Alle 17:30 esco di casa per incontrami con Eleonora a Eberswalderstraße e, visto che sono abbondantemente in anticipo sull’orario concordato, mi avvio a recuperare i biglietti mentre aspetto che lei arrivi. Mi presento alla cassa del teatro, dico di essere di Yanez Magazine e do il mio nome. La ragazza al botteghino cerca un po’, controlla dei fogli che sembrano delle liste, ma non trova il mio nome da nessuna parte. Le dico che dovrebbe esserci e, sentendomi a disagio, che non so come mai lei non mi trovi. Mi risponde che non è un problema e mi chiede se voglio scrivere sullo spettacolo. Io la guardo un po’ stupita: certo che voglio scriverne in un articolo. Poi le dico che saremo in due, allora lei ci segna su una lista e stacca i due biglietti ingresso libero pattuiti con la redazione. Mi sento un po’ come quelle persone che, mostrando un tesserino, vogliono scroccare un ingresso gratuito anche se non ne hanno il diritto. Le ho sempre odiate queste situazioni.
Torno alla U-Bahn sotto una pioggerellina insistente, poco entusiasta di dovermi sorbire sei ore di teatro. Stasera praticheremo infatti il binge watching: lo “sport” che consiste nell’abbuffarsi di spettacoli televisivi, ma nel nostro caso declinato in chiave teatrale. Guarderemo tutte e tre le parti di uno spettacolo ispirato liberamente alle opere dei fratelli Arkadij e Boris Strugatzki, due autori russi di opere fantascientifiche. La compagnia che le inscena è das Helmi Puppet Theatre. Mi convinco che, tutto sommato, sarà un’esperienza come le tante che ho vissuto i primi anni a Berlino, quando tutto mi stupiva e i posti che frequentavo erano incredibili agli occhi di una ragazzina proveniente da un piccolo paese di provincia. Non devo fare la snob, penso.
Recuperata la mia amica e provveduto a rifocillarla con il cibo arabo che lei adora e senza il quale non resisterebbe neanche due ore, entriamo nel teatro. La Ballhaus Ost ha vissuto tempi decisamente migliori ed è un miracolo che esista ancora in un quartiere come Prenzlauer Berg, dove tutto è stato gentrificato e spazzato via da appartamenti di lusso. Costruita nel 1907 e utilizzata come centro di incontro per i membri della Freireligiösen Gemeinde Berlin, una comunità religiosa libera, dal 2006 è diventata teatro per progetti sperimentali di artisti poco conosciuti, dando la possibilità a compagnie senza i necessari mezzi economici, di andare in scena tramite la sponsorizzazione pubblica del posto.
Saliamo al primo piano dove troviamo il bar e, subito dietro, la balconata dalla quale ci si affaccia sulla sala principale, al piano terra. In attesa dell’inizio del primo pezzo, ci accomodiamo nelle vecchie poltrone un po’ sfasciate, accostate alle pareti e separate da tavolini bassi.
Le performance che vedremo, invece, verranno eseguite al quarto piano, in una stanza fatiscente, lungo il perimetro della quale sono distribuiti oggetti di qualsiasi tipo: bottiglie di Pfand, sedie rotte, cavi sparsi e lampade attaccate a prese, prolunghe e doppie prese ai limiti del legale. Da un lato, la tribuna è un palco con grossi scaloni, dove ogni fila è coperta con dei cuscini: in prima fila sono già seduti due bambini, noi scegliamo di sederci in fondo, dove sono state sistemate delle sedie con lo schienale, a nostro avviso più comode.
