Berlin Places è un progetto di Mauro Mondello e Loris Rizzo che documenta
in tempo reale, con parole e immagini, i luoghi di Berlino
Testo e foto sono stati realizzati a Potsdamer Platz, l’11 gennaio 2018, fra le 13.00 e le 15.30
Sono di fronte ad un pannello video rettangolare, sarà alto tre metri, dal quale cadono enormi ciambelle fritte di tutti i colori. Non posso smettere di guardarlo. È un getto continuo, infinito, travolgente, di ciambelle che invadono Potsdamer Platz. Mi ipnotizza. Passo e ripasso davanti a questo negozio americano e resto soggiogato dalla surrealtà di quest’immagine. Vengo sparato in un’altra dimensione, a cavallo di una ciambella dalla glassa bianca che mi porta in cima ai palazzoni di vetro e di ferro che torreggiano sul traffico regolare e insistente.
Potsdamer Platz ha un fascino ordinato e misterioso, un luogo immobile e dal cuore freddo, che si dibatte dolorosamente nel tentativo di mostrarsi umano. Entro nel negozio del Museo del Cinema. C’è una ragazza con i capelli rossi rossi ed una salopette di jeans e una fascia a pois intorno alla fronte e delle scarpe bianchissime, di quelle che ci siamo abituati a chiamare “da tennis”, anche se per giocare a tennis non te le potresti mettere mai. Sta sfogliando un libro animato dei Peanuts ed è impossibile non pensare che lei, in verità, prima non fosse qui; che lei, in verità, si sia materializzata in questa stanza pochi secondi fa, sputata fuori dalle pagine del volume che adesso finge di scorrere con noncuranza. Mi guarda, la guardo. Poi esco e già so che non la rivedrò mai più e quando mi giro, infatti, appena fuori, sulla strada, lei non c’è.
Il Sony Center di Potsdamer Platz è pieno di bar carissimi e di studenti di provincia emozionati di ordinare dentro Starbucks per la prima volta nella loro vita. Pensare che qui, una volta, non c’era niente. E adesso invece, ancora, non c’è niente.
Dai finestroni che si allungano nella parte posteriore dell’enorme tettoia d’entrata della stazione ferroviaria di Potsdamer Platz, riesco a vedere dei cubi di vetro che somigliano a finestre. In effetti sono finestre. Li conto. Cinque, più vicini fra loro, sono rettangolari. Altri sei, accanto, con più respiro di cemento armato a dividerli, hanno una forma squadrata. A piccoli passi ritorno verso la piazza coperta del Sony Center, dove tutto è cominciato. In alto un enorme tendone sintetico, agganciato tramite tiranti e ferro alle estremità degli edifici circostanti, blocca la vista.
Decine di persone tristi si trascinano nel Mall of Berlin. Alla ricerca spasmodica di qualcosa che ci renda più unici, veniamo masticati dentro questi bunker nei quali ogni sensazione è annullata, ogni emozione è dimenticata. Tutti orgogliosamente diversi, per diventare sempre più identici. Siamo bruttissimi e deformi. Camminiamo guardando i telefoni mentre le luci al neon di Foot Locker, di Desigual, di McPaper, ci ricordano che è necessario acquistare qualcosa, se davvero vogliamo sentirci in pace con la nostra giornata sulla Terra. C’è un odore di fogna e di cibo asiatico in cubi di cartone e di Sauvage con Johnny Deep in confezioni a buon mercato e di cervelli in umido che ballonzolano inermi dentro le scatole craniche di questi esseri ex umani, automi che disperdono movimenti ciclicamente perfetti.
Il centro commerciale di Potsdamer Platz è un inferno di silenzi e solitudini, occhi di pena a guardare se stessi morire nel nostro tempo, piedi firmati a calpestare le frasi dorate di Willy Brandt e John Kennedy, mentre l’esterno scintillante delle scale mobili riflette i pannelli sui quali sono state fissate le immagini di questa piazza, Potsdamer Platz, fotografata al tempo in cui non avevamo ancora smesso di parlarci.
Dietro il bancone di un negozio di frullati girovagano quattro ragazze dai capelli biondi, avranno vent’anni, con degli sguardi così dispersi che se ci fosse qui James Ivory farebbe un film da 129 minuti con una sola inquadratura fissa, ferma sui loro occhi.
Ritorno fuori, devo prendere aria. Da lontano vedo il bus M41 imboccare Stresemannstrasse, in direzione Sonnenallee/Baumschulenstrasse. Sul lato nordoccidentale della piazza c’è una serie di grosse lastre di cemento, sembrano abbandonate, come se le avessero lasciate qui gli operai di un’impresa edilizia dopo aver terminato il lavoro. Però no, mi sbaglio. Nessuno li ha dimenticati, non ancora almeno e non in questa città, quei blocchi di calce e malta su cui hanno sbattuto per decenni migliaia di occhi: è il muro di Berlino.
Potsdamer Platz ha un cuore grande e spaccato, distrutto a bastonate dalla Storia, da una guerra che l’ha trasformata, da centro più trafficato della capitale tedesca, a territorio desolato e disperso, regno di cani e di topi, di filo spinato e vedette e colpi di fucile sparati nel vuoto oscuro della notte.
Scendo le scale della metropolitana. Sono venuto qui tante volte, eppure adesso è diverso. Quella che prima mi pareva una disposizione ordinata e perfetta, l’avverto ora come importuna farragine. Dall’alto spiovono dei minacciosi tubi circolari, sembrano aspiratori sotterranei di emozioni e mi fanno pensare a un film di George Lucas, THX 1138, in cui agli essere umani è vietato provare sentimenti.
L’hanno ricostruita, Potsdamer Platz, nel tentativo di riportarla lì dov’era sempre stata, al centro di ogni cosa. Ma non ce l’hanno fatta. Potsdamer Platz non è solida, è rigonfia. Non è felice, è supponente. Non è opulenta, è greve. Si avverte forte, qui, adesso, la perdita di ogni memoria, una cancellazione involontaria del ricordo che si protende verso tutta l’altezza degli straordinari palazzoni di vetro e ferro che la dominano e a Potsdamer Platz sussurrano: “non ci sei più, non ci sarai mai più”.
REDAZIONE
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