Partiamo dal principio, che in questo caso non è il verbo, ma l’aggettivo.
‘Fico’, secondo la Treccani: ‘(anche figo) agg. [uso gergale di fico2, forse con riferimento furbesco al femm. fica] (pl. m. -chi e -ghi). – Nel linguaggio giovanile, di persona abile, astuta, che si fa ammirare per qualche sua particolare capacità, o anche elegante, di bella presenza: quanto sei fico!; è un ragazzo veramente fico!; anche come s. m.: il tuo amico è proprio un fico (al femm. assume un altro significato: v. fica); meno com., riferito a cosa o a situazione, avvenimento: è il film più fico dell’anno!; domani si va al mare, che fico! ◆ È usato anche al femm., e nei dim. fichétto, fichino (o fighétto, fighino), riferiti soprattutto, come sost., a ragazzo frivolo, che ostenta abbigliamento e atteggiamenti legati alla moda.’
‘Cool’ secondo l’Oxford Dictionary ha quattro significati principali. Quello legato alla temperatura: fresco, rinfrescante. Quello di quando viene usato come esclamazione per esprimere di essere d’accordo. Quello legato al comportamento: che non mostra entusiasmo per un’idea o un progetto, che non si mostra amichevole verso una persona. O anche, libero da ansia, eccitazione o eccessiva emotività. Infine quello legato all’apparenza: alla moda, attraente.
‘Cool’ esiste anche come sostantivo.
‘Figaggine’ nel dizionario italiano non c’è.
Assodato il fatto che ‘figo’ è il lemma italiano che più si avvicina a quello inglese, ammettiamo che non è esattamente la stessa cosa. Perché nella variante mediterranea manca quel concetto di freddezza e compostezza pervasivo invece nel vocabolo anglosassone. Concetto che è sostituito da un’idea di furbizia e scaltrezza. Chiamatela, se volete, specificità culturale.
Cool rappresenta un desiderio di distanziamento dall’autorità, genitoriale, statale, eccetera, attraverso il disinteressamento piuttosto che la ribellione. Il suo mezzo di espressione è l’ironia.
Non riuscivo a rivolgerle la parola. Non soffro di questi problemi in genere, sono socievole, chiacchiero, piaccio alla gente. Ma con lei niente. Andavamo alla stessa università, io musicologia, lei scienza del teatro. Eravamo un po’ cliché. Io con i capelli lunghi e spettinati, lei con i dolcevita neri. La vedevo sempre, in mensa, per i corridoi, all’ingresso, spesso sola, sempre bella. Non credo di averle mai visto i denti, quando sorrideva lo faceva a bocca chiusa. Avevo sentito dire che venisse dalla Sicilia, che si fosse trasferita a Bologna prima di finire la scuola, che vivesse da sola. Io a Bologna c’ero nato e cresciuto ed in Sicilia non c’ero mai stato.
Arrivò il giorno dell’assemblea studentesca, in aula magna. Lei era seduta tra le prime file, spostata sulla destra. Io poco dietro, a fissarle la nuca e chiedendomi se fosse ancora più bianca del suo viso, visto che era sempre coperta.
‘Vuoi una ciotola?’ mi chiese Alberta.
‘Che cosa?’ dissi io.
‘Per la bava,’ disse, mi piantò un gomito tra le costole poi mi chiese perché non ci andassi a parlare.
Non ci andavo a parlare perché quella sua mascella sempre tesa mi metteva a disagio. Non ci andavo a parlare perché le venuzze azzurre delle sue occhiaia formavano cartografie ipnotiche.
Non ci andavo a parlare perché aveva l’aria di non avere un gran senso dell’umorismo.
Non ci andavo a parlare perché era algida, altera e sicuramente più intelligente della media. Non ci andavo a parlare perché era un mistero che mi attraeva con la stessa forza di un buco nero.
