Emergency Trap - Mogwai
La strada che corre verso Mosul è una striscia di asfalto, di terra e di abbandono. Sento il sapore della sabbia che si mischia al sangue delle cose, sulle labbra brucia la ruggine del giorno. Il paesaggio scorre al ritmo immobile di questo vecchio motorino che arranca, con fracasso e determinazione, nel nulla sterminato di tutto quello che c’è intorno, un nulla bianco e finito, di metallo e di vetri scoppiati, di bottiglie di plastica e di teli unti che si muovono ordinati dal vento, di pile di pneumatici in fiamme disposte di fronte all’ennesimo checkpoint da superare, di mitragliatrici scorticate in spalla a uomini che ti vengono a prendere l’anima, guardandoti negli occhi. Famiglie ormai invisibili navigano sul ciglio del sentiero scrostato; se ne stanno avvolte, schiacciate, dentro macchine riempite allo spasimo da vite divelte. Corpi accalcati, uno sull’altro, a ricordarsi di quello che non c’è, a sistemare caparbiamente dentro i portabagagli stracolmi, tenuti insieme da stracci di corda, gli oggetti inutili di tutta un’esistenza, residuo estremo di ciò che bisognerà ricostruire ancora, di nuovo, per l’ennesima volta.
Mosul è un posto in guerra e da un posto in guerra si esce sempre e solamente sconfitti. In mezzo passa un fiume, il Tigri. Di qua, a Est, le macerie della liberazione iracoamericana e la base di coordinamento e attacco per riconquistare la parte occidentale. Di là, ad Ovest, la distruzione fisica e psicologica portata avanti dall’occupazione dello Stato Islamico, i carri armati che non ce la fanno a entrare per gli stretti vicoli della città vecchia e le migliaia di persone intrappolate fra le bombe, usate come scudi umani dagli islamisti: un tormento che va avanti a botte di sventure da oltre sei mesi e che non conosce pausa. Qui, una volta, vivevano gli esseri umani. Questa, una volta, era una città.
Supero a piedi l’ultimo blocco di controllo. Ci sono le detonazioni, continue, delle bombe. Ci sono le esplosioni dei kalashnikov, le raffiche delle armi automatiche, i colpi dei fucili di precisione che partono dai tetti, le battute dei lanciarazzi. Ci sono le case distrutte, una dopo l’altra, e i pezzi di cemento che si frantumano sotto le suole delle scarpe, mentre cammino piano, lento, attento a non portare su di me l’attenzione, a non lasciare tracce del mio passaggio. Non c’è energia elettrica qui. Non c’è il gas. Non c’è praticamente niente da mangiare. Ogni giorno i camion e la autocisterne di Nazioni Unite e governo iracheno cercano di farsi largo fra i detriti per portare dentro Mosul 2 milioni di litri d’acqua. Ma non ce la fanno quasi mai. La fila per una confezione da 6 bottiglie dura almeno quattro ore e va avanti sino alla notte. E poi ricomincia, ogni giorno.
“Siamo andati via a dicembre, ma per i bambini, non per me, io sarei rimasto a qualsiasi costo e tornerò, su questo non ci sono dubbi. Hanno distrutto la casa che aveva costruito mio padre, la casa dove sono cresciuto io e dove sono nati i miei figli, e la rimetterò in piedi quando finalmente la guerra sarà finita – racconta Hussein Al-Zuhairi, un ragazzone di 33 anni che mentre parla ti guarda così forte che hai paura non ti libererai, mai più, di tutte le immagini nascoste fra le sue parole. Oggi vive insieme a sua moglie e ai suoi cinque figli nel campo profughi di Khazar, 40 chilometri ad Est di Mosul, in una tenda, su una distesa incolta in cui si è sistemato insieme ad altre 2.000 persone – Hanno ammazzato i miei genitori, in un attentato, a dicembre, tornavano a casa dalla distribuzione del pane, ma è esplosa un’autobomba, sai, una di quelle cose che possono capitare quando vai a fare la spesa qui. Ma non gli è bastato. Mio figlio più grande, che ha 16 anni, lo hanno mutilato. Gli hanno tagliato una mano, la sinistra, perché non si è voluto arruolare. Anche questa è una cosa che qui può capitare.”
