Berlin Places è un progetto di Mauro Mondello e Loris Rizzo che documenta
in tempo reale, con parole e immagini, i luoghi di Berlino
Testo e foto sono stati realizzati all’Hauptbahnhof di Berlino, il 16 febbraio 2017, fra le 12.15 e le 14.30
Una ragazza dai capelli rossi si siede accanto a me. È vestita completamente di nero. Ha dei jeans attillati, neri, alti fin sopra la vita. Un maglione largo, nero anch’esso, con un colletto circolare e ampio che scivola sul lato sinistro, leggermente, a scoprire una maglietta, nera, di cui si fa in tempo a intravedere appena il bordo. Ha la carnagione ruvida e spenta, gli occhi truccati, le labbra lisce e sparute, come il naso, che di profilo disegna una curva dura, appuntita e piena. Mangia un panino con una salsiccia. La senape, poggiata come silicone lungo tutta l’estensione del wurstel, si tuffa, sorniona, verso la coscia sinistra della ragazza, che addenta la carne con un morso, strofina la mano sulla salsa e continua a masticare, senza preoccuparsi della chiazza verde che si addensa nitida sul pantalone.
Mi alzo. Sono passati 10 minuti. Adesso sono seduto di fronte alla grande vetrata che si affaccia verso il centro della città. Oggi c’è il sole. Da fuori una luce di tempesta attraversa la struttura ferrosa, invadendo l’atrio e l’imbocco del piano ammezzato sul quale mi sono fermato. Si vede la cupola del Reichstag e poi una massa di cemento bianco dentro le cui facciate si appoggiano, incastrati, decine di pannelli rettangolari di vetro: sono gli uffici del Parlamento tedesco, appena oltre il fiume, la Spree. Lo sguardo viene trascinato lungo un’intersezione prospettiva, seguendo dei tubi blu che corrono fino al ponte di legno: adesso passa un’ambulanza e gira a destra, ha i lampeggianti accesi, ma nessun suono acuto ad annunciarne l’arrivo.
Ci sono tre mondi e due colori alla stazione centrale di Berlino, Hauptbahnhof. Il rumore dei freni, come un rantolo di disperazione emesso sull’orlo di un burrone, geme dai convogli in arrivo e si mischia, imperterrito, al sottofondo infinito e finale dei trolley che inesorabilmente distendono le loro ruote sui pavimenti, rampicanti di gomma e di plastica. E di separazione. Qui il grigio è il colore del sole, il blu ci ricorda di andare. Fra pochi minuti, dal binario 2, parte un treno per Praga, alle 13.35, EC 107. Eppure non viene voglia di salirci su e sparire. In verità nemmeno di restare. Al piano interrato scorrazzano potenti locomotive Deutsche Bahn, pronte ad un lungo cammino. Corrono tutti, ma con intensità diverse.
Un orologio tondo, poggiato a un pesante palo metallico di almeno due metri e mezzo, segna le 13.50. È uno di quegli orologi da stazione che una volta si vedevano anche in Italia, bianco e nero, senza numeri, soltanto linee di colore di diverse dimensioni a distinguere le ore dai minuti, e poi, ovviamente, le lancette. Accanto a me si è seduto un uomo. È grasso, credo abbia 34-35 anni, ma ne dimostra almeno sei di più. Indossa una giacca rossa con una scritta quadrata, cucita all’altezza del cuore: Athletic Department. Gioca con lo smartphone, anzi no, adesso ha ricevuto una telefonata. Ha una voce profonda, ma non forte. Non mi sembra tedesco, forse polacco. Ha scarponcini di gomma verdi, rovinati. Jeans unti, una felpa grigia lisa e barba di due giorni. Emana un odore di sigaretta stantio, probabilmente fuma in casa, penso, e immagino i suoi mobili odorare alla stessa, efferata, maniera. Ai suoi piedi uno zaino di piccole dimensioni, con una tracolla alle estremità laterali, di tela. I capelli biondi, corti, gli si stempiano in modo regolare, ma contenuto, sui lati frontali. Gli occhi, verdi, sono nascosti da due profonde borse. Un altro uomo, alla mia sinistra, pesca nel cesto dei rifiuti i cartoni con le scritte dei fast food della stazione. Starbucks, Burger King, McDonald. Dopo una manciata di minuti recupera un busta Nordsee con un mezzo filetto di pesce ancora intatto. Lo ingurgita in un boccone solo e poi tira su, con un soffione gonfio, le ultime gocce di due bibite i cui bicchieri portano lo stemma Dunkin’Donuts.
