Mi fanno male le gambe. Cammino un po’ avanti e indietro, poi mi fermo. Sposto il peso del corpo dalla destra alla sinistra, ma niente. Sono in piedi da ore. Il banco frigo alle mie spalle mi dà il tormento. Ronza, è freddo, non ci si può neanche sedere sopra altrimenti si rischia di schiacciare qualche formaggino. Inoltre mi hanno fatto vestire come un idiota. Pantaloni e camicia per vendere due cartoni di latte al banco frigo del supermercato. Ad Abbadia Alpina, per giunta, manco fosse una metropoli. La verità è che questo latte non lo vuole comprare nessuno, nemmeno con i duecentocinquanta grammi di pasta in omaggio. Non importa quanto riesca ad allargare gli angoli della bocca e quanti denti riesca a mostrare. La poca gente che passa da qui si alza il colletto della maglietta, coprendosi dagli sbuffi gelidi del banco, mi ignora e passa al più confortevole reparto Igiene Personale. Mi fisso le scarpe. Alcuni ciuffi di capelli neri sfuggono alla presa dell’elastico e mi ricadono sulle tempie, perpendicolari al pavimento. Noia. Mi guardo intorno e ho una piccola vertigine. I reparti tutti uguali che si susseguono a ripetizione, il disegno geometrico delle piastrelle bianche del pavimento e il movimento continuo e omogeneo delle pale del ventilatore a soffitto mi danno la nausea. Mi sbottono un po’ la camicia, nonostante il freddo polare. Domani avrò il raffreddore probabilmente. Pazienza. Per un attimo mi viene in mente di sedermi su una fila di formaggini, ma poi la mia attenzione viene catturata da un tizio che si ferma col suo carrello proprio a qualche metro da me. Ha un paio di pantaloncini cachi e una felpa della tuta acetata. Indossa le ciabatte, quelle di plastica coi buchi che si comprano in posti come questo e che mi fanno sempre pensare a un cartone animato di strani omini blu col cappello. Il tizio è imbambolato di fronte al banco frigo, la luce bianca dei neon gli rimbalza sull’ampia stempiatura e gli dà un aspetto catarifrangente. Nella mano destra regge un pacco di sottilette, in quella sinistra un cartone di panna da cucina. Fa roteare gli occhi dall’uno all’altro oggetto e sembra confuso. Osservo meglio la sua espressione mentre mi appoggio leggermente ad una delle sporgenze laterali dell’enorme frigo.
Avevamo questa casa delle vacanze a Cefalù con i muri esterni macchiati di salsedine. Un giorno d’estate sto correndo lungo la strada asfaltata che scende in mezzo ai cortili e porta al mare. Gli arbusti gialli abrasi dal sole si affacciano dai muretti come scheletri di spine tramortiti dall’afa. Non vedo niente perchè negli occhi ho un miscuglio di lacrime e vento e così corro alla cieca. Indosso delle infradito scassate che ad un certo punto si rompono impigliandosi in una piccola buca. Io cado con la faccia in avanti sbucciandomi mani ginocchia denti e anche qualcos’altro che non so cos’è ma brucia più di tutto. A quest’ora fa un caldo intollerabile e la gente se ne sta rintanata al fresco delle verande, sul retro delle case. Nessuno si accorge di me. Le lacrime mi cascano pesanti dalle orbite, incontrano il catrame bollente dell’asfalto ed evaporano all’istante. Il sangue, invece, rimane. Si ammucchia copioso tutto intorno, è ovunque, e per un momento mi sembra di essere un’isola. Immobile e sola in un mare scuro e denso. Mi ritrovano così tre ore dopo, accartocciata e sbiadita. Ho sedici anni, sono esile e sottopeso e così è probabile che non supererò la notte, ho perso troppi liquidi. Mia madre è un sarcofago vuoto pieno di ragnatele. Non ha mai saputo proteggermi da niente. Mio padre all’ospedale non ci viene perché ha deciso di non voler più condividere niente con sua moglie, a maggior ragione una figlia quasi morta. Inaspettatamente, però, io vivo. Due settimane dopo, il medico decide che sono abbastanza in forze da poter tornare alle mie vacanze. Mia madre mi aiuta a scendere le scale dell’ospedale e poi a salire in un taxi che odora di forno crematorio. L’abitacolo è troppo stretto per contenerci entrambe, devo impegnarmi molto per credere davvero che lei non esista. Ma lei è troppo vicina e sta combattendo contro qualcosa e io lo sento e poi sento anche lei che sta parlando, apre la bocca e dalla bocca escono i suoi suoni, allora io mi sintonizzo su quella frequenza lontanissima e capisco che lei sta proprio dicendo: “Tuo padre se n’è andato”. Io visualizzo mentalmente in 3D ad alta definizione la parola “indimenticabile”.
Il tizio in acetato al banco frigo mi nota. Si volta, dedicandomi ora tutta la sua attenzione. Con un movimento infinitamente lento delle braccia mi mostra il cibo che ha tra le mani, sporgendosi in avanti. I suoi occhi sono due parabole nere che si piazzano a casaccio sopra di me.
“Mia moglie mi ha lasciato”.
Le sottilette. La panna.
“Si vede”, gli rispondo mentre il mio corpo inizia a scivolare lentamente verso il basso.
“E dimmi, voi figli state molto male quando i genitori si lasciano?”
Lo guardo. E più lo guardo, più sento che brucia. Come la caduta sull’asfalto incendiato d’estate col sangue, l’isola e il resto, quella volta che papà se n’è andato. Brucia, tutto.
Lui fa un breve cenno con la testa, fraintendendo il mio silenzio, caricandolo di un significato inesistente. Ripone gli oggetti nel banco di fronte a lui, nella fila sbagliata, ma non importa. Niente importa ormai. Nemmeno il fatto che adesso sono completamente seduta su un pacco di formaggini cremosi che avranno perso la propria consistenza.
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