Mi ricordo che correvo. Per strada e imprecavo piano come spesso succede quando sono in ritardo. Arrivata davanti al grande portone ho trovato Davide e due altre coppie, sembravano più giovani di noi. Ricordo di aver pensato che quella strada era troppo grande, troppo lunga, non riuscivo mai ad arrivare al civico dell’appartamento. I negozi non li vedevo, ma poi, come tutto il resto a Berlino, cominciai a notarli nel tempo.
Quando cammini per Sonnenallee non ti ricordi bene dove sei. Sei a Sonnenallee. Non sei neanche a Neukölln. Cioè sì, vedi una paio di caffè con loaf alla banana e i bicchieri di carta personalizzati con il logo. Ci vedi le persone bionde, le persone bionde sono lì. Le puoi vedere anche da Al Pasha o da Azzam, ma lì ce ne sono di più. Per il resto il tuo naso, i tuoi occhi e le tue orecchie sono impegnate a fare altro, e le persone bionde si eclissano nel troppo resto come geni recessivi.
C’è l’odore pungente e dolciastro degli shisha fumati da uomini con geometrie perfette di capelli e barbe nella testa, il fumo denso in cui passi attraverso quando cammini sul marciapiede.
Ci sono le verdure, sopratutto i peperoni, di quelli ce ne sono di diverse dimensioni e colori.
Ci sono le vetrine con le piramidi di baklava e la frutta secca nelle vasche di metallo come quelle del gelato.
Ci sono luoghi semi-inaccessibili, le scritte in arabo, dentro un ordine delle cose che non riconosci. Le macchine si affiancano sulle strade e sgommano ai semafori o nei sorpassi di quelle giudicate troppo lente. Ci sono tantissimi spielotek, i vetri sono ricoperti con una pellicola adesiva che dice Spiele! E altre cose che non capisco, quasi sempre nere e rosse.
Ci sono le famiglie che mangiano nei tavoli di formica, oggi ad Al Pasha si erano separati in uomini e donne. Le donne si erano separate in vecchie e giovani. Noi eravamo in mezzo, un’escrescenza fuori posto a cui nessuno dava peso. Ogni volta che vado a mangiare lì c’è dello zucchero per terra, ed è strano perché le scatole vicino al the sono a zollette.
Ho letto su Internet che prima Sonnenallee era libanese ma poi da qualche anno è diventata prevalentemente siriana. È una strada di commercio, è indaffarata e sfaccendata, è velocissima e lentissima contemporaneamente. Quando vado a prendere al caffè alle bäckerei a servire sono solo donne. Ce ne sono di tutte le età. Sono contenta quando ce n’è una con gli occhi azzurri e sprezzanti, è molto bella e l’hijab le da un’aria regale, che quasi mi vergogno a guardarla negli occhi. Fuori sulle sedie di plastica a forma di sedie impagliate ci sono gli uomini.
Sotto casa c’è un lavasecco ma l’ho capito solo dopo sei mesi. Prima in una vetrina minuscola vedevo solo delle cianfrusaglie antropomorfe di vari materiali, statuine e bambole messe alla rinfusa per ospitare quanta più polvere possibile sulle loro superfici. In fondo una volta ho scorto dei vestiti appesi, ma non c’è mai nessuno, sono arrivata alla conclusione che i proprietari si nascondono dietro ai vestiti, aspettando un cliente che non arriva mai.
Subito dopo c’è un negozio di generi alimentari, io ci compro l’olio d’oliva quando il supermercato è già chiuso, ha un fondo marrone sulla bottiglia e non so mai se agitare prima dell’uso.
Lo stesso alimentari aveva dietro al bancone qualche mese fa una bambola, la plastica della pelle era color nocciola ed era vestita di nero. Sulla confezione, che se non sbaglio era in inglese, diceva che la bambola andava alla scuola coranica. Ecco perché il nero, avevo pensato. Ora l’alimentari è in ristrutturazione, lavorano anche la domenica e spaccano il pavimento con uno scalpello. Per una settimana non potevano mettere le verdure fuori come al solito e quindi le mettevano nel corridoio del mio palazzo. Mi piaceva tornare a casa la sera dal lavoro e passare con la bici in mezzo alle melanzane e i kohlrabi, le cassette in fila nelle griglie da esposizione nei due lati dell’ingresso. Quando ero piccola adoravo andare al mercato coperto di Rimini e l’odore della frutta calda d’estate, il tetto era altissimo e fatto di vetro e metallo.
Quindi ero felice di venire accolta dagli ortaggi e le mele dopo lavoro, quando il mio cervello sorpassa l’ingresso e manda mazzi di endorfine a tutto il corpo, corredato dal biglietto “sei a casa” e la stanchezza si trasforma in un indolenzimento piacevole ed immediato, che anche legare la bici ti sembra faticoso .
