“Potsdamer Platz looks like a suppurating wound.” scriveva Joseph Roth, giornalista e scrittore austriaco, nel 1924, a riguardo dei continui lavori effettuati in una delle piazze più importanti di Berlino. “And day after day, night after night, workmen scrabble around.”
Nel 2000, settantasei anni più tardi, poco si era conservato della piazza che conosceva Roth, forse solo il semaforo (il primo in Europa, installato il 20 ottobre 1924) ancora oggi al centro della piazza. E la situazione non sembrava essere cambiata: giorno dopo giorno, notte dopo notte, i muratori continuavano a scavare e trivellare.
I lavori da svolgere a Potsdamer Platz erano molti. Per ben ventotto anni nessuno aveva potuto mettere piede in quella che era l’arteria più brulicante di vita della capitale tedesca. Il motivo? La sua collocazione geografica. La piazza si trovò a fare da confine tra est e ovest, diventando parte di quella striscia di terra che divideva la zona sovietica dai settori occidentali: la cosiddetta terra di nessuno. L’immobilità e l’abbandono la resero un cumulo di sassi e macerie. Dopo la caduta del Muro di Berlino, furono molti gli investitori che si fecero avanti per ottenere l’incarico di ricostruire la piazza e, dopo alcune vicissitudini, a vincere la gara di appalto furono la Daimler-Benz (oggi solo Daimler AG) e la Sony. Nel 2016, anche se i lavori a Potsdamer Platz sono conclusi, Berlino continua a restare un cantiere a cielo aperto. Proprio come lo era negli anni ’20, descritta da Roth in uno dei momenti più fiorenti della sua storia.
I tredici anni che lo scrittore trascorse a Berlino furono sereni, per quanto possa essere in pace un’anima come quella di Roth, che non si limitava a fotografare la realtà, ma andava metafisicamente oltre:
“And yet, in the editorial offices, they go around thinking of Roth as a sort of eccentric chatterbox that they can just about afford as they are such a great newspaper. They are so mistaken. I don’t write ‘witty columns’. I paint the portrait of an age.”
scrisse una volta al suo editore della Frankfurter Zeitung.
Sono in molti a considerare quei pezzi, che l’autore stesso definisce come i ritratti di un’epoca, il vero capolavoro di Roth, ancora più dei suoi romanzi. Alcuni di quegli articoli sono diventati oggetto di studio e nel 1996 Michael Bienert, pubblicista tedesco, ha pensato di raccogliere i più belli e significativi sulla città di Berlino, ricavandone un libretto per persone che passeggiano (Spaziergänger). E così fu pubblicata la prima edizione di “Joseph Roth in Berlin – Ein Lesebuch für Spaziergänger”, tradotto in inglese da Michael Hoffmann con il titolo “What I saw – Reports from Berlin”. Molti dei luoghi che Roth descrive sono oggi completamente diversi, alcuni non ci sono più, distrutti dalla furia della Guerra. Monumenti come la Colonna della Vittoria sono stati spostati, aree della città che erano povere sono diventate oggi centrali e prospere. Addirittura nei pezzi di Roth alcune delle attrazioni turistiche principali della Berlino odierna, come la Porta di Brandeburgo, non sono mai citate. I veri protagonisti dei suoi articoli, d’altronde, sono gli individui ai margini, quelli che sembrano essere stati abbandonati da Dio o che hanno voluto, loro stessi, abbandonarlo.
C’è Richard, ad esempio, il barista del celebre Café des Westens sulla Kurfürstendamm; è ancora così attuale il suo ritratto, perché tutti abbiamo conosciuto qualcuno come lui (o forse lo siamo noi stessi). Richard ha visto passare davanti ai suoi occhi alcuni degli autori più importanti del ‘900: Walter Benjamin, Alfred Kerr, Karl Kraus e molti altri. Li ha visti crescere, diventare famosi e fallire. Lui è sempre stato lì. Amico delle persone giuste, è persino comparso in un film, ma non è mai stato protagonista. Neppure quando si è trovato per caso su Köningsallee poco dopo l’assassinio di Rathenau e, grazie alle sue preziose informazioni, ha permesso la comparsa di un’edizione straordinaria dei giornali dopo pochissimo tempo dal fatto. Avrebbe tanto voluto avere i suoi quindici minuti di notorietà e per questo iniziò a scrivere, senza mai portare a termine, le sue memorie.
Sand is something that God invented specially for small children, so that in their wise innocence of what is to play, they may have a sense of the purposes and objectives of earthly activities. They shovel the sand into a tin pail, then carry it to a difference place and pour it out. And then some other children come along and reverse the process, taking the sand back whence it came.
And that’s all life is.
