Guardo il video di Ueli Steck che scala e cerco di capire. Vorrei avere i suoi movimenti, la sicurezza, il passo, la meccanicità. E soprattutto vorrei avere muscoli e polmoni come i suoi. Non sono un alpinista: la mia esperienza con le montagne si limita a molto trekking estivo e invernale, qualche via ferrata e alcune cime minori delle Alpi. Posso dire però che amo la montagna, da sempre.
Eppure credo che per autonominarsi alpinisti ci vogliano ben altre caratteristiche. Tipo quelle che cerco di rubare a Steck, studiandolo attentamente.
Ueli Steck è morto pochi giorni fa, e questo non vuole essere un coccodrillo in sua memoria. A voler parlare chiaramente (sconfinando nell’arroganza), le sole cose che ammiravo di Steck erano le sue doti tecniche. La mia idea di alpinismo, così come quella di molti altri, è lontana dalla sua. Non riesco a vederci l’epica della conquista, lo spirito di squadra dei tempi andati, la strategia. È un romanticismo maledetto, lo so. Ma sono anche emozioni umane che le gare e i numeri non bastano a soddisfare.
Guardando Steck restavo ammirato e perplesso. The swiss machine (il suo soprannome) non scalava le montagne, le rincorreva. Nel filmato del suo record di salita sull’Eiger c’è tutto meno una cosa: la fatica. Mi concentro sulla faccia di Steck e non vedo smorfie: corre, come se la cima che deve raggiungere si spostasse per sfuggirgli. I piedi e le mani mulinano senza sosta, le punte dei ramponi sembrano uscirgli direttamente dalle piante dei piedi. E le picozze sono un’estensione delle mani con cui afferra neve e rocce, senza esitazione. Sa già che quella sporgenza di pochi centimetri sosterrà il suo peso, che lo strato di ghiaccio sarà solido a sufficienza per piantarci la punta.
La parete nord dell’Eiger non è esattamente la collinetta dietro casa dove la domenica si va a fare il picnic insieme ai nonni e allo zio sovrappeso: è un muro verticale di 1600 metri, a strapiombo sulla valle sottostante. È spesso avvolta dalla nebbia; e se anche la visibilità è buona, il problema sono frane e slavine. È la cosa più vicina all’incubo che un alpinista possa vivere, dove non basta essere forti e resistenti, ma è necessario anche essere fortunati. E la fortuna, quando le montagne fanno sul serio, è merce preziosa.
La Nordwand dell’Eiger è stato uno degli ultimi rebus alpini ad essere risolti, nel 1938, quando tutte le altre montagne di livello erano già conquistate da almeno una ventina d’anni. La cordata composta da Harrer, Vörg, Heckmair e Kasparek impiegò tre giorni per arrivare in cima, con bivacchi in parete, appesi come salami dentro sacchi a pelo sospesi su un vuoto orrendo, pregando che i chiodi di ancoraggio non cedessero di schianto.
Adesso che avete un’idea di cosa significhi scalare l’Eiger, dimenticatela: nel 2015 Ueli Steck ha salito la stessa parete in 2 ore, 22 minuti e 50.7 secondi (sono importanti anche i decimi). Me lo immagino la mattina prima di partire: “Mamma, vado a scalare la Nord dell’Eiger. Torno per pranzo”: un fuoriclasse, poco da aggiungere.
Quando fai cose del genere il limite si sposta sempre più avanti, una cima dopo l’altra: conquistare gli ottantadue monti più alti di 4000 metri sulle Alpi in soli 62 giorni diventa un gioco (l’ha fatto davvero, sempre nel 2015), per mettere alla prova il proprio valore bisogna spostarsi sull’Himalaya. Lì ci sono i monti di una vita, quelli che ti fanno ricordare e ti trasformano in leggenda.