Sulla porta del mio palazzo c’era scritto MDMA, e dentro No Justice No Peace, e qualcuno aveva anche scritto sotto No Secret. No Secret mi è sempre sembrata una giusta puntualizzazione, che giustizia ci può essere se ci sono segreti?
Al primo piano, dove abita una famiglia araba con molti bambini, ci sono le cassette delle lettere e la scritta Damned Kids! Perché fanno sempre un sacco di rumore, saltano sulle scale e urlano a tutte le ore. Davanti alle scale ci sono gli uomini che lavorano all’alimentari che scaricano la merce e fumano. Ora hanno ridipinto i muri ma sono comparse nuove scritte.
Il cortile sa sempre di spazzatura perché ci sono i bidoni, le bici, i ratti e un ippocastano con le radici che emergono dalla terra, sempre sul punto di scapparsene via da quel buco in mezzo ai palazzi. Una volta alla settimana o due puliscono il cortile bidoni-ratti-bici e tutto invece di sapere di spazzatura sa di un detergente al sapone di Marsiglia chimico con un retrogusto di spazzatura, devo dire che non mi dispiace, deve ricordarmi qualcosa. Al terzo piano vive una coppia gay fra i 20 e i 30, uno dei due è bellissimo e quando passa mi giro sempre, ha lo zaino a forma di testa di stormtrooper dell’esercito imperiale e nella mia ricostruzione dei fatti non può che essere un modello. Secondo me è lui che ha scritto Damned Kids.
Mi hanno detto che in fondo a Sonnenallee c’è un minigolf che diventa anche arena d’estate, mi piacerebbe vedere com’è.
Quando penso a come sto a Berlino immagino sempre una tazza da caffè lasciata sul davanzale della finestra: qualcuno l’ha dimenticata lì ma in fondo non ci sta male, del genere che al primo colpo d’occhio riesci a spiegarti come ci sia finita. Non parlo ancora la lingua di questa città e la mia conoscenza dei quartieri è superficiale, nel senso che ho guardato la città e continuo a guardarla, ma lei sfugge e viene sempre sfocata. Sonnenallee è la strada in cui posso sentirmi allegramente abbandonata. Nessuno sembra parlare il tedesco come prima lingua e la mia estraneità mi pesa di meno perché i mondi che attraverso quando vado all’alimentari o a mangiare il fatteh sono impossibilmente lontani, anche se contigui.
Nella sociologia e antropologia urbana il fenomeno della gentrificazione è oramai indagato da decenni. Ci sono molte etnografie che parlano di una nova categoria sociologica, la creative class, una sorta di classe media ma con meno soldi e più velleità, gli artisti, scrittori, accademici, gionalisti, musicisti, designer e architetti che non fanno gli architetti per capirci. Insomma molti di quelli che stanno probabilmente leggendo questo articolo, me compresa.
Ecco per questa creative class i quartieri multietnici sono una figata. I creativi sono tutti liberal e si immaginano cosmopoliti, vogliono vivere in quartieri scalcagnati ma dove la diversità culturale fa da carta da parati (social wallpaper è la definizione che ho trovato in una di queste etnografie) per farli sentire cittadini del mondo. Magari per mettere la foto del vestito da damigella di pizzo rosso con gonna regale e diamanti di plastica dei negozi da sposa di Sonnenallee su instagram. I mondi rimangono separati perché i punti di connessione, a parte la prossimità nello spazio, non esistono. Nello stesso tempo è difficile sovrapporre completamente lo status socio-economico a quello etnico. Nelle città sembra che le persone si dividano sempre di più per lo stile di vita e il modo di consumare. Paul Gilroy ha parlato di convivialità come termine per indicare questa strana trama delle aree multietniche dove comunità nazionali di seconde o terze generazioni, migranti da poco arrivati dallo stesso paese o zone limitrofe e i creativi, per la maggioranza bianchi, si intersecano, a volte senza toccarsi e a volte costruendo legami inaspettati che scompaginano le categorie sopraelencate. Rimangono enormi non detti, fra cui in primis, il dato razziale e il modo in cui marca le possibilità di vivere e desiderare la città stessa.
A me piace Sonnenallee perché non è mia né dei miei amici e non te lo manda a dire: sui marciapiedi devi farti spazio a fatica fra i passeggini, le donne che esaminano le verdure e gli uomini che discutono davanti alle bäckerei o ai ristoranti.
Sul mio terrazzo torno a fare la tazza, guardo nel palazzo davanti gli altri creativi che coltivano l’erba e fumano sul terrazzo. Sotto Sonnenallee scorre con la sua solita energia che mi lascia libera, indifferente alla mia presenza. Sento di nuovo l’ambulanza, poi le urla dei bambini.
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