Sono le 12.40, è agosto, e a Pisa fa un caldo al quale non sono più abituata. Stiamo camminando lungo via Garibaldi, i condomini ai margini della strada sono bassi, i negozi chiusi. Una signora si arrischia coraggiosamente fuori, affacciandosi a un balcone dal quale penzola una bandiera della pace scolorita. Quando arriviamo al cancello color mattone della Mala Servanen Jin, Mariasole infila un braccio nella ringhiera e lo fa scattare. Nonostante debba consegnare il suo progetto di dottorato tra poche settimane, si è presa un paio di giorni liberi per stare con me. Celeste se ne sta seduta sotto uno degli ombrelloni aperti in cortile. È una studentessa di filosofia e il fine settimana lavora in un ristorante del centro. Ha la testa rasata e la pelle scura di mare. Sta leggendo Jo Nesbø. Tobi ci viene incontro placido, è il randagio nero che Celeste ha adottato qualche mese fa. È dolce e attento, e anche lui dorme alla Mala, in una cuccia ai piedi del letto della sua padrona. Lo accarezzo, mi piace il suo pelo duro e lucente che si appiattisce sotto il palmo della mano.
La Mala Servanen Jin ‒ dal curdo: la Casa delle Donne che Combattono ‒ è un ex centro di prima accoglienza per migranti di proprietà del Comune di Pisa, occupato l’8 marzo 2017 dal gruppo di donne dell’Assemblea delle Donne in Lotta. Questo passo importante, avvenuto nel giorno di sciopero internazionale indetto dal movimento femminile e femminista Non una di meno, rappresenta solo un tassello nel lungo processo che ha portato diversi percorsi di lotta in città a confluire in un discorso comune e a confrontarsi su alcuni importanti macro-temi quali ad esempio violenza, sessismo e sfruttamento delle donne sul lavoro, nell’ambito del welfare, dell’educazione e della salute. Un percorso che è tutt’ora in divenire e che, probabilmente, non cesserà mai di evolversi. Nel giro di pochissimo tempo, la Mala Servanen Jin è diventata un importante punto di riferimento a Pisa per tutte coloro che, stanche di dover costantemente scendere a compromessi e senza avere necessariamente un passato di militanza alle spalle, hanno voglia di incontrare altre donne per provare a cambiare, insieme, lo stato delle cose.
Le prepotenti
“Mangiamo?” Celeste si alza pigra dalla sedia ed entra nell’edificio. La seguo in cucina. Ci sono dei pomodori puliti su un ripiano e cinque o sei buste di mozzarella. Cira infila il naso oltre la soglia della porta. È una donna sulla cinquantina, napoletana, con una chioma di ricci biondi invidiabile. Ci guarda sorridendo da sopra la montatura dei suoi occhiali e ci fa un cenno con la testa. L’altra sera, quando siamo andate a Marina di Pisa a sederci sui sassi della spiaggia e a prenderci una multa da quaranta euro per aver parcheggiato in un divieto di sosta non segnalato, ci ha raccontato che lei a Pisa ci si è trasferita di proposito. “Tutto intorno ci sta il mare, la natura. Mi piace” aveva detto.
Nell’ampio salone, intanto, la pisana Marzia sta apparecchiando la tavola senza che Susi e Dora, le sue minuscole volpine, la perdano di vista un istante. Fa la donna delle pulizie e sta trascorrendo le ferie in città. Ci sediamo a tavola e una delle ragazze ne approfitta per aggiornare le sue compagne su una retata contro alcuni venditori ambulanti a Piazza dei Miracoli. Iniziamo a mangiare. Mentre ci passiamo pane, olio e sale di mano in mano penso che mi sento a mio agio e che è bello vedere cosa siano riuscite a creare queste persone: hanno occupato una casa per tutti e tutte coloro che vorranno abitarla o attraversarla. Secondo loro, infatti, non si deve necessariamente chiedere il permesso per farlo, se chi lo dovrebbe accordare è proprio l’istituzione dalla quale ci si sente oppressi. Una presa di posizione sicuramente forte, che comporta conseguenze e responsabilità di proporzionale entità, di fronte alle quali comunque queste donne non hanno mai avuto intenzione di tirarsi indietro.
