Davanti alla stanza di Amaia c’è odore di vaniglia e la copia di un libro a me caro è sopra il mobile all’ingresso. Mi scivolano entrambi nelle narici confondendosi come se dei personaggi inventati e un profumo inconfondibilmente vivo si compartissero il medesimo romanzo. Vorrei descrivere ad alta voce il rumore del pollice e dell’indice accostati all’angolo destro di pagina quarantadue, tracciare il trasporto del carico dei centesimi di grammo di carta ruvida, raccontare le falangi scartavetrare l’alba della riga successiva che cerca di raggiungere il punto. Lo penso soltanto invece, ed ho l’impressione che mi sudino i polpastrelli. Poi il mio naso vuole tornare ad accordare il capriccio della vaniglia: gonfio il torace per incamerare quanto posso, come se i polmoni fossero la sede dei miei ricordi inestinguibili, magazzini, depositi di polvere istantanea. Tossisco, sputo un poco di inconscio: ma niente, questo odore di vaniglia mi mancherà in ogni caso, i polmoni-magazzino non possono farci un bel nulla.
Ho un senso di nausea e uno spillo che mi punge il miocardio; mi dà fastidio, per questo sono qui. Ma stare sola in questa casa in Carrer de la Gleva è strano; sostare immobile a due passi dalla porta chiusa mi sembra la cosa più giusta; raggiunto questo accordo con me stessa immagino soltanto che le mie labbra assumano un’espressione soddisfatta e che la mia testa annuisca con moderata energia. I miei piedi sono il perno del mio busto rotante dietro al tic toc dell’orologio nella stanza di Amaia, al rumore del motorino del frigorifero, agli intervalli di tortura e silenzio dei trapanatori dei lavori in corso. Sono talmente immobile e concentrata sulle mie capacità uditive che non mi sono accorta di aver bloccato il respiro all’altezza del petto, ingrossato innaturalmente. Espiro restituendo ai mille rumori il loro carattere routinario, si dissipano sotto al macinare dei miei pensieri e al forte e regolare doc cardiaco.
Va bene facciamolo, mi dico. Vado dritta per il corridoio, giro la testa a sinistra e riconosco la cucina, nella penombra, che termina con un terrazzino di un metro quadro che dà sul cortile interno; arrivo nel salone, dove campeggia una strelitzia viola e arancione, quasi sproporzionatamente grande rispetto al tavolo da pranzo su cui poggia; tondo, di legno, con un’unica gamba centrale. Mi muovo verso la camera da letto di Ferran; per seppellire i ricordi, sentenzio. Ma vai a cagare, mi dico, piantala di essere tanto drammatica.
Il letto, all’angolo tra due pareti, è riordinato malamente, il cuscino sfida la gravità e il mio istinto di perfezionismo, arginato dalla delusione di non riconoscere più le lenzuola. Ho voluto che mi scordasse, convengo, ma è meglio cercare altre prove della constatazione. Apro il secondo cassetto del comodino, trovo la mia lettera e il cuore bilancia nuovamente il battito, ho l’impressione che la schiena mi si raddrizzi lievemente e che il sudore si materializzi nel primo strato sottopelle come una sorta di schicchera. Mi chiedo dove sia il suo portafoglio e lo vedo sul tavolo. Mi chiedo perché debba essere lì se lui non è in casa. Mi rispondo che è lì perché io voglio che ci sia. Annuisco e mi accordo la risposta. Afferro il portafoglio, ma non ricordandone precisamente né il colore né la forma, mi ritrovo in mano un blocco scuro vagamente quadrato e sfocato. Lo apro lo stesso ed incontro subito la mia fototessera. Annuisco ancora riconvertendo quanto in prima istanza avevo convenuto: a quanto pare non voglio che si scordi del tutto di me.
Sì, ok, ma non è questo il punto. Mi servono più dettagli per risolvere la cosa, mi dico. Quindi mi dirigo verso la finestra scorrevole dai vetri zigrinati e la apro completamente, liberando il filo del telefono color avana degli anni cinquanta che trova ricovero sul terrazzino di un metro quadro, a cui si accede dalla cucina e sui cui la stanza di Ferran affaccia. Annuso l’aria e mi sembra di riconoscere ogni distinguibile odore portato dal vento.
Difficile dire che stagione sia, giacché in questa casa ci sono stata d’estate e d’inverno e quindi ne ho un duplice contrastante ricordo, ma il freddo o il caldo di Barcellona non mi è proprio possibile percepirli, in questo momento. Avverto invece una strana sensazione di benessere, che è ciò che di più mi premerebbe descrivere dettagliatamente, cosa che non farò, dal momento che le parole non possono mai restituire pienamente delle sensazioni, quelle si vivono e basta. D’accordo, mi dico.
