Il lavoro di Simon Wilkinson alias CiRCA69 è come una droga che rilascia un effetto prolungato. Uno sconvolgimento a livello inconscio dal retrogusto curioso; ti confonde, ti spinge a chiederti se sia tutto vero. Eppure la sensazione che resta è una costante contraddittoria, ché più ti avvicini alla realtà, più te ne allontani.
Simon Wilkinson si definisce un transmedia artist; nel suo calderone rientra una commistione di musica elettronica, arte digitale e realtà virtuale. Il suo approdo al mondo artistico avviene negli anni ’90 come musicista e videomaker; allora era poco più che ventenne, aveva lasciato l’università per viaggiare a bordo di un Van insieme ad altri giovani della generazione post punk, e i soldi per fare l’artista glieli passava il governo inglese. Quando iniziò a dedicarsi all’intreccio tra arte e tecnologia, ispirandosi ai saggi di Philip K. Dick e con particolare attenzione alla psicologia umana, assunse il nome d’arte CiRCA69. Prima era stato Il Pixel Rosso (2010-2013) insieme alla performer e regista teatrale Silvia Mercuriali, con la quale si era dedicato alla produzione di opere di “autoteatro” (una forma di rappresentazione-interpretazione teatrale nella quale il pubblico partecipa seguendo delle istruzioni, ma libero dal senso di responsabilità nel suo agire secondo le indicazioni degli artisti).
Dal suo blister di pillole di eccitante inquietudine io assaggio The Cube. Due volte.
***
Giugno 2016. Sto facendo il tirocinio a Bologna per il Festival di Arti Performative perAspera e vengo assegnata a Simon come assistente. Prepariamo per lui una sala molto scura, dentro solo due sedie ai capi opposti di un tavolo. Una tenda nera segnala l’ingresso; oltre quel confine si entrerà uno per volta per vivere in grande intimità l’esperienza con l’artista.
Simon ci racconta una storia molto strana che ha letto da piccolo su una rivista fantascientifica regalatagli dal nonno. Otto ragazzi di un college americano, nel ’59, partono con un loro professore per un viaggio e non fanno più ritorno a casa. La polizia, allarmata dai genitori, cerca ovunque, trovando dapprima solo il pullman completamente carbonizzato, senza alcuna traccia dei corpi. Poi, non lontano, nel deserto dell’Idaho, rivengono una struttura in compensato, un cubo nero, grande a sufficienza da poter ospitare delle persone al suo interno. Dentro al cubo ci sono otto lettere dal contenuto criptico, una per ogni studente, indirizzata a parenti e amici, oggi custodite nel museo Burley Historical Society, in Idaho.
La storia è vera? – gli chiediamo. Sì.
Ci viene un po’ la pelle d’oca.
A Simon questa storia resta avvinghiata nei pensieri finché non la sfoga realizzando una serie di lavori in realtà virtuale. Vuole coinvolgere completamente il pubblico, farlo piombare di peso nella storia come fosse uno degli otto studenti. Così, dopo aver letto le lettere, sceglie quella di Steve come modello, e battezza il suo progetto The Cube.
Nel mio ruolo di assistente avevo l’incarico di raccontare la storia a chi prendesse parte a questa installazione-performance il cui nome si richiama alla struttura nel deserto. Aiutavo il pubblico a indossare oculus rift (un visore per realtà virtuale) e cuffie e ne osservavo le reazioni prima, durante e dopo l’esperienza. Fu molto interessante: sembravano tutti piuttosto spaesati, alcuni sorridendo mormoravano wow, altri bloccati non riuscivano più a parlare. Ma per quanto la performance durasse solo un quarto d’ora, il ritorno alla realtà era per tutti traumatico. Una ragazza pianse.
La realtà virtuale tende ad essere conturbante: scinde i cinque sensi, sdoppiando il mondo. Olfatto e gusto sono in contemplazione della realtà fisica; vista e udito si avventurano alla scoperta di un mondo virtuale. Il tatto, che di fatto è ancorato alla realtà conosciuta, costituisce un ponte fra i due mondi nel momento in cui riesce ad interagire con ciò che lo spettatore-performer vede e sente nel virtuale ma che è tangibile solo nel mondo fisico.
