Io e Fabrizio siamo amici da molti anni. Una delle prime cose che facemmo insieme fu che lui mi tirò uno schiaffo e io stetti zitto. Volle mettere le cose in chiaro da subito, in un’età e un periodo in cui entrambi avevamo molte cose da dire, ma lo stavamo facendo nel modo sbagliato. Forse è anche per questo che ci rispettiamo sinceramente.
Fabrizio è gay e un giorno, quasi per gioco, mi disse che mi avrebbe portato al Lab.Oratory, “sezione distaccata” del Berghain/Panorama Bar. Quest’ultimo è tra i club più importanti al mondo. Non aveva secondi fini – nemmeno lo dovrei scrivere – se non quello di divertirsi un po’ in quel suo fine settimana lontano da Milano.
– Andiamo al Lab.Oratory –
– Non posso –
– Perché? –
– Perché sono eterosessuale –
Rise.
E risi.
Ci vestimmo come pensavamo fosse giusto vestirci. Lui ci mise molto più di me, entrambi consapevoli che ci saremmo dovuti spogliare, in senso letterale, pochi metri varcata la soglia del club. Nel senso più lato del termine, invece, io mi sarei dovuto spogliare di molte più cose rispetto a Fabrizio, ma lui non dispensò nessun consiglio, perché era giusto così e lo è tutt’ora, a due anni di distanza da quella notte.
Fabrizio è anche, e soprattutto, una persona limpida. Credo di non sbagliarmi dicendo che è sicuramente la più limpida che io conosca, tanto che spesso, questa sua purezza, gli si è rivoltata contro nel corso degli anni. È la verità di chi vive credendo fermamente che le regole si fanno e si distruggono sempre consapevoli che ci sono dei confini e l’importante è oltrepassarli con stile e rispetto. È l’unica definizione di anarchia che appoggio. Purtroppo non cambia, però, la linea di caos che si porta dietro. È solo più polverosa.
Nel suo essere così cristallino, il mio amico, era convinto che non ci sarebbero stati problemi nell’entrare in quel, non so come definirlo, circolo estremamente privato, popolato da seguaci minoritari – perché lo erano allora e lo sono tutt’ora, purtroppo – che si ritrovano ogni week end, oppure per uno soltanto, emancipandosi volutamente in cerca di una definizione diversa, quando diversi lo erano e lo sono già fin troppo considerati.
– E se non mi fanno entrare? –
–Perché non dovrebbero? Entri con me –
–Perché sono eterosessuale –
–Basta –
–Sì, ma si vede che lo sono –
Rise ancora ed io mi sentii stupido.
Arrivammo all’entrata e ci mettemmo in fila. Una coppia in preselezione. Mi sentivo a disagio, come spesso mi sono sentito a disagio incolonnato a quell’altra coda, quella più famosa e sicuramente più lunga, all’entrata principale del Berghain.
Davanti alla porta di metallo che proteggeva il Lab.Oratory eravamo in pochi e silenziosi. Una ventina massimo; quando taluni scomparivano all’interno altri si aggiungevano sul fondo. Eravamo ordinati.
Ad ogni sguardo rivoltomi, da chiunque, mi sentivo scoperto e colpevole. La vita è curiosa, anche ora, mentre scrivo, mi sento nel torto.
Fabrizio, invece, parlava molto, chiacchierava di cose che nulla avevano a che fare con quella notte e l’immediato futuro.
Diceva che amava Berlino ed io ascoltavo passivamente, con l’adrenalina che saliva ad ogni passo, appoggiati a quel rullo invisibile che ci spingeva verso l’entrata. Lui ripeteva le cose che io stesso avevo prosciugato da dentro me nell’arco del primo anno dal trasferimento in Germania.
