“Quindi adesso pensi di essere pazzo?”
A dire la verità sì, lo penso. Sto seduto su una sedia scomoda in cui mi sento affogare, in uno studio asettico al secondo piano di un edificio brutalista, costruito non si sa con quale acrobazia catastale a neanche un chilometro da Piazzale Michelangelo, a Firenze. Le finestre sono alla mia destra, è bel tempo, fa caldo e io ho appena scoperto di essere depresso. Non depresso triste: depresso depresso. O “vittima di depressione maggiore”, clinicamente parlando. Cosa fare quando si è depressi? Mi disturba l’idea di essere vittima di qualcosa, però non ho lucidità sufficiente per impuntarmi su questioni linguistiche e accetto il verdetto.
“I depressi mica sono pazzi!”
Non ho ancora risposto alla sua prima domanda, ma allo psichiatra che mi sta davanti deve essere bastata la vista di un essere umano di 23 anni con la barba lunga, che parla di sé in lacrime e che non alza gli occhi oltre il piano della scrivania. Ha avuto la sua conferma senza che dovessi aprir bocca: sono sicuro di essere pazzo. Nella mia testa mi vedo già ricoverato per l’eternità al quarto piano dell’edificio brutalista (più in alto è il piano, più si è pazzi), con la mano all’altezza del petto, come un novello Napoleone e il camice bianco tragicamente aperto sul di dietro che mi lascia il culo scoperto. È uno stereotipo totalmente idiota, ma l’idea di soffrire di una malattia psichiatrica non mi aiuta ad essere razionale.
Il dottore che sta provando a tranquillizzarmi sul mio stato mentale ha un marcato accento campano. Questo mi fa sentire un po’ meglio: quanto può essere grave, dopotutto, una malattia che ti viene diagnosticata da qualcuno che parla come Massimo Troisi? Anche questo è un pensiero idiota, ma voglio essere indulgente con me stesso e lascio che la mia testa vaghi a ripescare le battute di “Non ci resta che piangere”. Ora che sono depresso posso permettermi qualsiasi cosa, senza vergognarmene.
“Non sei pazzo, ma non sarà facile né breve. È curabile, ma potrebbe ritornare in futuro, questo è bene che te lo dica”.
Il dottore è chiaro, non vuole che io sottovaluti la cosa: mi sta presentando il mio avversario e mi sta spiegando che non è un qualsiasi sparring partner, il pugile che si mena facilmente durante gli allenamenti. Il primo incontro è già con un peso massimo. E io ho pensato bene di perdere ben 5 chili nei mesi precedenti, mangiando poco, dormendo pochissimo e angosciandomi parecchio. Non sarà un incontro di pugilato, ma un massacro. Per farmi coraggio, mi rimetto a piangere.
Passo il resto della conversazione in uno stato quasi catatonico, ricordo solo concetti e frasi sparse, immagini depresse: la prescrizione di medicinali, alcuni effetti collaterali, il fatto di doverli prendere regolarmente e per un lungo periodo. Poco prima di andare via lo psichiatra mi dice la cosa che mi rimarrà più impressa, che mi tornerà in mente spesso durante la mia convivenza con la depressione. “Ne soffriva anche Churchill, lo sapevi? La chiamava il cane nero”.
Churchill ha sconfitto la Germania nazista portandosi appresso questo bestia scura, talvolta mansueta e talvolta aggressiva. Lo osservava nelle notti insonni, quando il primo ministro era atterrito dall’angoscia della sconfitta, mentre le città inglesi bruciavano. La vedeva in un angolo della stanza, dietro al fumo denso dei suoi sigari; era la sua fedele compagna durante le riunioni d’emergenza, i comizi e le visite. E c’era anche durante la parata per la vittoria.
Esco dallo studio. Ho adottato il mio cane nero e lo sento ansimare alle mie spalle. E lo temo perché so di non essere forte come Churchill.
“La depressione è una malattia democratica: colpisce tutti” diceva Indro Montanelli. Purtroppo il sapere di non essere solo non mi ha mai consolato; secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2017 i depressi clinici sono circa 300 milioni in tutto il mondo, parlando solo dei casi conclamati; di essi, meno della metà riceve assistenza adeguata. L’incremento dei casi nel decennio 2005-2015 è stato del 18%; è attualmente la malattia più diffusa al mondo e non accenna a rallentare la sua espansione, soprattutto fra i giovani.