Quando ci si siede di fronte a Simon nella stanza non si sa mai bene dosare la fiducia nei suoi confronti. Il suo sorriso dolce e vissuto non sembra mentire, ma la storia è troppo controversa. Gli si concede il beneficio del dubbio per svolgere l’esperienza. Nel mentre che la si vive l’incertezza aumenta: la lettera che viene letta attraverso le cuffie è piuttosto bizzarra, dovrebbe spiegare che fine abbiano fatto i ragazzi, ma Steve confessa solo di trovarsi “beyond the bright black edge of nowhere”. Davvero è tutto vero? Viene voglia di approfondire. E Simon ne dà la possibilità; seduto a bere uno spritz accoglie con estrema gentilezza e disponibilità i dubbi e le domande del pubblico. Consiglia un sito internet creato dal museo dell’Idaho, dove si possono trovare maggiori dettagli.
Qui c’è tutta la storia, pazzesca, di questi giovani scomparsi nel nulla – letteralmente. Chi ha la pazienza di arrivare all’ultima pagina web scopre l’esistenza di una nona lettera, rinvenuta nel cubo solo nel 1969. Il mittente è il professore, Mr Frederickson. Suo padre negli anni ’30 lavorava per la Remington Rand, una fabbrica di macchine da scrivere. Erano tempi di scioperi, e il presidente della compagnia James Rand Jr., fiutato il pericolo, decise di mettere in scena una piccola recita: chiese ad alcuni impiegati “crumiri”, tra cui il padre di Frederickson, di fingersi scioperanti e di comportarsi da agitatori. Lo scopo era quello di presentare gli scioperanti come il nemico, creando una divisione tra i noi, i giusti, e i loro, gli anarchici disturbatori dell’armonia – spiegherà lo storico Noam Chomsky parlando di questo evento che passa alla storia col nome di The Mohawk Valley Formula.
Di fatto ingannati, riportando l’accaduto, i media distorsero la realtà.
***
Aprile 2017. Ho concluso da circa un mese la stesura della mia tesi di laurea su The Cube e ho modo di rincontrare Simon a Berlino, in occasione dell’A MAZE. Berlin 2017, un festival a tema videogiochi e realtà virtuale che si è svolto dal 26 al 29 aprile presso l’Urban Spree. Simon è stato invitato a prendere parte a un incontro sulla VR (Virtual Reality) a confronto con la letteratura, e anche qui propone l’esperienza di The Cube.
Per quanto l’A MAZE sia stato divertente, istruttivo e ben organizzato, bisogna dire che purtroppo l’installazione di Simon è stata abbondantemente svalutata. Ospitata in una sala piena di luce in cui la gente faceva la fila per accedere alla toilette, l’intimità con l’artista, sperimentabile durante il festival bolognese, era completamente svanita.
Per scambiare due chiacchiere ci prendiamo un caffè nel primo bar sulla Bundesstraße. Glielo chiedo se sia voluta questa sistemazione, ovviamente risponde di no. Mi sorge una curiosità: A MAZE è un festival di videogiochi, perAspera un festival di arti performative. Quanto è importante inserire il suo lavoro nell’una o nell’altra categoria? Non così tanto. Quello che conta è cercare di trovare un modo per comunicare con l’interlocutore e non esiste un linguaggio che riesca a descrivere in modo perfetto alcun concetto, idea, opinione. I vocaboli sono inaccurati, per questo le parti scritte nel suo sito sono ridotte all’osso: a un minore condizionamento sintattico corrispondono più interpretazioni individuali. Ciò che lo interessa sono le reazioni che il suo lavoro provoca.
Per questo Simon punta a un’immersione completa: quando la Federetion Square di Melbourne, Australia, gli commissionò un lavoro sull’argomento, realizzò Beyond The Bright Black Edge Of Nowhere, una performance live in cui otto ragazzi leggevano le lettere degli adolescenti scomparsi. Gli spettatori erano molto impressionati, ma troppo “al sicuro” nel mondo fisico. Era il 2014, lo stesso anno in cui uscivano i primi prototipi di oculus rift, e Simon prese la decisione di raccontare la storia con il mezzo virtuale. The Cube venne prodotta nel 2015, nel 2016 arrivarono How Can I Ease Your Mind Without Lying e Slave To Mortal Rage.