Dei bambini che giocano con la sabbia allo Schillerpark, oggi a Wedding, ispirano a Roth queste parole. Così un caso di cronaca di un pover’uomo senza nome, trovato morto, diventa occasione per una riflessione sulla vita, la visita al museo di Rathenau offre lo spunto per una discussione sulla letteratura e la costruzione di un grattacielo e permette un’analisi del comportamento umano, che si eleva fino a Dio con le sue opere ma poi si accontenta di riempirle di bar che servono champagne e con orchestre che suonano.
Una delle differenze sostanziali tra la Berlino degli anni ’20 e quella attuale è il focus geografico. La vita culturale si concentrava essenzialmente a ovest della città sulla Kürfursterdamm. L’area Kreuzberg-Friedrichshain, oggi una delle più attive dal punto di vista culturale e sociale, era fondamentalmente composta da case edificate in fretta e furia per accogliere un numero crescente di persone che lavoravano nel settore industriale.
Nella Germania degli anni ’20 non avere una casa costituiva un reato: non si poteva restare all’aperto di notte per più di cinque giorni. La pena era di sei settimane di carcere, dopo le quali non cambiava però assolutamente nulla per il condannato: si trovavadi nuovo senza un lavoro e senza una casa.
I senzatetto si accalcavano quindi ogni giorno di fronte all’entrata dei pochi rifugi adibiti ad accoglierli, tra cui quello in mattoni rossi sulla Prenzlauer Allee, che oggi ha lasciato il posto ad una clinica, e che ospitava fino a 5000 persone, talvolta addirittura intere famiglie rimaste senza un luogo in cui dormire. Roth ci racconta di Bersin un tenente colonnello russo in esilio forzato dopo la caduta del regime zarista. L’uomo era uno dei rifugiati che, provenienti dall’est, cercavano riparo nella capitale tedesca. Bersin non riusciva a spiegarsi il perché della rivoluzione russa ed era convinto che quel momento di follia collettiva sarebbe passato presto.
Forse lo pensavano anche la maggior parte dei rifugiati di quegli anni, che però non erano russi, ma ebrei e per giunta poverissimi.Provenivano dai territori delle attuali Polonia e Ungheria ed erano guardati con sospetto sia dai tedeschi sia dagli ebrei-tedeschi: sporchi e puzzolenti, non capivano una parola nella lingua locale, non potevano lavorare (e in ogni caso a Berlino non c’era lavoro per loro), la loro religiosità era estremamente conservativa e non riusciva a integrarsi con lo stile di vita liberale della Berlino anni ’90
All in some fifty thousand people have come to Germany from the East since the war. I have to say, it can seem as if they were millions.(…) There are no jobs for these people with German companies, even though the only way they pose any sort of threat is if they are not allowed to work. Then of course they will become black marketeers, smugglers and even common criminals.
Roth non amò mai davvero Berlino e non si sentì mai veramente a casa nella capitale tedesca. Nei suoi tredici anni di permanenza non affittò mai un appartamento, vivendo sempre a casa di amici o in hotel. Il 30 gennaio 1933, giorno in cui Hitler divenne cancelliere, lasciò per sempre la Germania. La breve esperienza democratica della Repubblica di Weimar era ufficialmente conclusa e si apriva l’era del nazismo. Le svastiche, che tanto bene Roth aveva descritto fin dall’inizio della loro comparsa, avevano preso il sopravvento e il suo primo romanzo, La tela di ragno, pubblicato nel 1923, in cui per primo citava Hitler, sembrava confermare le sue paure. Nel 1933 scrisse da Parigi un articolo che si rivelò essere una sorta di phamplet pieno di risentimento verso quella nazione che non solo aveva tradito lui e molti altri artisti, ma anche se stessa:
Many of us served in the war, many died. We have written for Germany, we have died for Germany. We have spilled our blood for Germany in two ways: the blood that runs in our way, and the blood with which we write. We have sung Germany, the real Germany! And that is why today we are burned by Germany!
Nessuno avrebbe potuto prevedere la tragedia dei campi di sterminio, neppure una mente lungimirante come quella di Roth. Il sogno della nascita di un’Europa unita, per lo meno dal punto di vista culturale, era svanito. Ad avere vinto erano quelli che infondevano paura, quelli delle svastiche, i volti sorridenti di persone che sembravano per bene, quelli degli slogan, che avevano fatto la loro campagna elettorale con affermazioni molto vicine al contemporaneo “Mut zu Deutschland”, leggibile oggi ovunque.
Ad avere perso e a pagarne le conseguenze erano invece quelli che avevano lottato e stavano lottando, tutti coloro che avevano contribuito a rendere grande la cultura tedesca e anche quella europea. Tutti quegli autori, compreso Roth, i cui libri venivano bruciati nei roghi pubblici nelle piazze delle città.
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