Era circondata da tre persone, lei diceva cose e muoveva una mano ossuta con scatti rigidi, come se stesse affettando cipolle immaginarie. Mi avvicinai e lei si zittì, incrociò le braccia sul petto e sorrise quel suo sorriso senza denti, ma non disse niente. Mi guardava con quegli occhi neri collosi, spalancati. Più passavano i secondi e più si spalancavano, come se l’attesa li stesse facendo gonfiare, come se sarebbero esplosi se l’avessi fatta aspettare troppo a lungo. Anche gli altri si erano zittiti e mi guardavano, impazienti di continuare la loro conversazione. Non mi ero preparato una battuta, ve l’ho detto, di solito non ho di queste impasse, sono un tipo spontaneo. Lei spostò il peso da una gamba all’altra, mi venne il terrore che stesse per andarsene.
‘Avevo capito che oggi era cineforum,’ dissi prima di riuscire a bloccarmi. Nessuno si mosse. Tranne lei, che si portò una mano alla bocca ed emise un risolino come il cinguettio di un pettirosso. Nessuno rispose. Io continuai dicendo cose che in fin dei conti non avevano molto senso. Lei sembrava non riuscire a smettere di ridere. La mano ora se la stava premendo contro le guance gonfie di risate, eppure non mi sembrava di essere così divertente. Infatti gli altri erano immobili. Smisi di parlare, lei emise un sospiro e si sventolò gli occhi che nel frattempo si erano annacquati. Mi tese la stessa mano e mi disse: ‘Piacere Marica.’
I membri delle avanguardie artistiche del primo novecento, Duchamp, Brecht, Gadda erano i cool kids pre-consumismo. Dandy e flâneur come Wilde e Benjamin, sempre cool. Cool esiste da millenni.
Ora parliamo di questo cool. I significati che ci interessano sono quelli che implicano un atteggiamento e un modo di apparire, ma il concetto di cool ha talmente tante implicazioni, nell’arte, nella moda, nel commercio, nelle relazioni sociali, che bisogna limitare ancora il campo.
Cool psicologicamente parlando.
È un modo di essere e fare, soprattutto giovanile, caratterizzato da tre tratti fondamentali: narcisismo, distacco ironico ed edonismo.
Nell’era dei selfie, la parola narcisismo è stata abusata e caricata di significato negativo, connotando allo stesso tempo una piaga sociale e una disturbo mentale. Qui viene intesa nella sua accezione più moderata di ‘ Atteggiamento che tende a esaurire la personalità nella esclusiva considerazione ed esaltazione di sé stesso.’
Cool rappresenta un desiderio di distanziamento dall’autorità, genitoriale, statale, eccetera, attraverso il disinteressamento piuttosto che la ribellione. Il suo mezzo di espressione è l’ironia.
Si manifesta in una ricerca del piacere immediato e de-responsabilizzato, spesso tramite sesso occasionale ed assunzione di sostanze.
Ha due principali cause, una di natura soggettiva e una di natura collettiva.
Parlando di società occidentale contemporanea, possiamo affermare che viviamo in un momento di grande incertezza, le relazioni interpersonali sono più complicate in quanto la struttura familiare è cambiata e il senso di comunità diminuito a favore di una maggiore autonomia individuale. Il mondo del lavoro è diventato precario o freelance. Internet e social media ci danno la possibilità di controllare costantemente cosa succede in altre parti del mondo ad altre persone, portandoci a continui paragoni. Innegabilmente questi fattori concorrono a causare una certa quantità di ansia esistenziale nei Millenials. Nonostante tutte le premesse siano cambiate, le aspettative sono rimaste le stesse. Per essere considerati una persona di successo è necessario assicurarsi un lavoro stabile, creare una famiglia e vivere armoniosamente integrati nella società.
Comportarsi in maniera cool asserisce una non-partecipazione ai valori condivisi dai più. Implica un tirarsi fuori dalla competizione e conseguentemente un essere esente dalla valutazione binaria di ‘arrivato’ o ‘fallito’. Cool eleva al di sopra dell’adattato e del disadattato.
A livello più intimo può nascere come scudo per una bassa autostima, un rimedio contro una depressione indotta dalle condizioni menzionate precedentemente, un appiglio in un momento in cui tutto sembra essere in perpetuo cambiamento.
Cool è un meccanismo di sopravvivenza alla pressione e alla competizione esacerbata dal capitalismo post- industriale.
Dylan McKay, Beverly Hills 90210. Non c’é bisogno di dire altro.
Cool storicamente parlando.