Steck possedeva sicuramente dedizione e metodo, qualità fondamentali per chi decide di far diventare un lavoro quella che per i comuni mortali è una sgambata in montagna. Per accettare di passare parte della tua vita alla quota di crociera di un aereo (8000 metri) è necessaria però una qualità in più: l’ossessione. Come affrontare altrimenti quella che Reihnold Messner ha chiamato la conquista dell’inutile: che senso ha continuare a scalare montagne che sono già state tutte salite? La risposta è semplice: per dimostrare a se stessi e agli altri che si può farlo. Quando i giornalisti chiesero a George Mallory (uno dei primi a tentare la scalata all’Everest) come mai volesse arrivare in cima alla montagna più alta del mondo, lui rispose: “Perché è lì”. Non era arroganza, ma il modo che l’inglese aveva di dire ai comuni mortali che non comprendeva la domanda, che si trovava ad un livello diverso dal loro, nel quale l’ossessione rendeva tutto chiaro. Il vero interrogativo nella sua testa era “Perché NON dovrei scalarla?”.
Non è mai stata una sfida contro la montagna; chi è baciato dall’ossessione sa che le vette sono come i croupier di un casinò: perdono solo apparentemente, ma tengono il gioco in mano. E alla fine, in un modo o nell’altro, vincono sempre. Sfidare le montagne a viso aperto significa morire. Una ὕβϱις imperdonabile, una superbia che gli alpinisti non possono, né vogliono permettersi.
L’uomo ha sempre avuto un approccio quasi mistico con la montagna: l’elevazione spirituale e la crescita conoscitiva erano delle metafore dell’alpinismo fino dai tempi di San Bonaventura, Meister Eckhart e Petrarca. I monti sono delle divinità terrene apparentemente raggiungibili, che l’essere umano crede di poter avvicinare; quando pensa di avercela quasi fatta, alla divinità basta poco per ricondurlo alla sua condizione subalterna. Una tempesta, alcuni gradi in meno, una roccia che si stacca: per la montagna sono dei capricci, per noi significano la morte.
“Stai coi piedi ben piantati per terra, uomo. Quassù non sei il benvenuto”.
Chi possiede l’ossessione conosce gli Dei: ha passato molto tempo in cielo vicino a loro, sa riconoscere quando ne hanno abbastanza, quando è il momento di fermarsi e tornare indietro. Anche con la consapevolezza di aver avuto un’unica occasione, e di averla persa, li rispetta. Ma li maledirà fino all’ultimo giorno della sua vita. La cosa più difficile dopo ogni morte in alta montagna è giustificare l’accaduto a chi alpinista non è. “Era pazzo”, “Se l’è cercata”, “Dovrebbero smetterla”; e allora di nuovo ci si affatica nel tentativo di spiegare l’ossessione, che è come provare a raccontare il colore verde ad un cieco dalla nascita: puoi provarci, ma non ci sarà mai il punto d’incontro ideale per la reciproca comprensione.
Per l’alpinista scalare una vetta è necessario a tal punto da accettare l’idea della morte come parte integrante del cammino. Ha fatto rinunce, ha sottratto tempo alla famiglia, si è sottoposto ad anni di allenamenti quotidiani, ha passato mesi nei campi intermedi sotto le vette, chiuso in piccole tende, con il fiato corto e la voce sempre più roca, sbirciando fuori per capire se il vento smetterà e potrà continuare a salire. Ogni respiro senza la bombola d’ossigeno è un taglio alla gola, sputare sangue (in senso letterale) è la normalità. Il rischio di edemi polmonari o cerebrali è così alto che è inutile preoccuparsene. Se tutto questo è il prezzo da pagare per arrivare in vetta, è un prezzo equo. L’alpinista professionista possiede la capacità di accettazione necessaria per affrontarlo, i comuni mortali no. E non capiscono, si interrogano e dubitano.