Lo studio dell’OMS sottolinea poi quanto sia conveniente per i servizi sanitari nazionali investire maggiori risorse in ricerca e cura: il trattamento medico di un depresso costa 1 dollaro, ma un depresso guarito fa guadagnare 4 dollari grazie alla recuperata produttività.
La riduzione a numeri e guadagni mi lascia perplesso. Non capisco come si possa misurare la rinnovata produttività: le ricadute sono calcolate? E i soldi spesi per curare i casi più gravi che spesso non guariscono? E infine, quanto si spende per curare chi decide di non essere più un peso per se stesso o una risorsa produttiva per la società? Tradotto in poche parole: quanto costa chi si suicida?
Ed ecco l’argomento scomodo, quello da evitare il più possibile. È l’elefante nel corridoio a cui si cerca di non prestare attenzione. Dopo aver già scritto 55 righe mi sembrava giusto affrontare il pachiderma chiedendogli gentilmente di fare spazio.
Il decorso negativo della depressione clinica è proprio il suicidio; esattamente come un’altra malattia degenerativa non curata, di depressione si può morire. Circa il 60% delle persone che decidono di concludere volontariamente la loro esistenza soffrono, o hanno sofferto in passato, di disturbo depressivo maggiore, o sindrome depressiva. 800 mila suicidi: ogni anno una città grande come Torino si cancella dal mondo.
Il fatto che in questo momento stia battendo sui tasti significa che a me è andata bene. Non perché sia più forte o migliore di altri: ho solo avuto più fortuna. Dopo la visita dallo psichiatra è iniziato un periodo di alti (pochi) e bassi (moltissimi) durato sei anni; ho speso molto del tempo tra i 23 e i 28 anni a cercare di capire se le normali tristezze quotidiane fossero, appunto, “normali” o il campanello d’allarme di una ricaduta. Non è facile capirlo, soprattutto all’inizio. Quando non sai cosa hai davanti la miglior soluzione sembra quella di cristallizzarsi e non agire per evitare di peggiorare la situazione. Ti senti su uno strato sottile di ghiaccio che può rompersi con un passo falso e farti precipitare nell’acqua gelida.
Non ho capito da solo che c’era qualcosa che non andava; non mi sono svegliato una mattina con in testa la decisione spontanea di andare da uno psichiatra. Stavo male, ma non capivo perché e pensavo che prima o poi la tristezza sarebbe sparita da sola, rifugiandomi nella routine quotidiana o distraendomi. E invece stavo sempre peggio, intristendomi ancora di più per la mia incapacità di vivere come tutti gli altri. Avevo inserito il pilota automatico delle mie funzioni primarie: respiravo e mi muovevo, ma era escluso che potessi fare di più.
Chi mi stava vicino ha capito quello che io non riuscivo a realizzare: ero entrato su un’autostrada che non prevedeva uscite, senza caselli né autogrill dove riposarmi. L’avrei percorsa a folle velocità e fino in fondo se non fosse stato per la gentile insistenza di pochissime persone. E io non ho facilitato il compito: ho rimandato e rimandato, trattando male chi tentava di aiutarmi. Non ho mai sopportato l’insistenza, ma dovrei ringraziare chi non ha mai smesso di scrollarmi dal torpore mentre mi stavo accartocciando su me stesso.
I primi mesi di cura sono stati un incubo: pretendevo dai farmaci dei risultati immediati. Mi aspettavo di ritornare ad essere felice in pochissimo tempo. Felice… non sono mai stato un allegrone. Ammetto senza vergogna di avere un carattere crepuscolare, termine indulgente per giustificare una perenne malinconia.
Mi correggo quindi: dalla cura mi aspettavo di ritornare alla mia abituale cupezza. Ogni mattina, dopo aver aperto gli occhi, cercavo di ordinare nella mia testa un elenco di tristezze assortite: ero più o meno disperato del giorno prima? Ero in grado di affrontare il pensiero di una giornata fuori dal letto? E così passavo almeno un paio d’ore a fare questa specie di lista della spesa dell’angoscia.
Ripensandoci adesso mi rendo conto di essere stato una pessima compagnia in quel periodo: immaginate una persona accanto a voi che osserva il vuoto mentre le state parlando. Poi, di punto in bianco, si intristisce e se ne va. Non è carino, soprattutto se stavate raccontando di quanto vi eravate divertiti alla festa la sera prima. Credo di essere stato l’inconsapevole sabotatore di molti entusiasmi: non lo facevo certo apposta, ma il risultato finale era comunque quello.
Parlavo poco di ciò che mi stava succedendo: avevo paura anche io del marchio che troppo spesso le persone depresse si portano addosso.
Il numero di scuse che ho usato per evitare persone e situazioni sociali non è quantificabile e so di aver messo a dura prova la pazienza di un gran numero di persone. Avrei dovuto essere più sincero e dire quello che stavo passando; non dovrebbe mai essere una vergogna ammettere di stare affrontando una cura.
In un mondo ideale tutti si stringerebbero intorno ad una persona in difficoltà, offrendole aiuto, conforto, parole gentili. Non funziona così, soprattutto con la depressione: è difficilissimo stare accanto a qualcuno che spesso non sa neanche spiegare perché sta male. Tentare in ogni modo di far capire agli altri da dove venga il dolore, ma sapere che è radicato così in profondità da essere inesprimibile: è snervante, si sa che c’è perchè lo si sente, ma questo è tutto. È come negli incubi, quando si cerca di urlare ma la bocca si apre senza emettere alcun suono.
Non tutti sono in grado di aiutare una persona depressa, e in questo non ci trovo niente di biasimevole. Il vero problema è che molti non vogliono comunque capire, né tantomeno accettare, l’ammissione della malattia. Per loro si rimane “pazzi” in ogni caso.
E io ho avuto paura: tra essere bollato come pazzo e diventare un’ombra, ho scelto la seconda opzione.
Mi è capitato di incontrare altre persone depresse mentre stavo male: alcune si nascondevano come me, altre ne parlavano con tranquillità. Cercavo di studiarli attentamente: sembravano esseri ordinari, come speravo di essere anche io. Però mi ero convinto che avessimo tutti un segno distintivo: una specie di leggera curvatura all’ingiù degli angoli esterni degli occhi, una tristezza appena percepibile nello sguardo. Ho smesso di guardarmi allo specchio per questo: temevo di vedere anche sulla mia faccia la stessa curvatura degli occhi, di essere riconoscibile anche senza ammettere alcunchè.
A dire la verità anche adesso che sto bene non amo gli specchi; o forse, in fondo, ho ancora paura di scoprire nel mio riflesso che il velo di tristezza non se n’è mai andato del tutto.
Alla depressione non basta nutrirsi della disperazione del suo portatore: è ingorda, si abbuffa di qualsiasi dolore incontri sulla propria strada, sia esso di persone vicine o di perfetti sconosciuti dall’altra parte del mondo.
Il funzionamento della normale empatia inizia a collassare, estendendosi a dismisura fino a diventare un buco nero, pronto ad inghiottire qualsiasi cosa gli si presenti davanti.
Vivevo ogni tragedia come se fosse capitata a me, in alcuni momenti percepivo quasi dolore fisico; anche guardare un telegiornale era diventata un’esperienza inaccettabile. Può sembrare molto umano addolorarsi per un terremoto dall’altra parte del mondo; e lo è, a patto di mantenere la distanza emotiva necessaria per sopravvivere senza soccombere al dolore assoluto. Altrimenti diventa un’agonia senza fine, alla quale si somma il senso di colpa: mentre io ero lì a guardare la gente morire, cosa stavo facendo di concreto? Niente. Anzi, mi stavo solo preoccupando di quanto stessi male. Ero un egoista e quindi mi meritavo il peggio.
Purtroppo non capitava soltanto davanti alle immagini in Tv o leggendo un giornale: alcuni mesi dopo aver iniziato la cura ho fatto un viaggio. Non ricordo dove stessi andando, ma non è importante. Il fatto che fossi in grado di prendere un aereo significa che pian piano le cose stavano migliorando, ma non ero ancora in grado di affrontare tranquillamente la quotidianità.
Ricordo di essermi addormentato durante il decollo e di essermi risvegliato di soprassalto dopo un tempo indefinito. Era un volo serale, le luci della cabina erano soffuse e i rumori quasi assenti, a parte il rombo costante dei motori. Mentre cercavo di riprendermi dal torpore ho pensato che avrei voluto che l’aereo precipitasse. Anzi, ho fatto di peggio: ho sperato che succedesse con tutte le mie forze. Mi sono concentrato così tanto che ho sentito il boato della carlinga che si frantumava, l’aria gelida sulla faccia, l’incapacità di respirare, i muscoli contratti. Stavo precipitando, ma ero comodamente seduto con le cinture allacciate. Poi sono ritornato in me e mi sono ricordato di non essere solo: con me c’erano centinaia di persone che non avevano assolutamente voglia di morire, ognuna con un valido motivo per atterrare sana e salva. Ho cercato di immaginarmi le loro storie quasi una per una.
Mi sono vergognato tantissimo per aver desiderato di morire, anche se solo per pochi secondi. E’ stato probabilmente il momento peggiore dei sei anni di depressione, ma forse mi è servito per reagire e tentare di addomesticare il cane nero. O iniziavo a farlo seriamente o momenti come quello si sarebbero ripetuti ancora e ancora, all’infinito.
Sono passati altri sei anni da quando sto meglio e ho allontanato queste immagini depresse. È un tempo sufficientemente lungo da permettermi di raccontare un brutto viaggio senza esagerare nessun particolare, pensando bene a cosa fosse giusto scrivere e cosa evitare. Ed ho comunque evitato molto.
La depressione si è piano piano ritirata come una marea, lasciando comunque delle tracce ben visibili; in questi anni ho imparato a farmi carico solo delle cose che credo importanti, a dire qualche no in più, ad essere forse meno gentile, ma più comprensivo con gli altri: non so quale battaglia stiano combattendo giorno dopo giorno, ma mi auguro che non sia la stessa che ho combattuto io. Se invece lo fosse, è giusto che abbiano tutto l’appoggio possibile: il fatto che abbia scelto di essere un’ombra in passato non mi giustifica a farlo per il resto della vita.
Ho capito meglio i miei limiti e poco mi interessa che gli altri li notino: chiedere aiuto non è una debolezza, ma un modo per conoscermi meglio ed evitare di spezzarmi di nuovo. Una forma di lieve disciplina mi ripara dai bassi che mi capitano: le mie forze sono limitate e sicuramente non andranno ad aumentare col passare degli anni. Non voglio sprecarle facendo qualcosa che non fa star bene me o le persone a cui tengo. Devo scegliere con cura, anche se mi piacerebbe gettarmi a capofitto in territori incerti; cerco di misurare con precisione l’equilibrio tra il mio desiderio d’ignoto e una placida stabilità. E mi piacerebbe fosse più facile.
Ho imparato soprattutto a conoscere le esatte dimensioni del buio che mi circonda nei momenti difficili: l’ho misurato attentamente, ho passato i palmi delle mani centinaia di volte sulle pareti che lo delimitano. Essere stati depressi ti fa memorizzare ogni piccola imperfezione che può aiutare a capire dove ci si trova: so che in quel buio non ci sono vuoti profondi dove rischio di cadere, al massimo dei gradini dove fare dei passi falsi. E non temo la totale oscurità più di quanto tema la luce: è tutta una questione di pazienza prima che gli occhi imparino ad adattarsi.
E il cane nero che fine ha fatto? Sta sempre lì, ma lo sapevo fin dall’inizio: è fedele, la bestia più affezionata che abbia mai conosciuto. Mentre finisco di scrivere lo sento sotto il tavolo, vicino alle mie gambe: dorme e respira profondamente. Ha un sonno molto pesante e sono abbastanza sicuro che dormirà ancora a lungo.
So anche che un giorno potrebbe svegliarsi per la fame e reclamare attenzione; inizierà a ringhiare, mi mostrerà i suoi denti bianchi e gli occhi così scuri da sparire nel nero del pelo. Proverà a mettermi paura e so per certo che l’avrò.
Però adesso so ringhiare come lui: mi ha insegnato bene, è stato il miglior cattivo maestro che potessi avere.
E allora faremo a gara a chi avrà i denti più affilati.
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