Le violente
“Ragazze, venitevi a prendere sto café”. Abbiamo finito di mangiare e Celeste si alza per raggiungere Cira che sta lavando i piatti in cucina, mentre il caffè caldo nella moka aspetta di essere versato nelle tazzine. Nel salone, intanto, le altre sono ancora sedute a tavola. Le vite di molte di queste donne non sono state facili. Alcune di loro hanno dovuto fronteggiare una serie di sfratti e situazioni difficili prima di approdare alla Mala, un luogo che finalmente possono chiamare casa. Per il momento. Il 24 maggio scorso, infatti, il Comune ha tentato per la prima volta di sgomberare lo stabile inviando alcune squadre di poliziotti in tenuta antisommossa. Dopo una serie di scontri e cariche da parte delle forze dell’ordine sia nei confronti delle occupanti che di altri cittadini accorsi in segno di solidarietà, lo sgombero è stato portato a termine. Grazie a una partecipata mobilitazione tramite raccolta firme, presidi sotto il Comune, assemblee e manifestazioni, le donne sono però riuscite dopo pochi giorni a occupare nuovamente lo stabile.
“Stasera venite a trovarci al chioschetto a Sant’Ermete?” Marzia ha finito il caffé e ora si accende una sigaretta appoggiandosi contro lo schienale della sedia. Susi e Dora la osservano attente ai suoi piedi. Da qualche settimana in piazza a Sant’Ermete, il quartiere popolare alle porte di Pisa, il comitato di quartiere di cui Marzia fa parte ha deciso di aprire un piccolo chiosco, proprio in mezzo ai palazzoni popolari che, durante la Festa del Pane di luglio, erano stati abbelliti da alcuni writers per contrastare il degrado nel quale erano stati dimenticati insieme ai propri inquilini.
“Sì, perché no? Io non ci sono mai stata.” A Marzia farebbe piacere se ci andassi, anche se non mi conosce. O forse proprio per questo. È una di quelle persone che non possono fare a meno di includere. Oltre al fatto che andarci mi piacerebbe davvero. Fuori il calore del pomeriggio rende l’aria opaca. I piatti sono già stati lavati, il pavimento verrà spazzato da alcune volenterose, il salone tornerà silenzioso. Per poco, solo finché la digestione non avrà seguito e concluso il suo corso.
Le punkabbestia
Siamo sedute in cortile, sotto gli ombrelloni. Cira stamattina ha comprato una serie di piante grasse e ora, appoggiata al lungo tavolo contro la parete esterna dell’edificio, le travasa in dei vasi colorati.
“Vedi?” spiega ad un’altra delle ragazze affondando la paletta in un sacchetto colmo di terra. “Bisogna fare attenzione alle radici. Tieni la pianta ferma e poi la ricopri con il terriccio.” Il cortile della Mala somiglia molto ad un giardino, le ragazze hanno piantato gerani, begonie e sistemato il prato. Hanno portato tavoli e sedie colorati, creato un angolo per la raccolta differenziata, hanno appeso un’amaca tra due alberi e sistemato qua e là dei giochi per far divertire i bambini delle compagne con figli.
Quando ho letto i primi articoli sulla Mala Servanen Jin, mi hanno colpito le foto che erano state scattate nell’edificio il primo giorno d’occupazione. Gli interni erano a dir poco degradati, colmi di macerie, siringhe e spazzatura. Il cortile somigliava a una discarica. L’edificio ora è irriconoscibile. Per un mese, a partire dall’8 marzo, decine di persone hanno lavorato insieme ogni giorno per ristrutturare lo stabile, ritinteggiando le pareti, rendendo nuovamente agibili gli spazi, sistemando l’impianto idraulico. Ad oggi l’edificio è diviso in modo tale che al piano di sopra si trovi la zona abitativa, con le stanze e i letti, e al piano di sotto la cucina, i bagni e l’ampio salone pensato per ospitare le attività sociali e nel quale le donne portano avanti il proprio percorso politico. Mentre, sedute in cortile, sto raccontando alle ragazze le disavventure di mia nonna e dei suoi spasimanti, Celeste scompare per un attimo all’interno dell’edificio per poi uscirne dopo pochi minuti seguita da un curiosissimo Tobi, con una vaschetta di gelato tra le mani e una serie di cucchiai. Si sono fatte le due ed è arrivato il momento di riattivarsi con un po’ di zucchero.
