Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS)
Sono immaginati al fine di sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza o nei servizi predisposti dagli enti locali, in caso di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti. Ad oggi costituiscono la modalità ordinaria di accoglienza. Tali strutture sono individuate dalle prefetture, in convenzione con cooperative, associazioni e strutture alberghiere, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici, sentito l’ente locale nel cui territorio la struttura è situata. La permanenza dovrebbe essere limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nelle strutture di seconda accoglienza.
Queste sono piccole storie ridicole, momenti di situazionismo forzato, di pirateria della quotidianità che ci hanno reso anche solo per un attimo splendenti, come se fossimo i pionieri clowneschi di un nuovo mondo che non verrà mai.
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Oggi andiamo a fare le residenze. O, per meglio dire, ad estorcere le residenze. Il comune non le vuole dare, se le tiene strette come l’ultima tartina con i gamberi ad un buffet di un’inaugurazione noiosa.
Cosa succede se poi “questi” escono dall’accoglienza e richiedono il contributo di sostegno economico al comune di residenza? Per questo motivo io all’ufficio anagrafe ci sono già stata diverse volte, a inveire fra i denti sulle sedie di plastica ogni volta che qualcuno entrava senza il numero.
Passiamo alle strategie militari: occupazione del suolo nemico. Arriviamo un’ora prima della chiusura. Siamo in sei. Io e cinque uomini provenienti da varie nazioni dell’Africa Occidentale che sono all’incirca il doppio di me in volume e altezza. Quando entriamo, sorrido all’impiegata come se fossi una timida studentessa che vuole cambiare per la prima volta la residenza da casa di mamma e papà e comincio a raccattare sedie in giro per il corridoio-ufficio, formando una sorta di salotto davanti al suo sportello.
Sulayman si affloscia sulla prima e si torce nel tentativo di rifarsi uno dei suoi dread, ha una sigaretta dietro l’orecchio; Ibrahim si siede vicino al bancone e ci appoggia i gomiti; Tairung invece guarda maliziosamente l’impiegata e le si piazza davanti con la sua maglia “Mi piace la Passerina” presa ad una sagra dell’entroterra (ndr: la Passerina è un noto vino del centro Italia); Alie bofonchia qualcosa in mandinka e ride sotto i baffi, ha una camicia a righe blu e bianche, molto larghe. Joseph è il più compassato: si mette seduto ed inchioda i suoi enormi occhi tristi a quelli allargati dalle lenti spesse dell’impiegata. In lei intuisco una risposta psico-motoria simile a quella che avresti davanti ad un’inondazione nel salotto di casa causata da un’alluvione, avverto l’ancestrale meccanismo istintivo del fight or flight e mi aspetto che abbandoni la postazione con un movimento fulmineo, alla stregua di un roditore che sparisce sottoterra.
Io continuo a sorridere sorniona e poi pronuncio la frase: “Salve, siamo qui per iniziare il processo per la richiesta della residenza”.
Quello che segue sono un’ora e mezza di linguaggi misti, dialetto marchigiano fra l’impiegata e le sue colleghe che cercano di trovare cavilli burocratici per rimbalzarci fuori, mandinka, sarakolè francese, inglese, hausa. Comunicare una serie di informazioni minime diventa più impegnativo che intavolare una discussione su Essere e Tempo di Heidegger.
Dialoghi quali: “Paese di provenienza?” “Mali” “Non la città, la nazione!”, “Com’è che si scrive questo?”, “Ma questo è proprio il tuo nome?”, e tanti altri rendono lo sportello numero sei la nuova attrazione di un Lunedì piuttosto trascurabile all’Ufficio Anagrafe.
La mia strategia è ribattere ad ogni nuova obiezione, godendo sottilmente del panico negli occhi di tutte le impiegate quando il direttore si affaccia furtivamente sulla porta. Mostro decreti legge, smonto razionalmente ogni dichiarazione di presunta impossibilità a registrare delle persone dotate di un documento in corso di validità e che rappresentano la datità della loro presenza nello spazio davanti agli occhi dell’impiegata, ma su cui vengono avanzati dubbi rispetto alla loro effettiva esistenza. Quando ce ne andiamo, nel sollievo generale, tutti stringono la ricevuta di inizio procedura e sono visibilmente contenti, anche se continuano a lamentarsi per la mancanza di un modello alternativo di relazione con la forma di vita operatore sociale.
Risaliamo componendo il solito tetris corporeo nella mia 500 del ’92 (quella a scatoletta), completamente infuocata. Ibrahim scuote la testa e nella sua sua logorrea lamentoso-soddisfatta, mi sfotte: “Viola buy a new car, I would never get into a car like this one in Africa”. Joseph, compassato anche nella soddisfazione, lo invita dunque a scendere dalla macchina e andare a piedi.
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Ore 15.00 – La sala da pranzo è semivuota, si sente l’acciottolio di piatti provenire dalla cucina. Le chiacchiere velenose della cuoca sulla nostra presenza non risparmiano nessuno: utenti, operatori e coordinatore.
Qualcuno sonnecchia sull’unico divano all’ingresso, una serie di teste piegate su smartphone di sottomarche asiatiche emerge sopra i tavoli coperti da tovaglie cerate sulle quali, in controluce, si vedono chiazze oleose.