Che Berlino era respirare la libertà, che Berlino era vivere alla giornata, che Berlino era un posto tranquillo ed era giusto che lo fosse. Che Berlino era per quelli che volevano questo e quello. Che Berlino era fredda ma –
Arrivammo davanti al bouncer. Il nostro turno. Notai che davanti a noi c’era Rummelsnuff, nome d’arte di Roger Baptist, pop star tedesca, lottatore, talento punk durante il regime della DDR. Era enorme, nonostante fosse più di una spalla più basso di me. Non aveva capelli, non aveva sopracciglia, non aveva peluria. Niente.
Ci studiava attentamente e mentre lo faceva io, non so perché, mi fissai su di un suo capezzolo, roseo e turgido che fuoriusciva dalla scollatura della canottiera bianca, strizzata sui muscoli, che parevano di plastica o di cuoio.
Non potevo distogliere lo sguardo. Quell’unico capezzolo mi ipnotizzava e mi disturbava, lo ricordo distintamente. Era dove non doveva essere.
Aprì la porta e ci fece entrare. Viel Spaß. Buon divertimento.
Due cose m’investirono immediatamente, con un piede dentro ed uno fuori: il caldo e l’odore. Entrambi terribili. C’era il puzzo della pelle umana, in qualche modo familiare alle mie narici e ai miei ricordi. Era l’odore della mia pelle che si mischiava a quello di migliaia d’altri. La porta si richiuse dietro noi con un clanck metallico. Davanti, un breve corridoio conduceva al guardaroba. Un anziano ci aspettava con dei sacchi della spazzatura in mano, ordinatamente piegati. I suoi occhi erano spenti. Il suo volto pareva bruciato sotto i neon che friggevano di rosso.
Quel vecchio fu l’ultima persona vestita che vedemmo per molte ore.
Ci sono solo due cose, forse, in grado di rendere talmente vivido l’irreale da crederlo fermamente reale: le allucinazioni e i sogni. Ricordo che una notte ebbi un incubo, è l’unico che ho ancora impresso nella memoria, non se n’è mai più andato.
Ero molto piccolo – ciò significa che nel corso degli anni fino ad oggi, può essere che l’abbia inspessito di fantasia, senza rendermene conto – io e mio fratello dormivamo insieme, in un divano-letto nel salotto, in quella che in famiglia, ancora oggi, chiamiamo affettuosamente la casa vecchia. Nell’incubo io mi vedo mentre dormo al fianco di Enrico, il suo braccio sinistro, come spesso accadeva, adeso fastidiosamente al mio destro. Poi mi sveglio, sempre all’interno dell’incubo e mi vedo mentre guardo verso la porta finestra del balcone, esattamente davanti al letto nella mia traiettoria visiva.
Le tapparelle non sono state abbassate per intero e le fessure lasciano oltrepassare le luci dei fari delle macchine di passaggio che, per un attimo, passeggiano all’interno della stanza. C’è un momento terrificante, nell’incubo, in cui io vedo distintamente delle ombre passare sul balcone, attraverso quelle fessure. Tre ombre. Sento anche dei rumori e poi noto due occhi brillare ed un profilo immobile davanti alla porta finestra disegnarsi al passaggio di un’altra auto, lontana, sulla strada. Quei bulbi infiniti come crepacci guardano noi all’interno della stanza e il mio cuore diventa di pietra e poi esplode, scheggiandomi le costole, bucandomi i polmoni e gli organi interni. È quello che provo, in quel momento, mentre gli occhi sconosciuti mi osservano. Siamo divisi solo da una tapparella di plastica e un doppio vetro. Tento di urlare e nessun suono riesce ad andarsene da dentro me. Mi sforzo, ma il mio terrore resta lì, incastrato nell’incubo.
Poi mi sveglio e sono dentro la stanza, sdraiato sul divano letto al fianco di mio fratello e la tapparella è lì davanti a noi e non è stata abbassata del tutto e le fessure lasciano entrare il bagliore dei fari di una macchina, che strisciano sulle pareti e sulle nostre coperte, lasciando solo ombre liquide del loro passaggio.
