Donald Trump è il primo presidente statunitense della storia ad essere eletto senza aver mai ricoperto in precedenza un incarico politico, pubblico o militare. È anche il primo candidato in grado di aggiudicarsi la corsa alla Casa Bianca e a non rendere pubblica la sua dichiarazione fiscale, sempre il primo a vincere la competizione elettorale avendo previsto all’interno della sua piattaforma politica una serie di misure contro il libero commercio e ancora il primo e unico presidente americano di sempre ad essere eletto con alle spalle una serie di procedimenti giudiziari per la bancarotta di quattro sue aziende. Le prime volte non sono finite qui. Il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America varcherà infatti la soglia dello Studio Ovale il prossimo 20 gennaio 2017 (data effettiva della sua entrata in carica) all’età di 70 anni e 7 mesi: il più vecchio di sempre a insediarsi a Washington per un primo mandato. Il limite precedente era stato stabilito da Ronald Reagan, che nel 1981 assunse la presidenza a 69 anni. Trump condivide con Reagan anche un’altra prima volta: è il secondo candidato, dopo Reagan appunto, a vincere la corsa elettorale da divorziato, mentre il primo in assoluto a riuscirci con più di un matrimonio alle spalle (ha convolato a nozze tre volte): Melania Trump sarà la seconda first lady della storia a non essere nata negli Stati Uniti, l’unico precedente è quello di Louisa Adams, figlia del Console Statunitense a Londra e moglie del sesto presidente della storia USA, John Quincy Adams, in carica dal 1825 al 1829.
La lista potrebbe proseguire a lungo, ma non serve spingersi oltre. Tutte queste prime volte indicano infatti molto chiaramente il punto della questione: gli equilibri della politica sono radicalmente cambiati in tutto il mondo occidentale. L’elezione presidenziale statunitense costituisce l’ennesimo e definitivo tassello di depoliticizzazione del nostro sistema, uno smantellamento radicale di tutto l’ordine politico classico, irrevocabilmente assorbito da una società dei media nella quale a vincere non è il più intelligente, ma il più rumoroso. La tendenza evidente è quella di una politica in cui gli individui, all’interno di una società la cui economia tradizionale è ormai al collasso e alla ricerca disperata di un cambiamento, percepiscono come unica opposizione credibile alla politica tradizionale questa sorta di bulli di quartiere il cui unico merito è quello di gridare la propria posizione più forte degli altri e di dare all’elettorato la sensazione di poter costituire un elemento che scardini il sistema in essere e protegga con la forza dalle incertezze del futuro.
Lo smantellamento delle associazioni dei lavoratori, l’annichilimento delle sigle sindacali, la caduta dei prezzi di mercato, la scarsa competitività con i mercati emergenti, il crollo dei salari e la crescita della disoccupazione sono elementi condivisi da tutti i paesi oggi economicamente più avanzati e hanno contribuito in modo determinante ad un rimodellamento delle dinamiche di campagna elettorale, oggi del tutto ribaltate da un sistema sociomediatico che ha svuotato di qualsiasi significato l’ideologia politica classica e gli equilibri che si portava dietro. La leggerezza e la volatilità della circolazione delle informazioni sui social media cambia drasticamente anche il ruolo dei media stessi. In uno spettro di informazione composto da innumerevoli possibilità, il prestigio dell’opinione tende a destrutturarsi in maniera irreversibile ed è così che il contemporaneo endorsement di New York Times, New Yorker e The Atlantic a favore di Hillary Clinton, inedito nella storia elettorale USA e che sino a soli 10 anni fa, in un’era presocialmedia, avrebbe sancito quasi certamente un passaggio cruciale della corsa alla Casa Bianca, è stato oggi assorbito dalla controrisposta mediatica di voci molto meno prestigiose, spesso non giornalistiche, ma che in un meccanismo di costruzione di consenso ormai del tutto sganciato dalle ideologie politiche e ridotto a una conversazione barbara e animale sul nostro futuro individuale, riesce nell’intento di affogare l’opinione intellettuale e di mettere in dubbio l’informazione giornalistica più alta e autorevole.