Alla fine di quest’anno, invece, una performance complessiva che andrà sotto il nome di Whilst The Rest Were Sleeping avrà luogo a Città del Messico: all’interno di un’unica sessione si potranno sperimentare le tre realtà virtuali e una performance live di musica elettronica. Lo spettatore-performer avrà un’App sul telefono e la possibilità di confrontarsi con gli altri spettatori-performer. Lo scopo, mi spiega, è quello di creare una variante infinita di interpretazioni della storia e del suo lavoro, perché, in fondo, non c’è una verità assoluta.
O forse sì. Ma non lo scopriremo mai, perché non è importante darsi delle risposte, ma porsi delle domande. Suggerirci un occhio critico nei confronti di ciò che leggiamo, guardiamo, sperimentiamo è l’obiettivo di Simon, così come quello di Mr Frederickson nel raccontare della Mohawk Valley Formula. “Non ho studiato personalmente il Global Warming – esemplifica – so che esiste perché qualcun altro mi ha detto che esiste. Ho letto degli articoli a riguardo e ho deciso di credere a ciò che stavo leggendo”. La sua responsabilità come artista è quella di chiedere al pubblico “perché credi in quello in cui stai credendo?”.
Durante una conferenza a tema transmedia immersion tenutasi nel 2015 in Australia, quando l’intervistatore gli domanda se sia etico, da parte dell’artista, “fictionalize the world” attraverso la sua opera, lui risponde che anche la morale è una costruzione umana; l’artista ha un ruolo da libero pensatore democratico: tagliare le catene ad un’imposizione politico-commerciale che avviluppa la società; per fare ciò deve essere onesto, e non importa quale sia il modo in cui svolge il suo compito. Non importa se la storia degli otto ragazzi scomparsi sia vera oppure no. L’importante è riuscire a spingere il pubblico ad analizzare criticamente il mondo che ha intorno.
Questa “war for reality” – citazione tratta dalla lettera di Mr Frederickson – viene in effetti condotta da Simon tramite la realtà virtuale, una finzione elegante, con una tecnologia che ha la pretesa di simulare in un modo quasi perfetto il reale. Un controsenso non indifferente. Glielo faccio notare. Mi risponde che in quella conferenza ha usato la parola honest e non truthful per un motivo: “Ogni volta che dico che qualcosa è vero è una bugia; ma posso dirti, onestamente, che io penso che quel qualcosa sia vero”.
Per Simon è molto più eccitante sapere di non avere risposte che essere convinto di averne.
Tutti quelli che hanno un’ideologia precisa, dice, tutti quelli che si riconoscono in una precisa categoria, sbagliano. La cosa migliore è non credere in niente, è vivere e improvvisare: bisognerebbe agire in base a ciò che si ritiene giusto, non in base a ciò che un partito politico, una religione, un gruppo sociale ti spinge a pensare: “Quando ero piccolo mia madre mi portava con sé in banca; c’era un cartellone che indicava tutte le tappe dell’essere umano: elementari, matrimonio, figli, tutto. Ma perché mai la banca doveva dirmi come la mia vita sarebbe dovuta andare?”.
***
Simon Wilkinson è ora alle prese con una nuova installazione che esula dal contesto della storia dei ragazzi dell’Idaho ma che si nutre dello stesso credo artistico. Al momento i dettagli sono ancora pochi, ma fa un accenno alla collaborazione con gli accademici del Cambridge University’s Centre For The Future Of Intelligence relativamente al rapporto tra il suo lavoro e l’intelligenza artificiale.
Niente di più per ora, ma per non restare completamente a bocca asciutta, ci si può far stuzzicare dal promo a 360° di While The Rest Were Sleeping.
Segui Greta Canestrelli su Yanez
Foto di copertina: Simon Wilkinson – screenshot
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin