Un corpo avvolto in un cappotto pesante incede lentamente sul tappeto di fango e ghiaccio di un cortile. Il cielo è addormentato da un triste chiarore invernale. Il corpo avanza con passi regolari, fino a raggiungere un muro alto di mattoni umidi di neve, poi si volta e torna indietro, ripercorrendo lo stesso tragitto. La figura avanza piegando il busto lievemente verso sinistra, a ogni passo, come se avesse legato alla gamba destra un fastidioso peso. L’aria è pungente, priva di odore.
Dentro quel cappotto c’è una donna, un’ebrea polacca di nome Rosa Luxemburg. Il suo passo claudicante lo deve a una malattia infantile che le ha compromesso per sempre l’utilizzo della gamba destra. La sua lenta e ripetitiva passeggiata è un esercizio che si concede quotidianamente, durante la sua preziosa ora d’aria.
È il 1917. Rosa è rinchiusa nel carcere tedesco di Wronke, 250 chilometri ad Est di Berlino. Fuori da quelle mura migliaia di uomini e donne muoiono come comparse nella tragedia della Grande Guerra.
Nei primi anni del novecento la classe operaia in Germania era tra le più popolose ed organizzate del mondo. Il partito socialdemocratico tedesco era il più forte d’Europa, ma una rapida crescita economica ed una politica interna conciliatoria avevano condotto il partito verso una linea sempre più riformista, che mirava a consolidare la propria influenza nel paese con l’obiettivo di accreditarsi come opzione di governo credibile, per poi perseguire gradualmente un miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
Rosa Luxemburg ottenne la cittadinanza tedesca nel 1897, dopo aver sposato Gustav Lubeck, il figlio di una vecchia amica, in un matrimonio a mero scopo burocratico. Considerata una delle menti più brillanti del partito socialdemocratico, Luxemburg si disimpegnava nella scrittura di articoli e saggi di analisi economica e strategia politica, insegnava ai giovani pupilli del partito i fondamenti della dottrina marxista, soprattutto infiammava le platee congressuali con i suoi discorsi audaci ed emozionanti, con i quali cercava di contrastare l’approccio riformista del partito. Secondo lei non era possibile portare a compimento la liberazione degli oppressi attraverso riforme concordate dentro le mura di un parlamento. Solo le masse, attraverso una mobilitazione generale, potevano trovare la strada per trasformare la società. La coscienza; la costruzione, attraverso l’azione collettiva, di una consapevolezza diffusa delle condizioni di sfruttamento e delle ingiustizie sociali: questi erano i fondamenti del pensiero politico di Rosa Luxemburg. La sua rielaborazione del pensiero marxista dava centralità allo strumento dello sciopero generale, in grado, secondo la sua prospettiva, di generare un’immediata potenza trasformatrice che muove le coscienze e ribalta il rapporto di forza tra capitale e lavoro. Soprattutto lo sciopero generale è, secondo Rosa, la forma di azione politica che maggiormente garantisce la centralità delle masse rispetto alla burocrazia centralizzata delle organizzazioni partitiche e sindacali.
La sua posizione politica, che procedeva in direzione contraria al percorso della formazione in cui militava, scavò intorno a lei un fossato sempre più profondo in termini di alleanze ed appoggi politici. Questo divario divenne insormontabile proprio negli anni antecedenti allo scoppio della guerra. Il nazionalismo, il militarismo e la guerra erano infatti per lei nient’altro che strumenti di espansione dei mercati e di acquisizione di nuove risorse.
Secondo Rosa, la guerra è una competizione tra potenti per l’accaparramento di nuove ricchezze, e i governi intraprendono i conflitti per conservare e favorire gli interessi dei grandi capitalisti. Gli effetti negativi ricadono sulle classi lavoratrici, che vengono mandate al massacro e ridotte alla fame. A una platea ammutolita e a un partito che già iniziava a inseguire i fervori nazionalisti, Rosa chiede con il suo violento candore: che senso ha per i poveri sacrificarsi in una guerra che non farà che consolidare il sistema economico causa della loro povertà?