Vado per scavalcare la finestra arrampicandomi sul tavolo, seguendo il cavo del telefono e colpendolo distrattamente con la natica sinistra. Ne scaturisce un’onomatopea a caso che ricostruisce il suono che fa il disco quando traballa prima di tornare alla sua stasi. Ovviamente, qualunque cosa sia, quella traslitterazione di suoni rimbomba nella mia testa fungendo da richiamo per tutti i toni simili registrati nel mio cervello, e così sento la concatenazione dei seguenti rumori: la cassa della tea room nella quale lavoro a Glasgow quando si chiude con veemenza, il campanello dello studio del medico quando accedo alla reception, l’intro di Time dei Pink Floyd. Un flusso di coscienza. E va a cagare un’altra volta.
La stanza di Ferran si riempie di cose e persone a cui non ho voglia di pensare in questo momento. La mia manager, quella con il sorriso che mi ricorda Boe dei Simpsons, si siede sul letto, mia nonna mi chiede come sto e dove sto e penso che non l’ho ancora chiamata e mi dispiace di non averlo fatto e penso che sono pigra e sento la sua voce che dice “bella de nonna”. La sua esclamazione produce l’eco purtroppo, e si ficca nelle bocche degli altri che arrivando affollano la stanza. Hattie Chapman pronuncia vocali chiuse e reiterate, “bélla dé nónna”, Luciano Ponticelli suona un tamburello che gli ho portato dall’Africa e mi ricordo che avevo finito i soldi e che me li aveva prestati Davide Maffi e che quindi tecnicamente il regalo non era da parte mia, ma da parte sua e poi mi ricordo che mi ero sentita stupida a voler fare un regalo a Ponticelli e ricordare che mi ero sentita stupida mi fa sentire stupida di nuovo. Mi si avvicina la professoressa Ciarelli con sguardo serio e mi dice “bella de nonna” e io penso che non mi ha più risposto all’email nella quale le avevo detto che non stavo bene dopo la morte di zia Delia e così mi chiedo perché le avessi detto che non stavo bene dal momento che non ho la confidenza per farlo; sono tentata di chiederle scusa ma mi dico che non è questo il mio obiettivo di oggi e distolgo lo sguardo. Mi si pianta davanti zia Delia, ne percepisco immediatamente la risata nelle orecchie. Ha gli occhi celesti che, per furbizia, mi ricordano quelli della Monna Lisa, ma non l’ho mai detto a nessuno. Non ha precisamente un corpo: ho davanti una gigantografia della sua testa, cosicché i miei occhi si piantano sulla fossetta sulla sua guancia destra; sorrido spontaneamente con la parte sinistra della bocca, per creare la mia di fossetta, speculare alla sua.
Basta. Devono sparire tutti.
Valico completamente il traverso della finestra e mi trasferisco sul balcone; mi chiudo dietro i vetri zigrinati sopprimendo il cavo color avana e il vociare pesante, e guardo immediatamente di fronte a me per raccontarmi fluidamente tutti i dettagli che posso ricordare del cortile interno su cui il balcone affaccia per tornare sul filo conduttore prestabilito.
Sono seduta su una tavola di compensato chiaro, che ricopre una lavatrice bianca, indosso ora un vestito rosso con una fascia nera e ho le gambe nude, incrociate a penzoloni, e i sandali. I capelli sciolti. Sono le sei del mattino, questo lo so, lo so perché voglio che siano le sei del mattino. Lo so perché ci sono cose che si possono esperire o fare in un certo modo solo alle sei del mattino. Ad esempio contemplare questo cortile interno, grigio e in decadenza, sporco di calce, il cui odore è spezzato da quello del sapone dei panni. C’è un lenzuolo chiaro che sventola la sua ombra fin dentro alla camera di Amaia. Ferran ora dorme giusto alle mie spalle, oltre il vetro, in lenzuola che riconosco.
Ecco cosa vorrei, l’impronta di questo momento, il calco dei miei ricordi.
Mi viene in mente l’artista Rachel Whiteread, e penso che vorrei chiederle di lavorare su questa struttura, di riempire con colate di calcestruzzo l’intero vano di questo cortile, per poi distruggere tutto l’esterno del palazzo perché ne risulti come prodotto il negativo di ciò che il palazzo era stato.
Vorrei questo per questo cortile, la permanenza del suo spazio vuoto da tenere fisicamente davanti a me, nella mia stanza. Vorrei che, una volta tolto il braccio con cui sto proteggendo gli occhi dalla luce per rendere vividi i ricordi da manipolare, fosse massicciamente immobile accanto al mio letto qui a Glasgow.