Calano le luci e un uomo calvo e non particolarmente alto, che scoprirò essere Burkart Ellinghaus, il tecnico delle luci e del suono, saluta: “Herzlich Willkommski!”, una variante russa del tedesco benvenuti, poi comincia a suonare la chitarra elettrica. Due intermezzi in tedesco ci raccontano che siamo a Berlino nel 3017 e il mondo non è così come lo conosciamo oggi. Quattro uomini escono da dietro le quinte strisciando come animali: sono vestiti in grigio e hanno una maschera da saldatore. Uno comincia a tagliare una mela, un altro apre una bottiglia di Sekt, un terzo cerca di accendere un fuoco con due bastoncini di legno, ci gira per un momento le spalle e tira fuori un iPad col fuoco acceso. Improvvisamente un telefono comincia a squillare ma nessuno si muove, mi chiedo se faccia parte della performance perché è un suono regolare, non troppo alto, che non smette. Gli attori ci indicano e portano pollice e mignolo al viso, mimando il segno del telefono. È chiaro che proviene da dietro l’impalcatura e può solo essere di qualcuno dello staff. Il presentatore si decide a venire a vedere e trova un cellulare dentro un giubbotto appeso da qualche parte a un lato della tribuna. Gli attori si tolgono quindi le protezioni da saldatori mostrando una maschera grigia e bianca che gli copre quasi tutta la faccia fino al labbro superiore.
Il dialogo adesso è in inglese. Quello che ha tagliato la mela ora ce la offre, tutti apprezzano ma noi rifiutiamo. Dico a Eleonora che preferirei il prosecco e qualche minuto dopo il mio desiderio viene esaudito: ho un bicchiere in mano che viene riempito a metà. Uno degli attori mi ricorda moltissimo un vecchio coinquilino che ai tempi mi ha dato parecchio sui nervi e non riesco a smettere di fissarlo un po’ infastidita.
In scena si susseguono dialoghi che a noi sembrano senza senso e che culminano in una canzone nella quale tutti urlano parole in tedesco: Bratwurst! Bratwurst! Hexenschuss! Bratwurst! Scheiße! Immer wieder!
Al termine gli attori si levano la maschera e cominciano a litigare in tedesco sulla pessima performance l’uno dell’altro.
Finita la prima parte, intitolata Ja Ja Land, durata più o meno tre quarti d’ora, Burkart Ellinghaus ci informa che al bar c’è un buffet libero e che nel secondo pezzo ci sarà un’attrice ospite. Scendiamo giù, io mi sento in dovere di ordinare da bere, vista la gratuità sia della performance che del buffet. Ordino un Weißweinschorle, vino bianco ed acqua frizzante, mentre Eleonora decide per una fritz-kola. Chiedo il conto e il barista mi fa: “Pi mal Daumen…” sventolando il pollice (daumen, in tedesco) che serviva ai geometri per fare i calcoli approssimativi sulle distanze moltiplicandolo con il Pi greco. “A lume di naso, 5 euro e 30”. Gli lascio 7 euro, sempre per quel senso di colpa per i biglietti a scrocco, poi per il buffet gratis e anche per la poca gente che c’è stasera.
Ci sediamo quindi al bar ad attendere l’inizio della seconda parte, concordando sul fatto che non ci abbiamo capito molto. La mia accompagnatrice mi chiede dove sia il buffet e le indico due tavolini sui quali ci sono due ciotole con olive e cetrioli, un cestino con del pane nero ancora impacchettato nella plastica, un salame sul tagliere e una confezione lunga mezzo metro di formaggio a fette, aperta e lasciata lì. Questo è il buffet ed Eleonora non riesce a non ridere.
Mentre siamo lì a parlare di teatro e artisti vari, uno degli attori, Felix Loycke, ci avvisa che il secondo pezzo è un po’ in ritardo perché ci sono problemi con le luci. Ci racconta che sarà un po’ più narrativo, ci dà in mano un volantino con la spiegazione e ci chiede cosa vogliamo bere: ci vuole offrire un drink. Rifiutiamo cortesemente. “Ci vogliono pure donare un rene?” Penso io. Nel frattempo tutte le altre persone si sono dileguate e la cassiera ci ha raggiunti al bar. Ci avvisano infine che il secondo pezzo, dal titolo Die dritte Zivilisation, sta per cominciare e risaliamo al quarto piano, rendendoci conto che il pubblico siamo solo noi due e Felix, l’attore che ci ha abbordate al bar. Ci sembra brutto sederci in fondo quando si è solo in due e ci accomodiamo in seconda fila, rendendoci conto ben presto che le sedie con la spalliera, che avevamo occupato all’inizio, erano state un’ottima scelta.