“E se vi dicono di sparare, voi non sparate” tuonava dal podio di un comizio a Francoforte. Le sue esortazioni non furono però sufficienti a convincere il partito Socialdemocratico, né tantomeno a deviare il corso della storia europea.
Pochi mesi dopo l’inizio del conflitto, Rosa, ritenuta un pericolo per l’unità del paese, venne accusata e processata per le sue posizioni antimilitariste. Il procuratore, durante il processo, la definì una “senza patria” ed emise una sentenza di condanna, disponendone la carcerazione. Era il febbraio 1915.
Sono passati quasi due anni quando la vediamo passeggiare stanca in un giardino spoglio e innevato. Negli stessi giorni scrive:
“Restare un essere umano, cioè gettare, se necessario, gioiosamente tutta la propria vita «sulla grande bilancia del destino» ma allo stesso tempo rallegrarsi per ogni giornata di sole, per ogni bella nuvola. Ahimè! Non conosco la ricetta che permetterebbe di comportarsi come un essere umano, so solo come lo si è e tu lo sapevi, anche tu, ogni volta che andavamo per qualche ora a passeggiare nella campagna di Südende, mentre i raggi del tramonto illuminavano i campi di grano. Il mondo è così bello malgrado tutti gli orrori e sarebbe ancora più bello se non vi fossero sulla terra dei vigliacchi e dei codardi”.
Una stanza avvolta dall’oscurità, un solo raggio di luce fioca filtra dalla strada, proiettando un’ombra sulle pareti. L’immobilità regna, ammantata di silenzio. Una figura, come una montagna scura, sorge da una poltrona, talmente quieta che non si riuscirebbe a distinguere da un cumulo di coperte dimenticate.
È Rosa Luxemburg, nel suo appartamento di Berlino. È il 1907. Rosa ha spento tutte le luci e adesso siede inespressiva, fissando il buio. Un uomo è appena uscito da casa sua. Colei che negli ambienti radicali del primo novecento si era guadagnata il soprannome di “rosa sanguinaria” non aveva mai intimamente rinunciato all’illusione che la vita privata e la passione politica potessero fondersi in un unico flusso, un qualcosa che, in una lettera indirizzata a Louise Kautsky, la Luxemburg definisce “la vita vera” . L’uomo che si getta con passi affannosi e disperati giù per le scale del suo palazzo è Leo Jogiches, intellettuale e rivoluzionario lituano, fondatore del Partito Socialdemocratico polacco e figura di spicco del movimento operaio internazionale.
Si erano conosciuti a Zurigo, dove Rosa era emigrata lasciando la Polonia, all’epoca parte dell’impero Russo, per compiere gli studi universitari e per sfuggire all’occhio invadente della repressione zarista che si era posato su di lei negli anni del collegio, quando già frequentava ambienti sovversivi e partecipava ad azioni di protesta contro il regime.
Jogiches era diventato il mentore della giovane Rosa e pian piano si era instaurato tra loro un intenso rapporto di confronto politico e teorico che supererà la fine della loro relazione e durerà per tutta la vita.
La loro è una storia d’amore fatta di separazioni, distanze, periodi di clandestinità e ritorni, una relazione turbolenta, costellata da una fitta corrispondenza nella quale emerge la straripante affettività di Rosa, come anche la sua delusione per le risposte razionali e impassibili di Jogiches. Nelle lettere a Leo emerge in controluce il dilemma esistenziale di Rosa: la spiccata sensibilità alla natura e alla bellezza, il miraggio di una vita tranquilla, l’inossidabile fedeltà ai propri sentimenti. Eppure era per lei impossibile pensare che la felicità potesse realizzarsi lontano dall’impegno a cambiare il mondo, lontano dalla storia. Nel 1889, in visita a Parigi, scrive a Leo :“La cosa che mi ha fatto più piacere è il passo in cui scrivi che siamo ancora giovani e che sapremo sistemare la nostra vita personale. Ah, amore mio adorato, come desidero che tu mantenga questa promessa!…
Un piccolo appartamento per noi, i nostri mobili, la nostra biblioteca; un lavoro tranquillo e regolare, le passeggiate assieme, ogni tanto all’Opera, una cerchia ristretta di amici da invitare qualche volta a cena, ogni estate un mese in campagna senza alcun lavoro!… (e forse anche un piccolo, un bambino? Non potremo mai averlo? Mai?”
Rosa si muove in un campo ostile, una realtà dominata da uomini, in cui la grandezza degli ideali è sempre prominente di fronte alla piccolezza delle emozioni private, una separazione imposta che la strazia senza riuscire a domarla. Luxemburg rifiuta le continue sollecitazioni dei suoi colleghi di partito che la spingono ad occuparsi della questione femminile e del diritto di voto per le donne. I motivi di questo rifiuto sono dovuti in parte al timore che si tratti di una manovra per silenziare le sue scomode convinzioni politiche, in parte all’esigenza di misurarsi con il potere nella sua forma più violenta.
In ogni gesto, in ogni parola scritta, emerge la fede incrollabile nel cambiamento, la rivendicazione ostinata della felicità. Dopo la rottura con Jogiches, Rosa si innamora del figlio appena ventenne di una sua cara amica, Kostja Zetkin, al quale da un congresso di Londra scrive: “..improvvisamente qualche traccia di sangue gitano è stata risvegliata dentro me, le note vibranti della notte, con la loro demoniaca magia, hanno toccato certe corde nell’anima dei bambini della grande città..”.
Profondamente delusa dal placido riformismo verso il quale si indirizza la famiglia socialdemocratica tedesca, nel 1914, mentre il partito socialdemocratico appoggia quasi all’unanimità l’entrata della Germania in guerra, Rosa fonda, insieme a Karl Liebknecht, la Lega di Spartaco, formazione politica che si trasformerà successivamente nel Partito Comunista Tedesco (DKP). Luxemburg conduce un’esistenza che stravolge gli stereotipi femminili dell’epoca e allo stesso tempo scuote il dogmatismo e il cinismo della politica maschile. Sarà condannata al carcere tre volte, eppure non indietreggierà mai rispetto alle sue convinzioni politiche, mai abdicherà alla sua vibrante umanità.
“Oggi, questo piccolo canto delicato sul muro, che non è durato più di mezzo minuto, ha riempito il mio cuore di una tale dolcezza, di una tale tenerezza. Mi sono dispiaciuta immediatamente di tutto il male che ho mai potuto fare a degli esseri umani, tutta la durezza di sentimento o di pensiero di cui ho potuto dare prova. Ho deciso una volta in più di essere buona, molto semplicemente buona, ad ogni costo: è meglio che “avere ragione” o tenere il conto esatto di ogni piccola vessazione.”
Una fotografia color seppia ritrae una classe di alunni della scuola del Partito Socialdemocratico tedesco. Siamo a Berlino, nel 1907, e la stanza è gremita di baffi impomatati e baveri di camicia. Scrutando nella folla si può scorgere, tra la fila di uomini con le spalle rivolte a una pesante libreria, un’esile figura di donna . Nonostante la sua posizione defilata nella foto, la donna in questione non è una delle rare alunne della scuola, ma l’insegnante, Rosa Luxemburg.
Professoressa di economia, storia e teoria politica per gli attivisti del partito e i sindacalisti tedeschi, tra i suoi alunni ci sono due futuri cancellieri tedeschi, Friedrich Ebert e Whilelm Pick.
Friedrich Ebert diventerà presidente della neonata Repubblica Tedesca nel 1918, mentre Rosa è ancora in carcere, l’impero tedesco sconfitto, l’imperatore fuggito. Il parlamento, forzato da una situazione sociale caotica, proclama così la repubblica e il partito socialdemocratico, l’unica formazione di massa all’epoca in Germania, si trova a capo del governo. Passano poche settimane e Rosa Luxemburg torna in libertà, le accuse contro di lei archiviate.
Nella sua nuova veste governativa, il partito socialdemocratico tedesco si allontana definitivamente dalle prospettive rivoluzionarie che Rosa e pochi altri avevano sostenuto. Tenere a bada le forze centrifughe della nazione, dove migliaia di soldati di ritorno dal fronte, disoccupati, orfani, assieme alle frange più radicali del movimento operaio, costituivano una costante minaccia di destabilizzazione: questo è l’impegno più pressante del nuovo governo.
Tornata a Berlino, Rosa prosegue la sua attività politica nella Lega di Spartaco e diventa redattrice del giornale di propaganda “la Bandiera Rossa”. Si mostra subito critica nei confronti dei suoi compagni di partito, che sembrano predisporsi all’imminenza di una rivoluzione in Germania. Luxemburg, al contrario, invita all’autocritica, consapevole che la popolazione tedesca esce stremata dalla guerra e che la proclamazione della repubblica, con il partito socialdemocratico al governo, costituiscono dei palliativi sufficienti a calmare i bollori rivoluzionari di una classe operaia alla ricerca di pace, prim’ancora che di rivalsa. Preoccupata dalla precipitazione rivoluzionaria dei suoi colleghi di partito, Rosa rimane ancora una volta emarginata. Liebknecht e gli altri spingono sull’acceleratore della protesta e in pochi mesi gli spartachisti diventano un’insidia concreta per il governo di Ebert.
La risposta non si fa attendere. Il governo socialdemocratico, sfruttando la condizione instabile di migliaia di uomini tornati psicologicamente sfibrati dalla guerra e in cerca di occupazione, rinforza i Freikorps, milizie paramilitari che mettono a disposizione del governo uno strumento di repressione perfetto, che si muove nella zona grigia delle formalità della legge e che diviene via via fondamentale per il mantenimento dell’ordine pubblico: i Freikorps si svincoleranno sempre di più dal controllo dei governi e si evolveranno nelle Sturmabteilung, le S.A., giocando un ruolo fondamentale nell’ascesa politica di Adolf Hitler.
Rosa è in viaggio con Leo Jogiches quando i due vengono raggiunti dalla notizia che gli spartachisti hanno occupato le principali sedi della stampa liberale a Berlino. In città iniziano a circolare volantini anonimi che inneggiano all’uccisione del compagno di partito e amico Karl Liebknecht: Rosa decide che non può abbandonare la Lega di Spartaco in questo momento di estrema difficoltà. Chiede un incontro a Liebknecht, con il quale redigono quello che non sanno essere il loro ultimo articolo politico. I due parlano a lungo, poi progettano la fuga, mentre nelle stesse ore il governo di Friedrich Ebert, uno dei giovani che potevamo scorgere tra gli alunni di Rosa nella foto color seppia, ne ordina la cattura. La notte stessa, il 15 gennaio 1919, i paramilitari dei Freikorps, privi di un formale mandato di arresto, irrompono in un appartamento di Berlino e sequestrano Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Nelle ore successive Rosa viene interrogata e poi uccisa con un proiettile alla testa. Il suo corpo viene gettato nel Landwehrkanal, a Kreuzberg.
Quattro mesi dopo un cadavere di donna viene ritrovato nella Sprea, le fonti ufficiali lo riconoscono come quello di Rosa Luxemburg, ma sulla reale identità del corpo regna tutt’ora il mistero.
Rosa è sparita. Per molti anni si saprà poco della sua esistenza, persino negli ambienti della sinistra radicale, dove il nuovo corso staliniano darà poco spazio allo studio di una pensatrice considerata eretica. Oggi Rosa è tornata. Ciclicamente e per ragioni diverse, il suo personaggio è stato riscoperto e la sua vita è diventata nuova fonte di ispirazione, di riflessione.
Le sue ultime parole, vergate appena poche ore prima della sua esecuzione, sono dedicate alla causa rivoluzionaria. Lette quasi cento anni dopo risuonano come una profezia:
“la rivoluzione già da domani, si rialzerà al cielo con grande fragore, e con vostro sgomento annuncerà “Io ero, Io sono, Io sarò”.
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