Per quanto ci si aspetti che cool sia un prodotto della società americana dei Levi’s e dei Ray Ban, non lo è, o almeno, non è cominciato lì.
Lo storico Robert Farris Thompson suggerisce nei suoi scritti ‘African Art in Motion’ and ‘Flesh of the Spirit’ che l’idea di cool fosse presente nella religione animista della popolazione Yoruba in Africa occidentale. La compostezza era, insieme al comando e al carattere, uno dei tre fondamenti della filosofia religiosa Yoruba. Questi ideali erano condivisi da altre popolazioni africane come quella Bantu e quella Tsonga, in cui ciò che è cool è considerato buono e desiderabile- si può comunicare con gli dei solo se non surriscaldati da eccessive emozioni. Secondo Thompson questi precetti sono approdati nelle Americhe con la schiavitù. Accogliendo questa tesi Richard Majors and Janet Mancini Billson ipotizzano in ‘Cool Pose’ che il mostrarsi indifferente fosse un meccanismo di difesa adottato da schiavi ed ex schiavi afroamericani per tutelare il proprio orgoglio e autostima dall’odio razziale e dalle discriminazioni. Salpato dall’Africa come dettame religioso, una volta sbarcato nel Nuovo Continente si è evoluto in una resistenza passiva ai soprusi schiavisti attraverso uno stile personale. Di cool è intriso il jazz e il blues degli anni ’20 fino agli anni ’40, anche la poesia degli anni ’60. Leggete questa, è di Gwendolyn Brooks, prima poetessa afro-americana ad aver vinto il premio Pulitzer.
We real cool
THE POOL PLAYERS.
SEVEN AT THE GOLDEN SHOVEL.
We real cool. We
Left school. We
Lurk late. We
Strike straight. We
Sing sin. We
Thin gin. We
Jazz June. We
Die soon.
Ma dagli anni ’50, con l’arrivo di Elvis sui palchi americani, il cool made in U.S.A. è cominciato a diventare un fenomeno anche bianco.
Per quanto riguarda il Vecchio di continente, cool non è un bene di importazione. In tempi remoti ne abbiamo avuto le nostre versioni. La più antica è probabilmente rappresentata in ‘Il Libro del Cortegiano’ (1524) di Baldassarre Castiglione, in cui l’autore descrive l’atteggiamento ideale del cortigiano come una forma di ‘sprezzatura’: ovvero dissimulare l’artificio e lo sforzo con i quali si è ottenuti eccellenti risultati. Fingere spontaneità quando si era calcolato ogni minimo movimento.
I membri delle avanguardie artistiche del primo novecento, Duchamp, Brecht, Gadda erano i cool kids pre-consumismo. Dandy e flâneur come Wilde e Benjamin, sempre cool. Cool esiste da millenni.
Quando lo vidi avvicinarsi pensai che si stesse dirigendo verso il gruppo dietro di noi, le ragazze di arti visive. Camminava baldanzoso e benché non ci fosse un filo d’aria i suoi capelli si muovevano come quelli dei modelli in posa davanti ad un ventilatore. Si fermò davanti a noi, forse voleva dire qualcosa a Clara. Invece fissò lo sguardo nel mio e io smisi di parlare. Aveva dei begli occhi, lacustri. Disse qualcosa di buffo, vagamente goffo, poi sorrise. Sapevo che era un tipo spigliato, divertente. L’avevo visto per i corridoi sempre attorniato da gente. Un giovane showman, magnetico. Gli si formarono delle rughe d’espressione intorno agli occhi e ai lati della bocca che nonostante fossero forse il preambolo di rughe lo facevano sembrare un bambino. Mi ritrovai a pensare che da vecchio sarebbe diventato ancora più attraente. Mi venne da ridere, una risata nervosa, dettata dall’imbarazzo di trovarmelo di fronte, dalla sorpresa che si stesse rivolgendo proprio a me. Sciolsi le braccia dalla loro posizione conserta. Averlo a pochi centimetri di distanza lo rendeva umano, tangibile. Non più un’immagine di perfezione e disinvoltura da ammirare in lontananza. Un ragazzo a cui tendere la mano, che quando me la strinse era caldo, e vivo.
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