Francesca scorre svogliatamente una pila di moduli per il rinnovo delle tessere dell’autobus e decide di creare una colonna sonora mettendo video youtube sul suo telefono. La prima canzone che sceglie è “Ma che freddo fa” di Nada, una sua passione che ripropone nelle occasioni più svariate. La canzone parte e lei comincia a canticchiarla, sempre più teatralmente, mentre riempie i moduli con le date di nascita tutte uguali. Keita, un ragazzo di 22 anni della Guinea, le sbircia il telefono. Vede che sotto le immagini di Nada, modificate con photoshop, il testo della canzone scorre a tempo in Comic Sans, come in un karaoke. Fra sé e sé inizia a mormorarlo, per esercitare il suo italiano che in pochi mesi è già molto avanzato. Francesca lo nota e cerca di indirizzarlo melodicamente.
Keita prende coraggio e alza la voce. Mohammed, un ex soldato della Sierra Leone con il viso mite, si unisce timidamente. Poco dopo anche Timothy e Roland, due nigeriani decisamente sopra le righe, si accodano nel ritornello. Nel giro di cinque minuti una decina di persone cantano, con grande impegno e a volume considerevole, “Cos’è la vita, senza l’amore, è solo un albero che foglie più non ha” nella sala da pranzo di un hotel a due stelle abbandonato al proprio destino da tempo. La ghiaia e le sedie di plastica fuori, le tende consumate, il pavimento di piastrelle marroni e un ventilatore stanco in fondo alla stanza. Perché l’aria condizionata è ovviamente un lusso impensabile. Oscilliamo seguendo la melodia melensa nell’afa di Luglio, urlando una canzone del 1969, nel pieno dell’emergenza sbarchi del 2015, in una città balneare i cui turisti distratti in infradito camminano mollemente sul lungomare a pochi metri da noi. La canzone e la scena si ripetono per tre o quattro volte di seguito, con notevoli miglioramenti musicali e di dizione.
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Oggi devo fare un colloquio, alle 14.00. I candidati sono tutti uomini, hanno un’idea molto vaga delle politiche di asilo italiane ed europee e master in discipline inesistenti che li hanno rispediti dritti dritti negli appartamenti dei loro genitori. Io e Francesca facciamo il poliziotto buono e quello cattivo, alternandoci ad ogni candidato. Questo tizio tocca a me: è un uomo di 40 anni, con le spalle incassate e lo sguardo esitante. Io gli spiego che questo lavoro concerne sicuramente l’instaurazione di rapporti di fiducia e collaborazione con gli utenti, ma sopratutto la strutturazione delle regole, di cui bisogna esigere il rispetto: “D’altronde lavoriamo per la Prefettura e il Ministero dell’Interno!” esclamo severamente, fissando il sempre più incassato candidato. Mentre finisco la parola Interno, dietro al tizio vedo passare Hassan, bengalese di età indefinibile ossessionato dalla sua missione da saldatore. Hassan però non ha ancora trovato un posto da saldatore e, da musulmano rigoroso qual è, non può prendere minimamente in considerazione la possibilità di non fare nulla; così ogni giorno esce dall’hotel e va in spiaggia, in una spiaggia lontana, a vendere ogni sorta di paccottiglia ai turisti che si cuociono al sole. Quel giorno era il turno dei pinguini gonfiabili rosa. Così lui, a fine giornata e con un fascio di pinguini sotto il braccio, passa dietro la schiena dell’uomo incassato e mi guarda. Lo sa che non può farlo, ma nella pantomima dei centri di accoglienza i segni taciti valgono ben più delle riunioni in cui facciamo finta che ci siano delle regole. Le regole, quelle che voglio propinare all’incassato. Hassan mi sorride complice, io faccio un cenno di saluto, l’ignaro incassato pensa attentamente a cosa dire dopo la mia apologia del sorvegliante.
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Sto andando all’ospedale. Sumon deve fare le analisi, si lamenta del mal di pancia; Bahar deve fare delle lastre; Arun viene in veste di traduttore, con la sua solita eleganza da bramino siede compunto nella mia 500 sempre più sporca. Piove a dirotto, io devo mollarli all’ospedale e poi scappare a fare qualcos’altro di urgente. Cristian mi dovrebbe aspettare davanti all’ospedale: io mi fermo, consegno il carico umano e poi riparto. Ma Cristian non c’è e io sono obbligata dalle macchine dietro di me a imboccare la salita per il parcheggio rialzato. Le ruote consumate della mia povera 500 cominciano pericolosamente a slittare sull’acqua e non riesco ad andare avanti sulla salita; dietro di me una coda di cinque macchine e poi la statale ipertrafficata. In quel momento i tergicristalli si fermano, definitivamente. Dall’alto piovono secchiate d’acqua, io non vedo più nulla. Come sfregio finale, la mia 500 decide di cominciare a puzzare terribilmente di bruciato. I bengalesi si agitano, io sono ancora a metà della salita. Per qualche protezione pluridivina riesco a risalirla, mi fiondo nel parcheggio coperto e mobilito tutti nell’ispezione olfattiva della macchina, alla ricerca del punto di fusione. Quattro persone si accovacciano e annusano sonoramente in vari punti una macchina da eroinomane di due decenni fa. Arriviamo alla conclusione che quello che abbiamo sentito era odore di copertone bruciato.
Foto di copertina: ©Nicolas Vigier
REDAZIONE
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