.
Intanto sul palco si avvicendano diverse figure: da un lato la personificazione dei dogmi politici di una mente rivoluzionaria che brama giustizia, dall’altro la raffigurazione dei pregiudizi sociali e culturali dell’epoca, con cui questi si scontrano. Tra gli spettri che invadono la mente di Ben, compaiono anche quelli di Gudrun Ensslin e il suo compagno Andreas Baader, noti terroristi tedeschi e insieme i fondatori della Rote Armee Fraktion (RAF), il gruppo armato di estrema sinistra tra i più violenti del dopoguerra. Poi spunta anche il figlio della Ensslin, che in questa occasione lei cerca di affidare a Chris, e che allude alle sue angosce nei confronti del bambino che sta aspettando.
Accade poi che tutti sembriamo essere parte dello spettacolo, gli attori compaiono anche alle nostre spalle e trascinano gli sguardi lungo la fila di scale che spacca il pubblico a metà e raggiunge il palco. Una donna che riscende la scalinata con lentezza per andare in bagno mi confonde, la trovo un elemento di disturbo in quel cubo teatrante in cui sono immersa.
Mi esalta l’effetto quasi psichedelico delle proiezioni che a un certo punto invadono l’intera parete di fronte, lasciando scomparire il resto. Per un attimo ci entro dentro, vengo assorbita dal fluttuare dei fasci di luce e mi sento stranamente appagata. Compaiono scene più nitide, in cui il bianco rende di nuovo il sopravvento, e corpi umani fasciati di bende si articolano in dinamiche travagliate e movimenti meccanici. Stelle a cinque punte, macchie di sangue, lettini da ospedale, si riuniscono in scene oniriche compulsive. Sul finire, la parete sembra andare in fiamme e un’enorme bandiera nazionale tedesca ricopre gli attori rimasti sulla scena e quasi tutto il palcoscenico.
Come di consueto, a spettacolo terminato, gli attori e i musicisti escono per tre volte a salutare il pubblico, mentre un fragoroso applauso non perde mai di intensità. Ho la sensazione che abbiano apprezzato tutti. Il lancio di Der Schuss 2.6.1967, spettacolo musicale di Arash Safaian (musica) e Bernhard Glocksin (testo), cade proprio in corrispondenza del cinquantesimo anniversario di questo tragico evento, che ha lasciato un marchio nelle coscienze del popolo tedesco. L’interpretazione contemporanea di quel passato mi pare individuare una certa logica rimasta costante nel tempo. Lo spettacolo però omette la fine della storia. Dopo l’assassinio, la polizia cercò di coprire l’agente Kurras, dichiarando che avrebbe sparato per legittima difesa. Fu assolto da tutte le accuse in ben due processi. Forse sarebbe stato un finale troppo scontato.
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