Ogni giorno all’ospedale di Mosul e alle tende mobili allestite dalla coalizione internazionale arrivano fra i 200 e i 300 feriti di guerra, vittime di esplosioni, mine, proiettili vaganti: un numero praticamente impossibile da gestire con le risorse a disposizione e considerate le condizioni ambientali in cui si è costretti ad operare.
A Mosul una volta vivevano 1 milione e 500.000 persone. Secondo le stime delle Nazioni Unite sono 600.000 gli abitanti costretti ad abbandonare la città nel corso degli ultimi 12 mesi e che oggi vivono, in gran parte, nelle decine di campi profughi allestiti fra Mosul ed Erbil, nel Nord-Est dell’Iraq. Un esodo di proporzioni spaventose, reso ancora più drammatico dal numero di civili uccisi negli ultimi 7 mesi, durante la battaglia per riconquistare il controllo dell’area: 6.000 persone, almeno un quinto delle quali sarebbero bambini di età compresa entro i 10 anni. Ogni giorno all’ospedale di Mosul e alle tende mobili allestite dalla coalizione internazionale arrivano fra i 200 e i 300 feriti di guerra, vittime di esplosioni, mine, proiettili vaganti: un numero praticamente impossibile da gestire con le risorse a disposizione e considerate le condizioni ambientali in cui si è costretti ad operare.
“Quando è esploso il colpo di mortaio stava giocando a pallone con i suoi amici, nel vicolo di fronte a casa. E’ stato il più sfortunato fra tutti perché era il più vicino a dov’è caduta la bomba e i frammenti di proiettile gli si sono conficcati ovunque. Lo abbiamo portato in ambulanza al posto di soccorso ed è stato operato immediatamente: purtroppo abbiamo dovuto amputargli tutte e due le gambe. Ma lui ancora non lo sa, non penso che se ne sia reso conto, per adesso si ricorda soltanto che la sua squadra vinceva 2 a 0 e ce l’ha col suo amico Ahmed perché non gli passa mai la palla.” La storia di Hammadi, che ha 9 anni e per guardarlo ti ci vuole tutta la potenza d’animo che non hai mai immaginato di possedere, me la racconta Paul Osteen, un chirurgo che da Houston è venuto qui, a Mosul, come volontario, e che da anni ha deciso di dedicare la sua vita al soccorso in zone di conflitto. “Faccio il mio mestiere, non sono un eroe e nemmeno un martire. Ho vissuto una vita semplice per lungo tempo, sono nato in un paese ricco, da una buona famiglia e non ho mai conosciuto un grammo dei patimenti che questi esseri umani stanno vivendo. Faccio quello che devo fare, tutto qui. Eppure, ti dico, ormai ho quasi 60 anni, tante esperienze, anche difficili, ma quello che noi stiamo vedendo in Iraq va molto oltre, tanti colleghi vengono qualche giorno e poi vanno via, perché semplicemente non riescono a sostenerlo, dal punto di vista psicologico, quello che succede.”
Arriva la notte e in cielo si disegnano lugubri traiettorie di morte: sono i colpi di artiglieria pesante che, da una parte e dall’altra, i due eserciti continuano a scaricare, senza sosta. E’ l’unico rumore che insiste imperterrito, mentre in mezzo alle macerie i militari ai posti di blocco pattugliano il corridoio stradale, ormai dilaniato, che taglia in due la parte Est della città. L’oscurità non può nascondere l’odore forte, pesante, di calcestruzzo e benzina, un odore che ti si piega addosso e ti stritola, di cui non ti puoi più liberare, neanche quando sei ormai lontano.
Mi metto a riflettere. Cosa potrei rispondere, per tutte le volte che mi viene chiesto “com’è andata”? Per tutte le volte che mi viene domandato “com’è la situazione lì”? Per tutte le volte che qualcuno mi dice “com’è la guerra?”. E penso che per descriverla, la guerra, che faccia ha, che sapore ha, bisogna immaginare il volto delle persone, soprattutto dei bambini.
Bisogna venire qui e guardare negli occhi i bambini, perché la guerra è tutta lì dentro, sta tutta nei loro occhi. Bisogna svegliarsi ogni giorno e mettersi a guardare questi bambini negli occhi.
Bisogna mettersi a guardare la guerra negli occhi.
REDAZIONE
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