Dalla mia posizione posso distinguere perfettamente la sagoma stilizzata di Vapiano, il franchising di cucina italiana più grande della Germania. Sulla vetrata esterna un grande telo nero dice “Hausgemachte pasta, pizza, risotto, suppen und frische salate”. Intorno alla scritta vagano un ramo di rosmarino, sei funghi champignon, un pomodoro ramato. Mi sposto ancora, vado giù, in basso. Qui tutto è scuro e dimenticato. Non importa che ora sia, al piano interrato dell’Hauptbahnhof di Berlino è sempre notte. Quando uno dei treni è in arrivo si alza un’ondata di vento che rompe la calma e porta il silenzio. La discesa somiglia a un percorso verso un inevitabile destino. Cambiano anche le offerte commerciali. Mai più fast food, è tempo di supermercati Kaiser e Rossmann, giornalai Relay, boutique di scarpe e negozi di intimo femminile.
La discesa è un non ritorno. Da giù partono i treni a lunga percorrenza, quelli che ti portano via da qui, magari per sempre. Noto con dolore il piatto scorrere di facce sofferenti. Per ogni sorriso almeno cinque volti lunghi. Ognuna di queste persone pensa di avere un compito così fondamentale e decisivo, e invece a nessuno importa niente. Qui la sensazione di lotta è immane. Si avverte, dura e stringente, come masso sprofondato in fondo al mare, la battaglia individuale che l’essere umano compie per rimanere in vita, dentro la sua esistenza. Lo raccontano i passi fermi e dolorosi verso i binari, le pubblicità Stylefruits.de che dai pannelli luminosi intorno ai pali di ferro quadrati propongono un profumo da 65 euro, le dentature gialle e malferme che si dilatano incerte al momento dei saluti. Le destinazioni, bianche, su blocchi digitali dallo sfondo blu sciupato, a volte riportano luoghi che fai fatica a immaginare esistano davvero. Krefeld, Bad Memmingen, Rostock, Zwickau: sembra l’inizio di un film di George Romero.
Risalgo, non mi fermo. Vado verso la luce: uno, due, tre, quattro piani. Una scala mobile dietro l’altra. Si prega di tenere la destra, c’è gente che corre e non si può fermare. L’ascensione è quasi religiosa. Dal buio la luce diventa sempre più potente, inonda gli occhi e soprattutto le sinapsi, che al piano inferiore avevano, ineluttabilmente, scandagliato anfratti di mistero e oscurità. Mentre proseguo verso la sommità un gruppo di giapponesi, saranno sette o otto, mi chiede informazioni per arrivare all’aeroporto. “Quale aeroporto?” domando, perché fanno pena entrambi, ma sono comunque due, i Flughafen. Non lo sanno. Sono disperati. Il loro grande problema è che di colpo non gli funziona più internet e adesso vagano, anime in pena, tra buste di carta oliate con bretzel e pizze al formaggio Ditsch e sciarpe dell’Hertha Berlino acquistate a un prezzo che non voglio conoscere nel negozio al primo piano, qui ad Hauptbahnhof. Alla fine una ragazzina, avrà dieci anni, riesce a ricordarsi: Tegel, l’aeroporto è Tegel. Devono prendere un autobus, appena fuori dall’uscita che sbocca sul fiume. Gliela indico, gli spiego come arrivarci. Mi ringraziano quindici o venti volte per uno e poi si mettono in cammino. Dalla parte sbagliata. Gli faccio dei segni da lontano, non mi vedono. Insisto. Continuano a non vedermi. Non ho voglia di fare il buon samaritano, ma sto cercando di immaginarmi perduto alla stazione di Tokyo con un volo in partenza per tornare a casa, indicazioni in una lingua sconosciuta e una probabilità molto alta di non farcela. Quasi mi commuovo, ma mancano i violini: alla stazione centrale di Berlino è proibito mendicare. Li rincorro e decido di portarli alla fermata: l’Express TXL arriva dopo pochi minuti. Ce l’abbiamo fatta.
Riparto verso l’alto dell’Haupbanhof con una nuova forza. Adesso mi sento imbattibile. Ho salvato il Giappone. Per andare all’ultimo livello, il più alto, della stazione, bisogna dirigersi verso le scale mobili che si snodano lateralmente. Vedo le travi di ferro incrociarsi sopra la mia testa, il cielo incastrato in mezzo. Poi, finalmente, arrivo. Fa più freddo quassù. Le S-Bahn partono veloci verso Friedrichstrasse e Tiergarten. Einsteigen bitte. Zurückbleiben bitte. Posso guardarmi a destra e a sinistra e immaginare davvero il luogo in cui i convogli andranno a perdersi, subito dopo aver superato l’enorme scritta Berlin, du isst so wunderbar della Ritter Sport, che campeggia in alto alla volta vetrosa, in uscita dall’hangar.
Tutto sembra più piccolo da qui. In una manciata di secondi è come passare attraverso 20 anni di esistenza. I treni arrivano come modellini, direttamente dalla tua stanzetta di bambino. Improvvisamente me li ritrovo addosso. Enormi; pieni di persone. E c’è un pensiero che mi travolge: ad Hauptbahnof, non esistono i sogni, ma solo i pensieri. Ogni cosa ha la sua forma, la sua dimensione. Prima o poi tutto diventa vero, reale, fisico. E fa un po’ male.
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