Se oggi faccio un salto di astrazione e immagino la Terra vista da fuori, l’associo per certo a un pianeta molle. Una palla che degenera lentamente, frana, implode. Un po’ come le anime degli uomini che la abitano e che le infliggono quotidianamente una tortura.
Ben venga allora questa domenica mattina al Naturkundemuseum, dove, per qualche ora, si può guardare alla Terra con occhi altri e con una diversa prospettiva.
Qui l’immaginazione si figura dapprima zolle gigantesche; poi pietre dischiudersi da altre pietre.
Quarzi su cui l’oro s’intarsia, malachiti che paiono cactus senza spine e mesoliti che sbocciano come un fiore di cristalli purissimi.
Ma qui, per “viaggiare”, non sono necessari artifici.
Basta pronunciare il tempo ad alta voce: 65 milioni di anni fa. Come una formula capace di schiudere un varco in un’era lontanissima, dove nulla conta se non le lente trasformazioni geologiche: là è il big bang, là sono i pianeti, là il mare e la vita che appare.
Questa terra giovane – oggi vecchissima – è abitata solo da animali.
I loro scheletri sono esposti sin dalla hall del Museo, quando, con un lento reclinare del collo all’indietro, si cerca dapprima la testa, il muso di un Brachiosaurus Brancai. E non uno qualunque.
Con i suoi 13,27 metri di altezza e un Guinness dei Primati orgogliosamente esibito, al Naturkundemuseum è esposto il più altro scheletro mai ricostruito di questo dinosauro vissuto durante l’era Giurassica.
Qui persino i termini con cui ci si riferisce alla storia assumono una sfumatura leggera, che dischiude fantasie infantili e cinematografiche.
E così, senza neanche accorgersene, ci si è già abbandonati a una nuova curiosità.
Si fa allora come i bambini: si vorrebbe conoscere tutto.
Si sappia allora che il Brachiosaurus aveva un cuore enorme: 400 kg.
Vegano per natura, con il suo collo lunghissimo raggiungeva e triturava foglie di piante incredibilmente rigogliose, e lo faceva con movimenti simili a quelli che oggi facciamo noi masticando il chewingum.
«Vieni, vieni», sembra intanto dire il guardiano all’ingresso. «Vedi? Non c’è niente da temere». Invece, proseguendo nel percorso, ci sarà presto da scordarsi del cuore grande e mite di quel Brachiosauros.
Inoltrandosi si assiste allo spettacolo delle specie animali del mondo, mummificate, esposte alla curiosità scientifica e fissate in un’espressione agghiacciata.
Come quel leopardo lassù, che ha negli occhi ancora lo sguardo triste della morte e intanto si arrampica fintamente, in eterno, su un ceppo di legno.
Se hai coraggio, poi, entra là dentro. Sì, là, in quella stanza dove i bambini familiarizzano e s’intrattengono per la prima volta con certi tipi di sentimenti: diffidenza, paura, davanti a qualcosa di sgradevole e perturbante.
La chiamano la “collezione umida”.
Dietro un cubo trasparente, stanno scaffali e mensole su cui poggiano centinaia di provette di vetro che contengono insetti, rettili, creature marine di tutto il mondo. Asfissiate nell’alcool, le bestie sono contratte in smorfie che generano in chi guarda un sentimento che è del grottesco e del terribile insieme. Eppure, destinato a generare anche compassione.
Ma i bambini di queste sfumature del sentire ancora non sanno niente. Semplicemente pensano: ci vuole coraggio.
E se prima rasentavano il muro, ora si avvicinano al vetro.
Ma adesso basta.
Anche se il pesce martello ha già l’aria di insegnare che la vita è amara, più si va avanti e più ci si rende conto che non è per questo che siamo qui. Tutti vogliono vedere Tristan, il temibile Tyrranus Rex. L’Allosaurus fragilis – cacciatore efficiente, nato per uccidere e con una mascella ribattezzata “della morte” – già ci introduce in quello stato ferale che, addentrandosi nel museo e nelle linee evolutive della storia, regna un po’ ovunque.
Spine, dapprima.
Alcune larghe come le pale di un remo e altre aguzze, pronte a conficcarsi nella carne all’occasione. E poi denti. Affilati e grandi quanto il braccio di un bambino, che affondano nel collo della preda ferendola a morte.
Sogno atroce è quello di perderli e frantumarli: denti che si spezzano e cadono.
Ma non qui. Incastonati in questo cranio, nudo come un ginocchio, e per vedere il quale siamo tutti qui riuniti, i denti sono solidi e forti.
Sembrano fatti di pietra, come la pietra grezza e lavica di cui è composta la Terra prima di ribollire e muoversi. Una Terra che ora indietreggia nel tempo e ci parla dalla nota più bassa del suo diapason.
Tutti hanno paura di qualcosa, nella notte scura dei tempi.
Anche di quello stato di ferocia acquattato nella fantasia, quando è intenta a ricreare l’immagine del mondo dal quale, pure, proveniamo.
REDAZIONE
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