C’è anche chi decide banalmente di comprare l’ossessione coi soldi; da anni molte agenzie turistiche (non trovo altro modo per descriverle) offrono pacchetti di viaggio per raggiungere la cima dell’Everest. I costi sono altissimi, le pretese dei turisti altrettanto e le pressioni sulle guide e sui portatori inaccettabili. Molti dei turisti non sono nelle condizioni fisiche di farcela, pochi hanno la spinta necessaria per cavarsela quando le cose si mettono male: a quel punto si abbandonano al riposo, a lato del percorso. E lì rimangono, in attesa di forze che non torneranno più: gli occhi si chiudono, i polmoni non forniscono più l’ossigeno sufficiente alla respirazione, le cellule iniziano a morire. La zona della morte (oltre gli 8000 metri di quota) non è solo un nome tragicamente poetico. Il corpo umano ha le ore contate, non è stato creato per funzionare in quelle condizioni.
Parlando di prezzi equi: la propria vita vale 60000 dollari? Questo è la cifra media che un turista d’alta quota paga per l’Everest. Si mettono soldi in mano a delle guide che garantiscono l’arrivo in vetta, ma non la sopravvivenza del cliente. Non possono prometterla, mentirebbero: aiutare un moribondo ad alta quota può essere fatale. Le forze bastano a stento per se stessi, infagottati in una tuta termica, appesantiti dalle attrezzature e dalle bombole d’ossigeno. Farsi carico degli altri è impossibile. L’abbandono dei più deboli diventa la soluzione darwiniana, la razionalità matematica è la misura necessaria: meglio un morto che due. Questa è una nota a margine che non si trova nelle fatture delle agenzie.
Quando si muore oltre gli 8000 metri si diventa spazzatura da smaltire; la sacralità delle spoglie, la degna sepoltura e i funerali sono privilegi riservati a chi è rimasto migliaia di metri più in basso. Portare via un corpo da quelle altitudini richiede una spedizione apposita, molti soldi e fa rischiare la vita ad altre persone. I cadaveri rimangono a fare da segnavia per chi verrà dopo, irrigiditi nella loro ultima posizione, semisepolti dalla neve dalla quale emergono grottescamente solo parti di tute dai colori sgargianti. 60000 dollari sono sufficienti per scoprire quanto possa essere crudele la montagna?
Ecco quello che si può evitare nell’alpinismo: che diventi troppo accessibile, che i comuni mortali si convincano che i soldi siano sufficienti per comprare un’illusione. Quando il tentativo di superare i propri limiti estremi mette a rischio la vita altrui non si parla più di alpinismo nè di sport. È egoismo, e la montagna non c’entra nulla.
Per Ueli Steck era diverso. Posso avare un’idea di alpinismo diversa dalla sua, più romantica, fatta più di uomini che di macchine, di imprese più che di record, ma la sostanza comunque rimane. Lo capisco, non poteva farne a meno. E lo giustifico: ha accettato il rischio che l’ossessione gli ha messo davanti, si è preparato ad affrontarlo da solo e nel migliore dei modi, come solo una swiss machine poteva fare. È scivolato sulla parete ovest del Nuptse, mentre si allenava per la traversata della cresta che collega l’Everest con il Lohtse. Non stava tentando l’impresa, vi si stava preparando. La montagna è perfida, oltre che crudele.
In una sola cosa Steck era come tutti gli altri: cercava l’aria sottile, la faccia bruciata dal freddo, la neve che scricchiola sotto i piedi, il vento che cerca di trapassarti, le nuvole veloci sopra le cime. E il silenzio assordante. Non l’avrebbe scambiato con niente di diverso. Era coraggioso, spregiudicato e innamorato di ogni passo che faceva. Era meno macchina di quello che volesse apparire, ma verrà ricordato col suo soprannome e per i suoi record.
Alla fine di tutto, gli dei della montagna possono essere sollevati: se c’era qualcuno che avrebbe potuto raggiungerli, quello era Ueli Steck.
Ve lo siete preso. Che siate maledetti anche stavolta.
“Mountains are not stadiums where I satisfy my ambition to achieve, they are the cathedrals where I practice my religion.” – Anatoli Boukreev (alpinista russo, travolto da una valanga sull’Annapurna il 25 Dicembre 1997)
Segui Francesco Somigli su Yanez | Facebook
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin