Di libri che sono riusciti a farmi piangere ne ho letti pochi. Di libri che sono riusciti a farmi piangere nelle prime quattro pagine ne ho letto uno: Mi riconosci, di Andrea Bajani.
È una lunga lettera d’amore, un omaggio, l’elaborazione di un lutto. Scritta in prima e seconda persona, con uno stile che in un altro contesto avrei forse giudicato troppo lirico —tra i miei appunti di lettura trovo un arrogante “gli perdono il pathos”— Bajani ripercorre gli ultimi mesi di un’amicizia, quella sua di giovane scrittore, con Antonio Tabucchi più anziano e malato. Lo fa infilando una metafora dopo l’altra, come filo di cotone nella trama della tela aida. In un’atmosfera onirica, tra il ricordo e l’apparizione, del tutto simile a Requiem. Tabucchi diventa un Pereira per Bajani. Si manifesta, reale o immaginato, prendendo forma tra le frequenze radio, da una foto di quando portava ancora i baffi, dalle telefonate a tarda notte, tra le righe delle email scritte in caps lock. È un Tabucchi uomo quello che ci svela lo scrittore romano, è un Tabucchi con il mal di schiena, la tosse secca, che ogni tanto si accanisce, egoista. Fa spesso battute, ha una moglie dolce e una nipote sveglia. Certo è un Tabucchi anche scrittore, perché i due aspetti non si possono slegare, “Comincia da dove vuoi, letteratura, vita. Letteratura, soprattutto” dice all’amico quando lo va a trovare in ospedale.
Tabucchi l’ho conosciuto come scrittore, per caso, come succede con le cose belle, e troppo tardi. Ho seguito un corso su di lui all’università, solo perché avevo letto che era il più grande studioso di Pessoa in Italia, e Pessoa aveva dato le parole alla mia teenage angst tardiva di ventenne espatriata. Anche Pessoa lo avevo studiato all’università, il semestre prima. Il corso era “Narrativa italiana del primo Novecento,” feci un esame sulla figura dell’impiegato nella letteratura moderna, parlai di Svevo che proprio italiano non era e di un portoghese. Per farlo dovetti leggere il Libro dell’Inquietudine, cinquecento pagine e più pubblicate postume in cui erano stati raccolti frammenti, appunti, riflessioni, vaneggiamenti.
“La vita pregiudica l’espressione della vita. Se io vivessi un grande amore non lo potrei mai raccontare. Io stesso non so se questo io, che vi espongo, su tutte queste pagine serpeggianti, esista realmente o se sia solo un concetto estetico e falso che ho fatto di me stesso.”
Fernando Pessoa è quello degli eteronimi, per chi non lo ricordasse. Aveva creato svariati alter-ego, ognuno con una biografia e una personalità precisa, ognuno con la sua poetica. Álvaro de Campos, influenzato dal simbolismo e vicino al nichilismo, Ricardo Reis, il più classico e tradizionale tra i poeti pessoani, Alberto Caeiro, l’anti-metafisico e Bernardo Soares, l’impiegato, l’autore del Libro dell’Inquietudine.
Dell’edizione italiana di suddetto libro se ne era occupato Antonio Tabucchi, che non ricordo chi aveva definito il più europeo degli scrittori italiani. Tanto mi bastò per scegliere il corso monografico su di lui qualche mese più tardi. Lessi Il Gioco Del Rovescio, Piccoli Equivoci Senza Importanza, Il Tempo Invecchia In Fretta. Era fortissimo nei titoli. Lessi Sostiene Pereira, lessi Requiem, lessi Notturno Indiano.
È credo con quest’ultimo libro che ho imparato a leggere in un altro modo e ho cominciato a intuire cosa volesse dire scrivere.
La trama si lascia riassumere difficilmente, Roux —abbreviazione per Rossignol, usignolo in francese— va alla ricerca di un amico scomparso l’anno prima a Bombay. In viaggio attraverso l’India il protagonista sembra muoversi come in un sogno, inframmezzato da incontri bizzarri, surreali. Un medico che ha studiato a Londra e a Zurigo, che ha preso “una specializzazione assurda, per l’India. Sono cardiologo, ma qui nessuno è malato di cuore, soltanto voi in Europa morite d’infarto.” Una donna che vuole truffare chi l’ha fatta soffrire. Un profeta jainista dall’aspetto di scimmia che non riesce a leggergli il futuro. Un indiano della società teosofica che parla di Hesse, cita Pessoa. L’apparizione onirica e rivelatrice di Alfonso de Albuquerque primo duca di Goa. Poi Roux riesce a mettersi sulle tracce dell’uomo, il quale si spostava sotto il nome di Nightingale, usignolo in inglese, quasi a prenderlo in giro. Verso la fine il protagonista incontra una fotografa francese a cui racconta la sua storia, ma al rovescio, come se fosse lui ad essere quello cercato. Allora forse capiamo, la ricerca era tutto un pretesto.
Vita vissuta e vita raccontata si fondono continuamente, si rincorrono tra riflessi che rimbalzano da una superficie all’altra, le quali sono abilmente disposte da Tabucchi per creare un gioco di specchi infinito, in cui non è mai chiaro, chi cerca chi, se si cerca un altro, se si cerca se stessi, se si vuole veramente trovare ed essere trovati.
Si viene immersi in un mondo duplicato, speculare. Si ascolta un dialogo continuo che avviene in assenza. Una realtà di seconda mano offerta in frammenti: “Méfiez-vous des morceaux choisis.”
Queste sono le parole della fotografa, che continua a chiedere “Sì, ma cosa c’è fuori dalla cornice?”
Notturno indiano ha così tanti livelli di lettura che non credo ne verrò mai a capo, non so mai quante cose ancora ci potrei trovare. Le parole, le storie, si accatastano e si mischiano in strati su strati di finzione e di speculazione, che rimandano ad altra finzione, ad altre realtà soggettive. Un’immagine riflessa ad infinitum come quella di uno specchio posto davanti a un altro: una continua mise en abyme di se stesso. Così come la letteratura è una mise en abyme della vita.
“Scrivere è dimenticare. La letteratura è il modo più gradevole di ignorare la vita. […]Questa simula la vita. Un romanzo è una storia che non è mai esistita e un dramma è un romanzo senza una narrazione. Una poesia è l’epurazione di idee o di sentimenti in un linguaggio che nessuno usa, poiché nessuno parla in versi.” scriveva Bernardo Soares.
Seguendo l’insegnamento borgesiano i testi di Tabucchi sono richiami e continui rimandi ad altri testi — i propri, quelli altrui— ad altre storie, ad altre realtà soggettive. È un gioco di scatole cinesi, in cui si continuano ad alzare i coperchi senza trovare mai l’ultimo, minuscolo contenitore.
L’unica conclusione a cui si approda leggendo Notturno Indiano è quella di tipo sofistico e circolare degli insolubilia medievali: “né come è, né altrimenti da come è”. O meglio, “La frase che segue è falsa. La frase che precede è vera.”
Qualche mese dopo aver finito di leggere il libro mi trasferii a Lisbona.
Così pirandelliano che mi è venuto il dubbio se sia forse la vita a simulare la letteratura
Lisbona è una città strana, come Napoli, di cui per qualche motivo si sente perennemente la mancanza. Nei miei ricordi le immagini che ho conservato del luogo sono foto sovraesposte, i fiori viola su quegli alberi di cui non ho mai saputo il nome. Il giallo della crema pasticciera onnipresente. Sono volti vecchi, abbronzati, uomini bassi che strascicano le suole lise sulle calçade candide. Nostalgia che si mischia all’odore del liquore alle amarene, perché sì, la saudade, ma non proprio. È uno stile di vita lento, poco chiassoso. È il sole che batte sempre, ma mitigato dal vento. È l’oceano che è come il mare, però freddo. E il Portogallo è un paese che, seppur non la abbandona, dà le spalle all’Europa e guarda altrove.
Così ho fatto anche io, benché avessi voluto leggere ancora Il Filo dell’Orizzonte, Sogni di Sogni, Dialoghi Mancati, benché vivessi sopra a rua Damasceno Monteiro, sono salpata letterariamente alla volta del Brasile e mi sono lasciata incantare da quelle vocali lunghe e altalenanti, dalla melodia che è rimasta in fondo triste, ma canzonatoria, del portoghese di oltreoceano.
Tabucchi e Pessoa li ho dimenticati, come se fossero stati solo un sogno, che mano a mano che ci si sveglia si ricorda solo in parte.
Tornare sui miei passi non lo faccio sempre, a volte sono orgogliosa stupidamente. Mi sono riallacciata allo scrittore toscano per vie traverse, tramite un altro scrittore, Bajani. Forse per quello le lacrime, l’emozione di aver ritrovato una vecchia fiamma, che finché non la si rivede non ci si ricorda quanto la si era amata. O forse, il rimpianto per qualcosa che non si è mai conosciuto, quella sì, è la saudade.
Mi riconosci, che nell’accostamento semplice e geniale di alcune parole, nella cadenza ritmata dei giri di frase, richiama i titoli delle raccolte di Tabucchi. “Le ho detto qualcosa di poca importanza.” I dialoghi, ricamati dentro al testo, alla sua stessa maniera. L’uso dei sogni ad occhi aperti. Sono anch’essi piccoli ami, oppure occhielli in cui affondare di nuovo l’ago e tirare il filo. Per intessere una trama double face da cui Bajani e Tabucchi non si possono più sciogliere. Chissà quanti disegni nascosti tra paragrafi di episodi apparentemente ordinari, quante strizzate d’occhio. Sorrisi accennati tra le pagine e non colti, quanti codici, richiami, rimandi, strati. Quante sfumature.
Anch’esso è un libro di cui faccio fatica a parlare, perché sarebbe come svelare il racconto che un amico ti ha fatto in confidenza. Ma c’è un passaggio che ho voglia di citare.
È quando Bajani rifiuta un invito a cena dell’amico, gli dice di essere in guerra con un personaggio. Tabucchi dall’altra parte del telefono, gli chiede il numero di telefono di questo signore, mette giù e dopo poco chiama di nuovo:
“Senta signor personaggio, avevi detto, mi dicono che lei è un po’ recalcitrante, se l’aggettivo non la offende. Ma la Russia, le assicuro, è un posto carino e potrebbe essere un’occasione per cambiare aria. Ci pensi, mi dia retta. E mi scusi ancora una cosa, signor personaggio, avevi concluso, io non so che gusti abbia lei. Ma se le va una pastasciutta all’italiana, e uno champagne alla francese, sarei contento di averla a cena. Si metta la giacca, per favore, e si porti dietro il suo compare.”
Così pirandelliano che mi è venuto il dubbio se sia forse la vita a simulare la letteratura.
Mi riconosci è costruito sul modello di Notturno Indiano, la presa che ha sul lettore, la stessa. È un dialogo che avviene in assenza, con lo scrittore defunto, con le sue opere, con la sua poetica. La realtà di un rapporto di affetto raccontato in bocconi scelti. Uno scritto di commiato per sopperire alla mancanza, per placare l’inquietudine.
È un addio commosso a un collega, un mentore, un amico. È un’opera stupenda della tradizione tabucchiana.
Concluso uno ho riletto l’altro, ci ho trovato la me di sei anni fa. Ci ho trovato la stessa misteriosa fascinazione. La stupore dell’abbandono a cui mi costringe quel libro è stato uguale ad allora.
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