Le voci sono inizialmente lontane. Si sente il fruscio dei teli che vengono spostati, una voce dalla forte cadenza settentrionale si allontana dal registratore. Dalla stoffa emergono apparecchiature del secolo scorso, quel Novecento trionfo della tecnica, dell’uomo che si sgancia dalla tradizione per concretizzare i suoi voli pindarici; mancano i microchip, ma il wireless c’è già tutto e sta qui, sotto ai miei occhi.
Sono due i radioamatori che si raccontano al microfono: padre e figlio, con un pizzico di spirito del tempo che ha permesso loro di portare avanti per anni la passione del radiantismo. “Stai fotografando un apparato radioamatoriale in HF. Questi” – si gira indicando sagome scure con tasti e manopole – “sono altri apparecchi radioamatoriali. Questo qui sopra invece è un ricevitore multibanda, quest’altro un ricetrasmettitore”.
Gli apparecchi si somigliano un po’ tutti, differenziati dall’avanzamento della tecnologia che ne ha fatti diventare alcuni più obsoleti degli altri, accomunati dal silenzio imposto dal recente smantellamento dell’antenna, cuore pulsante dell’attività radioamatoriale. Attività complessa, fatta di passione, ma anche di regole: stando all’ARI (Associazione Radioamatori Italiani) “Il radioamatore è una persona autorizzata alla trasmissione, ovvero che ha conseguito la cosiddetta “patente” e la successiva “autorizzazione generale”.”
Ci sediamo attorno al tavolo, le voci tornano vicine: “Da dove deriva questa passione? Deriva dal fatto che da militare ero nelle trasmissioni e ho fatto il corso di marconista.” Erano i primi anni Ottanta quando padre, figlio e resto della famiglia trascorrevano i fine settimana in questa casa tra boschi e prati ed il baracchino emetteva quel tipico rumore di disturbo. Il CB troneggiava su un mobile di quelli a vetrinetta ed emetteva assorto e intermittente i richiami di quei quaranta canali della Banda Cittadina, dall’alto dei suoi parchi 5 Watt collegati ad un’antenna da 27MHz.
Si trattava di un hobby ancora molto sporadico, ma abbastanza impertinente da provocare gli aspri rimproveri del nonno, che invece di godersi famiglia e montagna, si ritrovava immerso in quel continuo gracchiare di CQCQ. “A quel tempo c’era un bailamme incredibile di frequenze, potevi parlare con chiunque tutto il giorno; c’erano anche quaranta chiamate al minuto! Eh sì, per i non addetti ai lavori era un suono molto fastidioso”.
Poi arrivarono i ladri, s’impossessarono del baracchino, tornò la quiete dei weekend campestri: quel disturbo quasi incessante si era adesso trasformato in assenza e silenzio. Il padre coinvolse ancora di più il figlio, ormai adolescente, e ci si diresse così alla volta della pianura nebbiosa: era il 1993 e bisognava andare a Milano per conseguire la patente e far ripartire il sogno. Memore di essere riuscito, con il solo CB, ad agganciare la Sicilia dalle montagne del Nord Italia, ora il padre sognava di tornare a trasmettere e di farlo con tutti i crismi, munendosi di apparecchiature idonee ed entrando in contatto con radioamatori di tutto il globo: grazie a un mix di preparazione e passione vennero abilitati entrambi.
Iniziò così un’epoca di ore passate ad agganciare mondi lontani, cavalcando l’etere sulle ali della notte, cercando le valvole giuste, acquistando marchingegni costosi, ma soprattutto continuando a sperimentare. “Il segreto del radioamatore non è l’apparato: è l’antenna, è l’antenna, l’antenna” riprende, con un curioso effetto eco, come se il segnale si stesse smorzando nel ricordare con amarezza di non averne più una. “Noi avevamo costruito un’antenna che rispettava i parametri ed era una DELTA LOOP, bellissima.”
Grazie all’abilità di padre e figlio e alla precisione di quest’antenna direzionale montata su un traliccio, si era riusciti a fare collegamenti notevoli, anche per via di un amplificatore lineare (cosa in realtà non permessa) che aumentava notevolmente la potenza a disposizione. Qualche piccolo sgarro alla regola in nome del fuoco sacro della scoperta non sembra poi così grave: i due non disturbavano altre frequenze e si attenevano il più possibile al codice etico del radioamatore, che fa la sua comparsa sul tavolo mentre parliamo.
Mentre leggo i punti, lui mi sparpaglia davanti una serie di cartoline provenienti da Nuova Zelanda, Israele, India e Sudamerica: attestavano di avere ricevuto chiaramente il segnale e garantivano la soddisfazione di queste due generazioni in ascolto. “Qui si stava su delle notti intere, io e mio figlio, a parlare con il mondo. Poi di punto in bianco, siccome l’antenna l’avevamo costruita con delle canne da pesca (la struttura portante era in alluminio, ma i baffi erano fatti con canne, non le canne da pesca belle, ma le canne del canneto, al cui interno oppure attaccato esternamente correva un filo della luce) e il tempo le aveva consumate, abbiamo smantellato tutto e basta. Sono seguiti migliaia di tentativi di antenne che abbiamo fatto negli anni: l’antenna è sempre un terno al lotto, la devi costruire e calibrare nel modo giusto, bisogna esser bravi. Abbiamo fatto le filari, le verticali, abbiamo provato in punti diversi…”
Era un’attività molto manuale: si cercavano e saldavano i pezzi, ci si inventava modifiche ad hoc… “Oggi invece se uno vuole fare il radioamatore, si compra tutto: non si diverte più nessuno a costruire, anche perché non si trovano più le valvole. In quegli anni invece c’era il boom di queste componenti che poi andavano assemblate. Per carità, ci sono ancora moltissimi radioamatori, ma più nessuno si diverte a costruire.” Stando al sito dell’ARI, gli iscritti in Italia sono circa 15.000. Forse sono un po’ nascosti e da scovare, ma comunque presenti: “io ne conosco tanti che passano giornate intere a modulare, a parlare! Sono ancora in contatto con loro, ci si trova anche, ma ormai ci si sente solo con il telefonino.”
Delle comunicazioni via smart phone parlo a lungo anche con il figlio, al punto di fare mia l’idea di chi ha passato anni a modulare: le nostre conversazioni, che siano scritte o orali, passano ormai tutte da satellite. Nel caso di calamità naturali, oppure di attentati terroristici, il rischio di restare isolati è forte e reale. “La bellezza è che se per caso venissero a mancare di colpo tutte le reti cablate, i server e via dicendo, le radio funzionerebbero comunque. E potrebbero venire riscoperti di colpo i radioamatori. Con la radio tu comunichi sempre, perché non è possibile interrompere l’etere.”
Gli episodi sismici degli ultimi mesi hanno riportato alla luce la bravura dei radioamatori. “Tendenzialmente uno che è radioamatore ha sviluppato una sensibilità umana che lo porta ad avere un occhio di riguardo verso queste situazioni. Perché un radioamatore bravo deve essere intelligente, curioso e sensibile.” Per lui che ha iniziato ad ascoltare quando era ancora alle scuole elementari, diventare radioamatore è stato importante soprattutto per vincere la timidezza, acquisire sicurezza e proprietà di linguaggio e incontrare molte persone. Mi racconta di essere ancora in contatto con qualche “collega”, ma di non conoscere nessun radioamatore attivo giovane: chi ci si dedica rientra per lo più nella fascia d’età tra i 45 ed i 55 anni.
“Chi nasce radioamatore, muore radioamatore”, ribadisce. Ma nella fascia grigia che intercorre tra la vita e la morte, c’è il tempo di conoscere, anche solo per il lampo di una breve conversazione, persone lontanissime. “C’è una frequenza che si chiama “radioamatori nel mondo”, appena fuori la banda ufficiale, pensata affinché le persone emigrate possano comunicare con le rispettive nazioni di appartenenza. Ti sembra che siano dietro l’angolo e invece sono dall’altra parte del mondo! Con la radio il fascino aumenta rispetto al telefono, cambia il modo in cui ricevi la voce”. Il fascino resta anche per quelle conversazioni avvenute a pochi chilometri di distanza: ci sono tante persone che si sono conosciute via banda CB. E anche alcuni amori sono nati proprio così, tra ragazzi che vincevano con la voce il muro della propria timidezza, passando le serate a corteggiarsi da una soffitta all’altra.
Spengo il registratore e rivado con la mente a quel periodo che va dalla seconda metà degli anni Settanta fino alla seconda degli anni Novanta e che solo in parte ho vissuto. La liberalizzazione delle frequenze radiofoniche, i baracchini e le antenne, anche abusive: “Erano anni in cui tutti erano in qualche modo sulle frequenze, l’unica forma di raggiungimento di comunicazione pura. C’era un traffico inimmaginabile! Quando io ero piccolo ed abitavo a Brescia, la sera come niente c’erano attive 300-400 persone.”
E forse è proprio il fattore temporale a rappresentare il cuore del radiantismo: una passione che fa perdere il conto delle ore, mentre chiusi in una stanza si sorpassano i chilometri; un gioco di hic et nunc, che raramente ti porta ad agganciare due volte la stessa persona sulle lunghe distanze (a volte per la pura coincidenza che l’onda ha rimbalzato sul suo tetto e non sulle tegole del vicino). Un sogno che nella nostra storia ha avvicinato padre e figlio; a ben vedere anche un fenomeno fisico, che va oltre l’immediata comprensione. “Mi è capitato più volte di entrare in contatto con persone in altri continenti e di sentire la loro risposta alla mia domanda prima ancora che avessi finito di formularla: dovevo ancora mollare la portante che l’altro già si era messo a parlare. E più aumentava la distanza, più il fenomeno si avvertiva. Sembra impossibile, eppure è così!” Magie di etere, microfoni e cuffie.
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