Anche questo pezzo è surreale. Felix ci spiegherà dopo che è la storia di un bebè, unico superstite di una missione su un altro pianeta. Dopo essere stato per 10 anni da solo alla scoperta della galassia viene ritrovato, suscitando una moltitudine di domande esistenziali: come avrà fatto a sopravvivere? Come avrà capito di dover camminare su due piedi?
Quello che vediamo sul palco è Emir Tebatebai che, appena si accorge che siamo solo in due, rimane di stucco, ma prosegue non facendo una piega. Senza maschera non mi ricorda più il mio ex-coinquilino, ma ha comunque un ché di familiare. Seduto su una sedia a rotelle, maneggiando delle stoviglie, accende e spegne luci, mentre fa il suo monologo. Sullo sfondo, delle strane figure si alternano nell’ombra: una specie di bruco colorato alto due metri e delle maschere da marionette di gommapiuma. Questo pezzo è in tedesco, nonostante Brian Morrow, che è di Liverpool, parli solo in inglese. Il protagonista è un ragazzo che non riesce a stare fermo: salta, fa capriole, la spaccata, piange o parla a raffica. Ha un parrucca carré bionda, delle grandi orecchie finte e una tuta aderente tutta nera con attaccato un pisellino in stoffa, sempre nero. Sul palco ne succedono di tutti i colori: uno degli attori continua a impappinarsi, il ragazzo perde un orecchio e tenta invano di rimetterselo, uno degli attori commenta il monologo del ragazzo, dicendo che quel pezzo veniva dopo, Florian Loycke, il fondatore del das Helmi, inciampa nel cavo della chitarra elettrica, ribaltando la stessa insieme all’amplificatore e dovendola riaccordare prima del pezzo successivo.
Insomma uno spettacolo fantascientifico in tutti i sensi: dal testo alla rappresentazione, compresi tutti gli inconvenienti che avvengono in scena.
Ci avvisano che la seconda parte è finita, applaudiamo e subito dopo ci mettiamo a chiacchierare con Burkart Ellinghaus. Si scusa della carenza di pubblico ma, dice, devono competere con la partita di calcio e la chiusura del Volksbühne, pochi chilometri più giù, dove c’è una festa con concerto e sono attese manifestazioni. Gli chiediamo come si mantengono perché siamo stupite che un posto del genere, in un quartiere come questo, riesca ancora ad esistere. Lui ci risponde che l’edificio è privato e i 18 mila euro mensili di affitto sono finanziati dal sindaco di Berlino e dall’ente addetto alla cultura berlinese. La triste verità, sulla quale concordiamo, è che prima o poi il proprietario investirà un paio di milioni per ristrutturare il teatro e probabilmente ci farà i soliti appartamenti lussuosi che vanno tanto di moda di questi tempi.
Scendiamo di nuovo al primo piano chiedendoci se ha senso rimanere in due e costringerli a dare anche la terza parte, Welt am Mittag. Felix ci chiede di nuovo se vogliamo bere qualcosa e che ne pensiamo dello spettacolo. Eleonora non si fa problemi a dirgli che non ci ha capito molto, lui si prodiga in spiegazioni sul pezzo, sul fatto che queste erano quasi le prove generali, che stanno ancora provando. Io gli dico che forse non ha senso che facciano la terza parte solo per noi, ma non ricevo risposta. A questo punto non so più se lo facciano perché sanno che siamo lì per scrivere un articolo o se ci tengano davvero a fare la performance anche senza pubblico. Indecise sul da farsi, ci indicano le due possibilità: possiamo scendere al primo piano per andare in bagno, oppure prendere l’altra porta che è l’uscita. Decidiamo per il bagno. Tornate su troviamo l’intera troupe. Ringraziamo per tutto e io ripeto ancora la mia affermazione, questa volta in inglese visto che uno di loro non sembra parlare tedesco: “It doesn’t really make sense to perform the third part only for us.”
“Well” mi risponde Brian “no, it doesn’t.”
È chiaro che siamo tutti d’accordo nel non voler prolungare questa esperienza tragicomica e così salutiamo, ringraziamo di nuovo e li lasciamo a completare le loro prove generali.
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In copertina un momento dello spettacolo, foto di ©Elisa Barrotta
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