Abbiamo tutti notato come l’informazione sulla strage di Berlino si sia velocemente persa in narrazioni che hanno esasperato l’emotività e spesso dimenticato la necessità del lavoro giornalistico. Un lavoro il cui compito sarebbe quello di applicare un’inquieta lucidità che ponga questioni durature, vale a dire questioni che non siano destinate a essere letteralmente consumate in qualche giorno.
Se vogliamo scrivere di orribili attacchi terroristici e di sanguinosi scontri geopolitici, allora dobbiamo fare uno sforzo di consapevolezza. Dobbiamo cercare di evitare di consegnare un tema come il terrorismo alle dinamiche dell’infotainment e al conseguente flame di pornografia delle emozioni che finisce per spettacolarizzare sbrigativamente il lutto.
Se questi tempi feroci e confusi ci stanno insegnando qualcosa è che il lutto non dev’essere l’oggetto primario dello stesso giornalismo, il lutto deve essere il motivo che esige un lavoro giornalistico. La differenza è cruciale e lo sarà sempre di più.
C’è chi pensa che un buon giornalista pianga ma non lo dice, mentre un giornalista scarso è quello che non si prende nemmeno il tempo di piangere, ma racconta le proprie lacrime.
La differenza reale non è così netta, ma il senso della contrapposizione è chiaro.
Le risposte dell’informazione in caso di attacchi terroristici sono fondamentali per capire il nostro stesso rapporto con le perverse dinamiche del terrorismo come strumento di pressione militare, finanziaria e geopolitica.
Il terrorismo non avrebbe una tale rilevanza militare se non si nutrisse di comunicazione e copertura mediatica. Interrogarsi sul ruolo dell’informazione in questo scenario dev’essere quindi un esercizio quotidiano.
Siamo soliti credere che la sola reazione emotiva a cui puntino azioni di terrore sia un innalzamento del livello d’odio tra due parti opposte. Questo è certamente vero e rientra molto probabilmente nella strategia immediata di molti gruppi fondamentalisti.
Ma il meccanismo strutturale del terrorismo nell’era dell’informazione totale, se considerato al di là dei suoi strumenti ideologici più immediati, è oggi ancora più ampio.
Per alzare odio e conflittualità non c’è nemmeno bisogno di indirizzare la società verso una specifica polarizzazione, è sufficiente che sia l’emotività a prendere il sopravvento, è sufficiente che a dominare la società siano i fantasmi meno lucidi e le suggestioni più superficiali.
Alla meccanica del terrorismo fondamentalista va bene qualunque tipo di reazione, anche quella distrattamente tollerante. L’importante è che le risposte rimangano emozionali, generalizzate, narrativamente consumabili ma mai psicologicamente convincenti.
La sola circostanza di cui abbia bisogno il terrorismo è che tutto si mantenga sul piano delle retoriche più banalizzanti, poco importa se negative o positive, perché sono queste le retoriche incapaci di reggere la paura e lo shock.
L’infotainment, qui sta il problema, non affronta lo shock. Anzi, ne subisce il messaggio. L’infotainment non impatta la realtà del terrore, ne descrive solo la propagazione narrativa, diventando tanto spettacolare quanto inefficace. L’infotainment produce narrazioni in linea con alcuni elementi dell’immaginario comune, narrazioni che tutti consumano, ma in cui non crede autenticamente quasi nessuno. Narrazioni pronte a sciogliersi come neve al sole di fronte alla provocazione della paura, mutando così in rabbia cieca o spavento rassegnato.
Ambizione del giornalismo, invece, sarebbe indagare nelle loro specificità il terrorismo e la violenza (geo)politica che ci sono sempre più vicine, in modo che il terrore venga disarmato del proprio messaggio mediatico e affrontato per quello che è: uno specifico fenomeno di guerra non convenzionale, da conoscere senza semplificazioni e da affrontare coscientemente, nei suoi aspetti psico-sociali, tattici, geopolitici e finanziari.
Abbiamo bisogno di meno retorica narrativa e di più interrogativi strategici.
Perché niente sarà facile. Perché non stiamo scrivendo di un film d’azione, non stiamo sviluppando sceneggiature cinematografiche, non stiamo osservando l’intreccio di una serie tv.
Stiamo scrivendo della ferocia di un mondo attuale, attualissimo. Stiamo scrivendo di noi, gettati nel presente. Qui e ora.
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