Non c’è Carnevale in cui non mi ricordi del mio ultimo Carnevale.
Avevo dieci anni e di lì a poco ci sarebbe stata la festa in maschera a casa di una mia compagna di classe. Quell’anno non sapevo come vestirmi. Ero già stato un pirata, un punk, Jovanotti, un fantasma, un puffo e Spiderman, il mio preferito. Quanto ero figo vestito da Spiderman. Da fantasma pure. Mi piacevano i costumi in cui non potevi sapere subito chi fosse la persona che si nascondeva sotto. Non c’era gusto altrimenti. Che poi gli amici mi riconoscevano anche vestito con un lenzuolo bianco a coprirmi integralmente. Per come camminavo e ancora cammino, che sembra che abbia delle molle sotto ai piedi. Incrociavano ‘sto esserino bianco con due buchi all’altezza del viso da cui si intravedevano gli occhi azzurri, e subito partivano con uno scappellotto urlando il mio nome. Non mi lasciavano nemmeno il tempo di lanciarmi in uno spaventoso lamento come ogni fantasma che si rispetti.
«Come hai fatto?», chiedevo a chi indovinava, ma al mio paesino mica ce n’erano tanti di bimbi molleggiati.
Per il mio ultimo Carnevale ero a corto di idee. Sarà che nel mio inconscio già sapevo che non ce ne sarebbero stati altri e allora bisognava fare una scelta ponderata, chiudere in bellezza, ma non riuscivo a decidermi. Nulla che mi convincesse. Per fortuna c’era mamma che è creativa. Mamma è un’artista, dipinge, e fa teatro da tutta la vita. Quale migliore persona a cui commissionare un costume memorabile. Quell’anno del mio ultimo anno mi affidai completamente a lei.
*
Ero rimasto in silenzio per quasi tutto il tragitto. Non ero triste, solo perplesso. Il giorno della festa era arrivato. Ero in macchina con il mio amico Matteo e suo padre. Mi diedero un passaggio perché mia mamma la patente non l’ha mai presa. Matteo era vestito da poliziotto: manganello, manette, occhiali da sole e pistola. Kit completo. Aveva pure il distintivo a forma di stella con la scritta ‘Sheriff’ in plastica d’oro, che esibiva con orgoglio. Gli mancava solo la paletta della municipale per formare il trittico dell’ordine. Io invece tenevo il mio costume ben nascosto sotto la giacca. Non mi sentivo ancora pronto per rivelarlo al mondo, e comunque a Febbraio, in Pianura, fa freddo anche quando c’è il sole.
Arrivammo alla festa che quasi tutti i compagni erano lì. Fate, streghe, cavalieri, cowboy. Alcuni avevano già il costume ricoperto dallo zucchero a velo dei crostoli, che poi sono le chiacchiere o come diavolo li si vuole chiamare. Altri schiamazzavano a bocca piena con le dita ancora unte dall’ultima manata di Dixi. Palloncini colorati e stelle filanti pendevano dai lampadari della grande cantina che i genitori di Sara ci avevano messo a disposizione, mentre a terra il tappeto di coriandoli era diventato un’unica poltiglia con la schiuma e la cola. Dracula ci scivolava sopra mentre rincorreva le ragazzine urlanti sparando Cacca Spray. Nell’aria l’odore di dolciumi si mescolava a quello di uova marce. Quelli che non erano impegnati a ingozzarsi ci vennero subito incontro per dirci che Luca aveva rotto una fialetta puzzolente dentro casa. I miei turbamenti non mi lasciavano godere appieno della bravata alla quale – in condizioni normali – avrei riso di gusto, proprio come stava facendo Matteo. Re Artù maneggiava con un po’ d’invidia la Beretta M34 del mio migliore amico, mentre Cleopatra cercava di decifrare la scritta in inglese sulla stella.
Poi mi tolsi la giacca.
Ne seguì un silenzio innaturale per una mandria di mocciosi. L’opera di mamma era stata rivelata ed ero pronto alla pubblica gogna. Lentamente si avvicinarono tutti. Di solito i bimbi ridono delle cose buffe, ma quello che videro era troppo anche per loro. Fu Superman a rompere il silenzio.
«Che cosa sei?»
Era lo stessa dubbio che sottoposi a mia madre quando me lo fece provare per la prima volta. Ai piedi indossavo delle scarpe nere da danza classica. Subito sopra iniziava una calzamaglia attillata dello stesso colore, che metteva in risalto la ridicola collinetta dove le gambe si incontrano. La maglietta a maniche lunghe, pure quella nera e attillata, era cosparsa di piccole stelle di un argento brillante che mamma aveva meticolosamente attaccato. Tenevo in mano un bastone da passeggio, ovviamente nero e con il pomello argentato. In testa indossavo una bombetta completamente ricoperta di paillettes che riflettevano luce ovunque. Sembravo uno stroboscopio.
Un ninja, nero anche lui ma molto più virile, tentò una risposta ma, no, non ero un mimo. ‘Frocio’ era la parola che probabilmente cercava ma ancora non conosceva.
«Sono la notte»
Era così che mamma mi aveva detto di rispondere. Ero un cielo buio e stellato. Ero la notte, ma non quella oscura e vendicativa di Batman. Alla meglio potevo sembrare l’Enigmista, ma capace di un unico quesito: “Perché?”.
Quando vidi i loro occhi impietositi, non scoppiai a piangere solo perché non era nel mio carattere, ma dentro stavo morendo. Mi sorpresi della loro solidarietà. Invece di schernirmi furono mossi a compassione, tanto che qualcuno azzardò pure un timido complimento. Matteo mi diede i suoi occhiali a specchio dicendo che così sarebbe stato ancora più buio. Re Artù mi porse la sua spada. Era il loro nobile tentativo di ricostruire la mia dignità perduta. Per la stessa ragione le ragazzine ben si guardarono dall’allungarmi una bacchetta da fata. Mi sentii meglio e subito tornai con il mio solito sorriso.
Quel Carnevale del mio ultimo Carnevale, pensavo di aver toccato il fondo e che in futuro non avrei mai più perso il mio decoro.
Ancora non potevo sapere cosa la vita avesse in serbo per me.
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