Ma in fondo…
No, sarebbe un souvenir troppo violento per definirsi passato, troppo durevole per qualcosa di caduco. E poi ora sono le sei del mattino, giusto? Appunto, e non ho voglia di questa complessità stupida, filosofica, materialista. Ho solo voglia di ascoltare il primo rumore delle forchette e delle pile di piatti che sono stati ad asciugare per tutta la notte, spinti da qualcuno di nuovo nelle dispense, coccio a coccio. E voglio affidarmi alla voce neutra del giornale radio nelle case degli altri che non muta la temperatura corporea di nessuno, in questo cortile che mai ha conosciuto né buono né cattivo tempo.
Ho voglia di questi rumori di calma, del silenzio.
Ma c’è qualcosa che non mi fa stare tranquilla, che freme per venire su, una piccola traccia del flusso di coscienza, qualcosa che in qualche modo si intrufola nel raggiungimento dello scopo. Sotto il palmo destro c’è un vecchio taccuino di mia zia, tra la mia pelle e la lavatrice. Lo stringo.
“Ti scrivo perché mi sento profondamente infelice da quando credo di aver perso per sempre una persona che stimo che in qualche modo mi diverte e al quale piace fare sesso con me”.
Quanto soffrire, zia, per una cosa tanto effimera! Effimera, Ferran, ché per te che poco fa dormivi io provavo una così piacevole tenerezza, ma ora già non lo so più. Tutti sono utili e nessuno indispensabile. È così! È così. Tutti sono utili, nessuno indispensabile, neanche tu. Dimmelo, te lo dico. Non c’è niente che possa, a lungo andare, strapparmi la consapevolezza che ho voglia di vivere, non un amante che non mi cerca, non la morte di una persona. Sentire mi rende viva, nel dolore, mi rende viva. La malinconia, la via della guarigione, la scia della febbre, l’appendice della fortuna. La malinconia, quanto di più simile alla felicità. Le si avvinghia, le si aggrappa e la consuma, in un disequilibrio semi moderato di opposti che tanto se sono in conflitto l’ago lo forzano, o di qua o di là.
Sentire, zia, scusa se sono andata avanti. Scusa se sono stata bene dopo che tu non hai potuto più. Ma sentire, zia, fuori dall’ovatta dell’atarassia, è una combustione spontanea che mi brucia dentro, da covare e partorire il complementare della pacatezza di questo cortile di pace incruenta. E sono qui a parlare con te, tramite me, perché ho un problema: io non mi sono innamorata. Io volevo innamorarmi. Io volevo sentire! Ma non è andata, volevo sentire, sentire tanto, ma mi sono bloccata; perché la Corte del mio Giudizio ha decretato che “ai sensi della legge numero indefinito/2014 non verrà più accettato il male che il bene comporta”. E sono arrabbiata, tanto arrabbiata, e nauseata da questo giudizio! Io voglio tornare a sentire, vostro onore! Descrivo tutto, tutto descrivo! Ogni singolo, minuscolo, stupido dettaglio, minuziosamente, lo scompongo con un bisturi e lo osservo, lo assaggio, lo promuovo oppure lo boccio, e lo faccio perché io voglio sentire! Voglio tornare a sentire! Eccolo di nuovo lo spillo nel cuore, ecco cosa c’è che non va! È una follia che sia proprio questo il punto giusto. Ahia, ecco, ci spingo dentro due falangi, con il rumore di carne spampanata che frizza. Ah! Che male il cuore, viscido livido blob. Non sto respirando. Voglio solo massacrare, sbrindellare, ammassare questo impasto d’organo con questa nuova formula che chiamano chirurgia culinaria avanzata. Dai, che cotto forse si placa. Che nausea questo profumo di pane. Basta, voglio solo che tutto finisca.
Ho il braccio destro irrigidito e addormentato, lo scuoto un po’. Tanto l’ho tenuto stretto intorno agli occhi da non riuscire più neanche a vedere bene. Ora la luce mi altera il battito alle tempie, penetra dall’esterno il vetro oltre il quale la neve continua a imbiancare Glasgow. Ho freddo. E poi ho quest’Ovosodo in gola, che, vaffanculo, continua a non andare né in su né in giù.
Vado in bagno. Faccio pipì, mi lavo le mani, mi guardo allo specchio; ho una pelle giovane, mi sembra, e le pieghe del pigiama a intaccare fortemente la guancia destra che mi fanno guadagnare le rughe di una vecchia.
Faccio una smorfia, un po’ mi detesto. Ma in fondo, giacché me lo riconosco, credo che
Sì, dai, forse ho imparato a volermi bene.
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Photo credit: Gord McKenna on Visualhunt.com / CC BY-NC-ND
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