Io sono paralizzato.
C’è una frase semplicissima che mi è rimasta indelebile nella memoria: c’è un uomo sul balcone.
Mentre camminavamo notai che un ragazzo si stava masturbando sdraiato in una vasca da bagno vuota.
Questo è ciò che io definisco qualcosa di irreale, ma così perfettamente intenso da essere – non sembrare – incredibilmente reale.
Non c’era una differenza tra il momento in cui ero nell’incubo e quello in cui ero sveglio. Perché anche quando mi resi conto che non c’erano due occhi puntati su me e mio fratello dietro la tapparella, io pensai che chiunque ci fosse stato, accorgendosi della mia veglia, si fosse nascosto. I due paralleli, quello del sogno e quello della veglia, si sono incrociati, oppure si sono sfiorati irrimediabilmente, mischiandosi e, in qualche modo, sostituendosi in quell’attimo congelato dei miei ricordi, per sempre.
Quella stessa sensazione di reale irrealtà, orfana fortunatamente del terrore, mi si ripresentò all’interno del Lab.Oratory, una volta passata la pratica ‘guardaroba’.
-Ti devi spogliare –
–In che senso? –
–Nel senso che ti devi togliere tutti i vestiti –
–Tutti? –
–Tutti –
–Anche le mutande? –
–No, quelle le puoi tenere. Credo –
–E i pantaloni? –
–Li devi togliere –
Ci spogliammo lì, davanti al banco del guardaroba, come fosse un qualsiasi altro club dove avremmo lasciato le nostre giacche e i nostri maglioni, perché non fossero d’ingombro durante la serata.
L’anziano appoggiò i due sacchi della spazzatura davanti a noi e attese mentre li riempivamo. Rimanemmo entrambi in mutande, calze e scarpe.
Consegnammo i nostri averi e nel suo sguardo, mentre li ritirava, vidi molte scene di Blockbuster americani ambientati in carcere.
Con un pennarello indelebile nero a punta grossa, scrisse dei numeri sui nostri bicipiti. Non ricordo il mio anche se mi ero ripromesso di non dimenticarlo mai. C’era un sei ed era a tre cifre.
Quando entrammo, ciò che ci si presentò davanti mi lasciò senza parole e, se Fabrizio non mi avesse afferrato per un braccio e trascinato oltre la soglia, mi avrebbe lasciato anche senza capacità motorie.
Si spiegava ora il caldo insopportabile: in un luogo dove gli avventori sono completamente nudi o quasi – che per la maggior parte di loro consiste in bretelle, cinture e maschere di cuoio – i riscaldamenti devono essere necessariamente posizionati sul massimo della potenza.
Era semibuio. C’era un bancone-bar al centro della sala dal soffitto basso. Cemento armato e ferro. Il bancone era un’isola, per arrivarci dovevamo passare in mezzo ai corpi, per prendere da bere dovevamo aspettare adesi l’uno all’altro. Davanti e di dietro. Trattenevo il fiato, i genitali e le natiche. Gli altri mi sfioravano senza guardarmi, senza badare a me. Fabrizio, al mio fianco, chiacchierava, guardandosi attorno sorridente.
Non occorreva pagare subito, ti servivano da bere e poi ti chiedevano il numero.
– Quale numero? –
E indicavano il tuo braccio, seri.
Io e Fabrizio ci spostammo in un angolo ancora più buio. Bevevo una birra, ascoltavo lui ed osservavo avido ogni cosa.
Mi vengono in mente due eventi che possono spiegare bene quest’ingordigia di immagini, entrambi risalgono a quando ero bambino: la prima volta che mio padre mi portò allo Stadio Meazza di Milano e la prima volta che visitai Gardaland, il parco divertimenti nel veronese.