Le scansafatiche
Marzia si viene a sedere in mezzo a noi. Il gelato è finito e stiamo decidendo come rendere produttivo il nostro pomeriggio. È domenica, e oggi nessuna deve lavorare. A parte Celeste, che già si angoscia pensando al turno al ristorante di stasera. Non posso biasimarla, immagino che i locali del centro pisano nel fine settimana che precede Ferragosto straripino di turisti.
“Ve l’ho mai raccontato di quella volta che ho salvato la vita a un vecchio?” dice Marzia dal nulla. Ci scappa una risata, ma la sua faccia, truccata meticolosamente, rimane seria. “Non sto scherzando, ragazze”. Marzia è una pisana d.o.c., nata in piazza delle Vettovaglie. Oltre ad essere da sempre attiva nel comitato di quartiere di Sant’Ermete, lavora da anni per la Sodexo, un’importante impresa di servizi francese. È stato anche in seguito alla grande mobilitazione delle lavoratrici della succursale pisana che si sono venute a formare l’Assemblea delle Donne in Lotta e, di conseguenza, la Mala Servanen Jin. Ci racconta di quando, durante un turno in ospedale, si è ritrovata a soccorrere un paziente trovato svenuto nello spiazzo antistante l’edificio, con gli operatori delle ambulanze che le urlavano di lasciarlo lì, che non era competenza di nessuno dei presenti prestargli assistenza, che era illegale. “Ma ti pare che lascio lì un povero vecchio mezzo morto solo perché va contro la procedura?” Mariasole si stiracchia, ha intenzione di andare in ufficio anche oggi. La deadline per la presentazione del suo progetto di dottorato si avvicina. Io sono sua ospite, così mi alzo e inizio a raccogliere le mie cose, la borsa, il computer. Andrò con lei in dipartimento, oggi. Salutiamo le ragazze e usciamo. Percorrendo la strada che ci separa dalla macchina, mi sorge spontanea una domanda: “Non è strano che persone con vite, età e background così diversi si ritrovino nello stesso percorso politico?” Lei mi cammina accanto con la sua tipica andatura molleggiante. “È questa la nostra forza.” dice. “La diversità ci rende più forti e consapevoli, ci permette di crescere e confrontarci in modo costruttivo.”
Nel frattempo arriviamo alla macchina. Una delle due ruote anteriori è sgonfia e né io né lei abbiamo mai usato un cric prima d’ora. “Dai, lasciamo perdere. Chiediamo più tardi alla mia coinquilina di darci una mano” dice lei. Così decidiamo di abbandonare la Panda al suo destino e ci avviamo verso il dipartimento di informatica a piedi.
