Camminava un giorno tutta sola, servetta del Basso Veneto, quando si vide chiamar per strada: se le servisse un lavoro. Aveva un neo grosso e violaceo sopra la caviglia sinistra che, da che se ne ricordasse, l’identificava. Non una grande stima di sé, questo è certo, tanto che pensava tutti la vedessero così, come un topino bruttino, come quel neo, ché così lei si descriveva a sé stessa.
Era svogliata, la poverina, ma ottenne il posto, e per qualche anno fece da sguattera in una casa lì sul canale. Aveva l’aria sciatta e trasandata, camminava strusciando i piedi e con fare sognante faceva degli strani versi, giocherellando con un angolo della bocca. Poteva risultare veramente sgradevole, senza volerlo. Non che non badasse ad essere sempre vestita adeguatamente, o ai dettagli, anzi: quando non era a lavoro passava ore ad intrecciare fiori che metteva nei capelli, ma magari scordava di pettinarsi; o ricamava con cura una sopravveste, ma poi la metteva al contrario. Era sbadata, sempre con la testa fra i suoi pensieri.
Forse anche per questo la donna in capo al personale della casa la prese di mira fin dal principio: la teneva d’occhio ogni istante e non gliene faceva passar una. Controlla come spazzi, la macchiolina sull’argenteria, ben attenta a portar pulito il grembiule. Maria dagli occhi blu, così la chiamavano giù in strada, non ci badava neanche, a quel tono saccente arrogante canzonatorio irritante e che in ogni modo cercava la lite. Sorrideva, faceva un lieve inchino, e con un piccolo sorriso tornava a giocherellare con la bava all’angolo della bocca, facendo imbestialire ancora di più la superiore. Eppure non rompeva nulla, non sbagliava granché di grave. Aleggiava sulle cose, o meglio ci gattonava. Aveva avuto ben cura, la governante, di tenerla fuori dalla vista dei padroni: la nascondeva a lavorar piuttosto nelle retrovie, e se mai fosse capitato che per isbaglio incrociasse qualcuno della casa o un qualche ospite inatteso, doveva inchinarsi testa bassa e, come invisibile, dileguarsi.
Forse proprio per quel suo modo ondeggiante di stare al mondo, forse perché sembrava non guardasse mai fuori di sé, come non prestasse mai attenzione alle cose terrene, poteva facilmente venir notata, da un uomo. Ella pensava infatti all’amore, pur senza conoscerlo, e questo si vedeva come irradiare fuori di lei. Pensava ai fiori, al sole, alle passeggiate e ai dolci, e ci pensava in modo innocente, non conoscendo altro che la sua giovinezza e i suoi giochi di bambina. Eppure nel suo pensarci c’era già qualcosa di lussurioso, come un inno del corpo alla primavera e allo sbocciare, che racchiudeva segreto, intimo, dentro di sé.
Qualcuno per questo c’era, in casa, che l’aveva ben sì notata: il padroncino, giovane in erba, figlioccio degenere della padrona e sempre pronto a cacciarsi nei guai. S’era fatto prendere non si sa come da quella specie di cotta del far l’amore: doveva averla. Più lei sembrava disinteressata a lui e a tutto quanto la circondasse, più in lui cresceva la brama di quel contatto. Come un nobile in caccia, doveva far sua la preda. Era diventato un vezzo, un gioco, possesso, un bisogno d’un dir t’ho presa.
Una mattina, mentre spazzava malvolentieri un anticamerino stretto e poco arioso, che aveva anche lei le fantasie per la testa, si sentì gironzolare dietro questa figura alta e ben in arnese. Le rubò la scopa, la prese. A gioco a gioco faceva di spirito, il giovin signore, finché non l’ebbe. Ma prima dell’atto conquistatore, in sé affatto rilevante, quello voleva invece gustare quel suo bel gioco del gatto col topo. E dammi la scopa, e prendi la scopa, e no signore che non dovrei, e allor capricciosetta io ti ridò la scopa, ma prima un bacin mi dovrai dare. Sulla guancia, no signore. No? birichina! vien qui che ti spazzo i piedi.
Fu così che, mentre lì si giocava, qualcuna di casa passò e li vide. Intimidita, rossa, col pensiero un po’ amaro d’intender pienamente cosa stava accadendo a quella sua compagna, pure subito corse, la furbetta, a farlo sapere alle superiori: che sempre la serpe spera in una lauta ricompensa, per una mala azione.
Di lì ci volle ben poco che la servetta tornasse alla strada, con in più questa brutta sventurata fama di dover ormai, incinta, andar puttana.
Le madri, quando vedevala passare, alle figlie ancor da maritare cominciarono a dire, per farsi sentire: “stai attenta a te, figlia mia, a non far svogliato il tuo mestiere, che se ti spazzano sui piedi poi non ti sposi”
Si dice poi che questa, divenuta brava del nuovo mestiere, si fece notare da più d’un signore, che l’aiutassero a dar da mangiare e un po’ d’istruzione a quelle sue illegittime creature. Uno in particolare la vide e se ne prese cura, e tra loro, dicono, fu vero amore. Diventata esperta delle cose del mondo, Maria occhi blu non smetteva di gattonare sulle cose, di strusciare i piedi o star con lo sguardo in aria, pure ora sapendo quanto piacesse, questo suo ondeggiare. Anche di quel neo, brutto e peloso, portava ora l’orgoglio della seduzione: era lei, era l’unico, il punto nero sotto la gonna dell’esser femmina, in un mondo di facciata.
Un giorno, ormai meretrice tra le più in voga e conosciute, s’ebbe a esser presa a consorte da quel suo signore, e finì, si dice, nientedimeno che invitata a corte. Ad un tavolo, tra bisbetiche, tutte facevan gara ad ammirare quello scortese esempio di diseducazione. Un tempo, tra la cucina e la strada, la via dai salotti ai bassifondi non era poi tanta, e anche le voci giungevano in fretta. Si sparse il detto, si facevano motti. Una delle signore lì col corsetto, urlando forte a quell’altra, per farsi sentire, esortò dicendo “Si dice, mia cara, ma lei mi saprà dir s’è vero, che quando ad una gli spazzano i piedi poi non si sposa”. Rispose quella senza batter piega, tra le risatine delle astanti “Così dicono, signora mia carissima, e io ci credo. Per me, per quanto mi riguarda, posso ben dire che quella spazzata fu per me la fortuna più grande mai capitata”
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