Il suono del pubblico che da sommesso diveniva sempre più nitido di cori in migliaia di voci, mentre salivo le rampe diretto al secondo anello, rettilineo. Il boato dei petardi e l’eco che si disperdeva velocemente. Gli spalti gremiti di gente, ottantamila. Il Derby della Madonnina. Il campo da gioco, verdissimo e geometricamente perfetto. Minuscolo. Il cielo che ci spiava e la ragnatela bordeaux che reggeva il tempio e lo catturava allo stesso tempo. Le torri d’angolo, le gradinate, le curve. Gli striscioni e le bandiere. Lo speaker che urlava la formazione dell’Inter e sussurrava quella del Milan. Mio padre che, ad ogni cognome gridava qualcosa d’incomprensibile sia a me che a lui. Oppure fischiava. I monitor con il cronometro e il punteggio. L’odore che in nessun altro posto in questo mondo ho mai più percepito. Un aroma di zucchero filato, ma più aspro, avvolgente. Era il profumo della fede quando non è nascosta dall’incenso.
I colori sgargianti di quel mondo che sembrava fatto di gomma dura e che di fatto lo era. Di plastica e acciaio e di sintetico e di Paese dei Balocchi. Le code a serpentina che mi conducevano sempre più vicino alle attrazioni. Le montagne russe che sferragliando e urlando di voci che erano lampi, si portavano via la mia adrenalina e la consapevolezza che non ero abbastanza alto per potermici sedere, sui quei seggiolini, dentro quelle navicelle spaziali impazzite. Non ero all’altezza, lo diceva Prezzemolo.
Il vascello dei Pirati, lo zucchero filato rosa, i delfini che saltavano fuori dall’acqua della piscina e si rituffavano sorridendo e maledicendoci tutti. La mia mano minuscola stretta in quella enorme di mio padre. Le luci quando scendeva la sera, migliaia di lampi che tracciavano arcobaleni di laser. La musica, la più bella che avessi mai sentito, una musica che era tutto il parco e anche fuori, perché era così che m’immaginavo di voler vivere: dentro Gardaland per sempre.
Osservavo ogni cosa con quegli stessi occhi, quella notte, al Lab.Oratory. Lentamente mi rilassai e me ne stupii. Non che avessi avuto paura di qualche cosa in particolare – a parte di essere scoperto etero prima di entrare – ma, giustamente, mi sentivo fuori luogo. Quello non era il posto dove io dovevo essere ma, mentre ci ragionavo, ero sempre più convinto che quello fosse il posto dove volevo essere in quel momento preciso. Io sono uno che vive i momenti e se non li vive bene, li abbandona. Durante quella notte mi sforzai di aspettare un istante in più rispetto alle mie abitudini e feci bene.
Un ragazzo mi si avvicinò e mi offrì da bere, mi sorrise e Fabrizio, sorridendo di rimando, gli disse ‘è il mio fidanzato’. Lui ricambiò ancora una volta, spostò leggermente le spalle e si congedò.
-Vuoi fare un giro? –
–C’è altro? –
–C’è molto altro –
E andammo.
Camminando notai che, fino a quel momento, non avevo fatto per nulla caso alla musica e questo fu strano, perché è sempre stata la prima cosa cui ho prestato attenzione entrando in un club. Pongo attenzione alla musica anche quando entro nei bar, nei ristoranti. In una casa, eventualmente.
La musica era bella. Era bellissima.
Spostai lo sguardo a cercare il dj e mi accorsi di non riuscire a scovarlo. Non lo vidi mai, nonostante da qualche parte doveva pur essere.
È una cosa buffa, perché nella costola del club più famoso del mondo, non si da importanza alla presenza fisica del dj. Certo, la musica è presente, eccome, ma è il dj che manca, è nascosto. È secondario.
Forse sono io che non l’ho notato, non lo posso sapere con certezza.
Mentre camminavamo notai che un ragazzo si stava masturbando sdraiato in una vasca da bagno vuota. Indossava delle cuffie collegate ad un lettore mp3. Altri uomini praticavano sesso orale, oppure anale, intorno a lui e ovunque.