Le vittime
Parcheggiamo la macchina riparata di fresco in una stradina che costeggia la piazza di Sant’Ermete, sotto il gigantesco murales del camaleonte illuminato dalla luce gialla dei lampioni. Un aereo passa a poche centinaia di metri sopra le nostre teste, diretto al vicino aeroporto, e mi costringe a interrompere il mio fiume di chiacchiere. Mariasole cammina davanti a me, agitando un braccio in segno di saluto verso un gruppo di persone riunite intorno a una delle panchine della piazza. Sono gli abitanti delle case popolari qui intorno, che si ritrovano ogni sera dopo cena per fare quattro chiacchiere mentre i loro bambini giocano insieme ad acchiapparella, scorrazzando e riempiendo l’aria di voci e schiamazzi. C’è anche un cane con loro, un piccolo carlino grasso seduto sulla panchina accanto alla sua padrona. Da una cassa montata a qualche metro di distanza, sul retro del famoso chioschetto, ci raggiungono le note di una hit estiva ad alto volume. È lì che ci dirigiamo. Marzia è seduta su una sedia di plastica insieme ad altre persone, tra le quali riconosco Cira e Celeste. Stanno mangiando hamburger e bevendo birra. Oggi, mentre io e Mariasole ci siamo annoiate negli uffici deserti del dipartimento di informatica, alcune di loro sono andate al mare. Celeste ha finito il turno al ristorante e ora si rilassa qui insieme a Tobi. Siamo tutte molto diverse, per età, esperienza di vita, lavoro, carattere. Eppure siamo sedute intorno allo stesso tavolino a parlare delle solite cose di cui si parla quando ci si ritrova in un gruppo: cazzate, episodi divertenti o tristi, relazioni. Mi colpisce molto il fatto che queste donne abbiano deciso di unirsi compatte in una lotta contro la violenza che le costringe a subire condizioni di vita inaccettabili e che loro considerano prima di tutto violenza istituzionale. Mariasole mi racconta, ad esempio, della mobilitazione di marzo contro i buoni spesa della Caritas, elargiti dai servizi sociali alle famiglie in difficoltà dopo approfonditi colloqui che ne dimostrino l’effettiva povertà. I buoni consistono in una serie di schede a punti, distribuite ad alternanza di sei mesi, utilizzabili per acquistare le merci di supermercati appositi, i cosiddetti empori solidali. Le merci procurabili con i buoni, tuttavia, oltre a scarseggiare ampiamente sugli scaffali, sono a volte prodotti alimentari andati a male o in procinto di scadere e confezioni già aperte. All’inadeguatezza dei cibi, inoltre, si aggiunge il fatto che queste donne si trovano praticamente costrette a competere tra loro quando vanno a fare la spesa: l’ingresso ai supermercati, infatti, avviene per estrazione, e quindi soltanto le prime ad entrare possono accaparrarsi i prodotti migliori. Per far fronte a questa situazione, il 6 marzo scorso le donne dell’Assemblea delle Donne in Lotta ‒ che due giorni dopo avrebbero occupato la Mala ‒ si sono recate nei magazzini della Cittadella della Solidarietà di Pisa, dove hanno trovato nascosti prodotti freschi e in ottime condizioni che però non venivano messi a disposizione delle famiglie, nonostante fossero stati donati da enti pubblici e privati cittadini proprio con quell’intento. È prima di tutto questa, quindi, la violenza che denunciano le donne della Mala Servanen Jin. Nonostante si rispecchino in alcuni tratti del discorso più ampiamente femminista di Non una di meno, le donne della Mala mi spiegano che a quest’ultimo vogliono integrare un percorso di lotta che parte innanzitutto dalla quotidianità, per contrastare violenze e umiliazioni perpetrate nei loro confronti all’interno, ma anche al di fuori della famiglia. Sul posto di lavoro. Negli ospedali. A livello istituzionale e non. Insieme, hanno trovato la forza e soprattutto il tempo per dedicarsi a questo tipo di percorso. Attraverso la solidarietà, tutte possono partecipare e far sentire la propria voce, dalle mamme, alle casalinghe, alle avvocatesse. “Si tratta di riprendersi diritti e dignità, senza più aspettare, e soprattutto di farlo insieme: nessuna viene lasciata da sola, ognuna di noi sa di poter contare su una forza collettiva pronta ad accoglierla, sostenerla, incoraggiarla e lottare insieme a lei” mi dicono. È difficile per me stasera, seduta al chiosco insieme a queste donne così diverse e allo stesso tempo così simili a me, considerare queste persone come delle vittime.
Si è fatto tardi. Domani il mio treno per Torino partirà a mezzogiorno, e devo ancora preparare lo zaino. Sarà dura separarmi da Mariasole. Anche adesso mi sento malinconica, mentre mi alzo in piedi per salutare queste donne che non conosco bene ma con le quali sento di aver condiviso qualcosa di importante nei pochi giorni trascorsi qui. Abbraccio tutte, poi Marzia mi stringe le mani guardandomi dritta negli occhi e dice:
“Ci vediamo il prossimo anno, bimba. Perché la Mala Servanen Jin ci sarà ancora, ci sarà sempre. Noi resistiamo.”
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In copertina: © Mala Servanen Jin
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