In questo senso uno dei momenti cruciali nella corsa di Trump verso Washington è legato al reclutamento della testata news Breitbart fra i suoi sostenitori. Poco conosciuta fuori dai confini statunitensi, ma molto influente sul territorio interno, Breitbart è un network con quasi 3 milioni di followers facebook e un traffico mensile di 37 milioni di visitatori. Di smaccate tendenze conservatrici, Breitbart negli anni si è distinta per una serie di scoop scandalistici a sfondo sessuale e per un mix di intrattenimento (grande spazio per notizie rapide di sport e spettacolo) e impegno politico a sostegno del partito repubblicano fomentato da titoli sensazionalistici, ma da nessun genere di serio approfondimento. Dall’aprile 2015 a oggi Breitbart si è imposto come voce dirompente nella corsa presidenziale statunitense e grazie all’appoggio economico di Trump la sua sezione news, il cui decoro giornalistico è più o meno pari a zero, è riuscita a posizionarsi in chiave mainstream per milioni di americani, riuscendo a battagliare dal punto di vista tematico con giganti del giornalismo americano classico come Washington Post e CNN. Ovviamente Breitbart è il network più citato dalla campagna elettorale di Trump e sul sito ufficiale del nuovo presidente USA, donaldjtrump.com. Ma cosa sarebbe Breitbart senza i social media? Quasi certamente un’ininfluente magazine online seguito da qualche migliaia di lettori già politicamente collocati. Cos’è invece oggi? Una macchina infernale in grado di spostare milioni di voti indecisi attraverso un’informazione parziale e superficiale, che con strategia e soprattutto molto denaro è in grado di occupare lo stesso spazio social a disposizione di testate ben più serie. E soprattutto, per un grande numero di elettori, la medesima credibilità.
È attraverso questo meccanismo di comunicazione, di cui Breitbart è chiaramente solo un piccolo ingranaggio, che Trump è riuscito in un’impresa incredibile, quella di vincere da solo battagliando con il mondo intero. Ha avuto contro chiunque, da Bruce Springsteen a Noam Chomsky, passando per George W. Bush, la quasi totalità delle più prestigiose testate giornalistiche mondiali, Angela Merkel, Papa Francesco e qualsiasi personaggio con un minimo di credibilità pubblica possa venire in mente, compreso l’establishment del suo partito, che a parte alcuni casi sparuti non lo ha mai sostenuto, e lo ha anzi isolato. Eppure, Donald J. Trump ha vinto lo stesso.
Una stanza. Due persone discutono di quale sia la merendina più buona da mangiare a colazione. Uno dei due dice “la crostatina alla marmellata biologica” e argomenta in maniera precisa rispetto alle qualità degli ingredienti utilizzati durante il processo di produzione, al bilanciamento del contenuto calorico, alla sostenibilità del packaging. L’altro invece sostiene il tegolino e dice soltanto “fanculo tu e la tua schifezza biologica, la mia merendina ha molto più cioccolato e tu devi essere per forza un ritardato per continuare a mangiare quella merda da froci e femminucce”. Ecco, la crostatina alla marmellata rappresenta la politica come la conoscevamo una volta, quella in cui gli elettori vanno rassicurati con la competenza delle informazioni. Il tegolino invece è Trump, il populismo contemporaneo e un sistema sociopolitico fondato sulla brutalità ideologica. Sino a 10 anni fa non avremmo avuto dubbi su quale delle due posizioni l’opinione pubblica avrebbe appoggiato, ma oggi no, oggi l’elezione di Trump dimostra come le logiche di costruzione del consenso siano ormai definitivamente sganciate dal politically correct convenzionale e ideologico e rispondano piuttosto a violente dinamiche di classe, completamente destrutturate di senso politico e il cui unico veicolo di definizione è ancorato al drammatico timore di poter perdere il proprio status socioeconomico all’interno di un sistema al collasso.
In realtà il procedimento di convinzione degli elettori punta su un elemento classico, la paura, ma con strumenti di comunicazione molto più fluidi rispetto al passato e con uno svuotamento complessivo del senso del messaggio dal punto di vista della fruizione pubblica, mentre ideologicamente lo strato politico della piattaforma rimane molto solido ed evidente, per quanto incomprensibile per l’elettore medio di Trump e in generale per lo spettatore puro della campagna.
Trump è un fascista e il suo populismo si innesta perfettamente in una cornice politica che vede soffiare in tutto il mondo occidentale il vento dei nazionalismi conservatori, agitati da una crisi economica strutturale che sancisce il fallimento del modello di sviluppo capitalista e riduce l’essere umano, isolato in un individualismo esasperato e frutto proprio dei meccanismi di crescita oggi distrutti, ad una bestia impaurita il cui unico interesse è quello di difendere il proprio recinto di misere conquiste economiche.
È in questo solco che si fanno strada Marine Le Pen e il Front National in Francia, Nigel Farage e l’Ukip nel Regno Unito, Grillo e Salvini in Italia, Orban in Ungheria, Frauke Petry e l’AFD in Germania, tutte realtà politiche le cui differenti basi ideologiche di partenza si amalgamano in un ensemble concettuale che condivide una serie ben precisa di idee e parole d’ordine: pugno duro contro immigrazione e minoranze, limitazione del libero scambio commerciale, sovranità nazionale, giustizialismo, aumento della capacità militare. Tutte posizioni che tendono a un passaggio di chiusura verso l’esterno, come quando hai paura dei ladri e metti le sbarre alle finestre. Non ci pensi, che ti stai costruendo un carcere e non una casa in cui vivere: l’importante è avere la sensazione di stare al sicuro. Si tratta di forze che hanno anche un’altra cosa in comune fra loro e con Donald Trump: parlano alla gente in un modo in cui non si è mai fatto. Dicono cose scorrette e razziste, infischiandosene dei modelli politici di riferimento il cui elettorato non esiste più e puntando tutto sulla maggioranza etnica del panel definito come obiettivo. Donald Trump è riuscito a farsi eleggere presidente degli Stati Uniti d’America individuando il suo target nei maschi bianchi con un basso livello di istruzione ed una condizione economica media, insultando praticamente qualsiasi altra categoria ed infarcendo di volgarità razziste di ogni genere il suo discorso politico. Sembra incredibile, ma ha funzionato.
A margine di quest’analisi generale e in chiusura presentiamo ora alcuni fatti specifici che pare importante sottolineare rispetto all’elezione di Donald J.Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
– Donald Trump ha ricevuto nella corsa presidenziale l’appoggio di governi storicamente nemici dell’amministrazione statunitense e le cui nuove relazioni con gli USA potrebbero ridefinire numerosi equilibri geopolitici mondiali. Fra questi: Russia, Corea del Nord, India, Egitto.
– Hillary Clinton ha raccolto 59,923,027 di voti, circa 300,000 in più di Trump e pari al 47,7% dei votanti. Per il sistema dei grandi elettori previsto dall’ordinamento elettorale statunitense ha però conquistato 70 seggi in meno del suo sfidante.
– L’affluenza alle urne è stata di circa 120 milioni di elettori, appena il 50% degli aventi diritto e di 6 milioni inferiore rispetto alle elezioni del 2012 e alle precedenti del 2008. Secondo le statistiche rilasciate dal mensile americano Politico, ad astenersi dal voto sono stati principalmente neri e ispano-americani, che nella precedente tornata elettorale erano stati avvicinati dalla candidatura di Barack Obama alla partecipazione politica e che Hillary Clinton non è invece riuscita a mobilitare.
– Donald Trump ha più volte dichiarato che nel suo primo giorno alla Casa Bianca darà seguito immediato ai seguenti punti della sua agenda politica:
Far partire l’iter congressuale necessario a cancellare Obamacare, la riforma del sistema sanitario fortemente voluta dal presidente democratico Barack Obama e che ha permesso di garantire la copertura medica a 22 milioni di cittadini americani in difficoltà economiche.
Eliminare le “gun-free zones” istituite dalla presidenza Obama, ad esempio nelle scuole e in alcune strutture di addestramento militare. Secondo Trump ogni americano deve avere il diritto di poter portare con sé la propria arma ovunque e in qualsiasi momento. Inoltre, Trump revocherà durante il primo giorno di presidenza le limitazioni di legge che al momento regolano la vendita di armi in merito a modelli e quantità: ogni cittadino statunitense potrà acquistare armi di ogni genere e nella quantità desiderata.
Bloccare la ratificazione della Trans-Pacific Partnership, un trattato di regolamentazione commerciale e libero scambio fra 12 paesi dell’area pacifica e asiatica.
Revocare le politiche di accoglienza e asilo politico per i profughi siriani.
Firmare l’atto di deportazione per 2 milioni di stranieri presenti sul territorio americano, “durante la prima ora di presidenza”. Cancellare i visti di tutti i cittadini dei paesi che non acconsentiranno ad accogliere gli individui deportati dagli Stati Uniti.
Dare mandato per la costruzione di un muro lungo tutta la linea di frontiera che corre fra Stati Uniti e Messico.
Rinegoziare il Nafta, North American Free Trade Agreement, il trattato di libero scambio commerciale attivo fra Stati Uniti, Canada e Messico dal gennaio 1994.
Ritirare il supporto economico al Programma per il Cambiamento Climatico portato avanti dalle Nazioni Unite e reinvestire le risorse per la ristrutturazione della rete idrica federale.
Infine, questi sono alcuni dei poteri che Donald Trump, in qualità di presidente degli Stati Uniti d’America, potrà esercitare individualmente e senza la necessità di un passaggio decisionale attraverso organi politici e legislativi:
– Ordinare l’esecuzione segreta di un individuo senza il bisogno di un percorso giudiziario
– Ordinare la detenzione indefinita di un individuo anche in assenza di accuse o condanne
– Ordinare la sorveglianza di milioni di cittadini americani
– Ordinare l’esecuzione attraverso l’utilizzo di droni di un individuo, mantenendo il segreto assoluto sull’identità dell’obiettivo
– Ordinare la tortura di un individuo senza il bisogno di un ordine giudiziario
– Lanciare un attacco nucleare
Buona fortuna.
REDAZIONE
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