Ci avvicinammo ai bagni. Le suole delle nostre scarpe si incollavano ad ogni passo al pavimento, trattenute dallo sperma. C’era fetore di popper e di seme e di sudore. Per arrivare ai bagni dovevamo attraversare un corridoio, letteralmente bloccato da un’altalena sessuale. Due ragazzi scopavano ed io e Fabrizio ci chinammo passando tra le loro gambe.
Entrai in uno dei piccoli scompartimenti ed urinai, guardai il muro davanti a me, sulle piastrelle avevano disegnato, con un pennarello indelebile, un uomo che reggeva, con entrambe le mani, il proprio enorme membro. Era un disegno molto bello.
Un altro ricordo che ho legato alla mia infanzia, probabilmente tra i dieci e dodici anni, risale alla prima volta che conobbi la masturbazione. Il mio amico Lino, più grande di cinque anni, chiese a me, a mio fratello ed altri due amichetti se volessimo andare con lui a vedere la cosa meravigliosa che aveva scoperto.
Ai tempi, al paese, stavano costruendo un tunnel nei pressi della stazione ferroviaria, poche centinaia di metri da casa nostra. I muratori lasciavano le ruspe, le betoniere e alcuni attrezzi, parcheggiati sul luogo di lavoro, quando finivano la giornata di fatiche.
Lino ci invitò ad entrare nel tunnel in costruzione, c’era un intenso odore di cemento, lo stesso che si sente nelle case quando sono in fase di costruzione. È un odore che detesto, mi mette tristezza. Un odore che mi bracca e m’imprigiona. Per molti anni della mia vita mi sono chiesto come i muratori potessero non soffrire a lavorare tutto il giorno in un posto come una casa in costruzione. Costruita da loro, oltretutto. Mi viene in mente una sensazione che non credo abbia un nome preciso: qualcosa che supera la malinconia. Che cade nel vuoto.
All’interno del tunnel c’erano anche delle feci umane e mi ricordo che le trovammo anche nelle fondamenta della casa che stavano costruendo per i miei nonni materni, quando li obbligarono a trasferirsi perché stavano lavorando proprio alla stazione qualche metro più avanti da dove eravamo noi, in quel preciso momento, insieme a Lino.
La stazione doveva nascere sopra la casa dei miei nonni ed è lì, ancora oggi. Sono i miei nonni che non ci sono più.
Lino ci portò nei pressi di una piccola ruspa, nascosta nel buio. Non riuscivo ad abituarmi all’oscurità, ma percepivo che il mio amico trafficava con il mezzo da lavoro. Pensai, per un momento, avesse scoperto come metterlo in moto. Ero terrorizzato dall’idea.
Invece si alzò e disse
-Andiamo –
–Dove? –
–Fuori, alla luce –
Restammo nascosti nel cantiere, però all’aperto, accovacciati a terra, dietro un muretto grezzo dal quale uscivano delle barre di ferro.
Lino ci fece vedere cosa ci aveva tenuto nascosto fino a quel momento: una rivista pornografica. Non ne avevo mai vista una, se non dal Paolo, il barbiere di mio padre e, di conseguenza, anche il mio. Mentre aspettavo il mio turno, sceglievo dei fumetti da leggere, e tra i vari Topolino, Tex, Dylan Dog, notavo che ce n’erano altri. Ritraevano in copertina scene di sesso disegnate molto bene. Sembravano quasi reali.
Quello che mi consegnò Lino era patinato e, soprattutto, le immagini non erano disegni, ma fotografie.
Lo sfogliai, con il cuore emozionato. Lo ricordo come se fosse ora, mi soffermai davanti ad una vignetta che recava la foto di un uomo che prendeva dal dietro una donna. Lui diceva a lei: “Sborro come una mitragliatrice”.
Lino ci chiese se avessimo voglia di masturbarci e noi ne avevamo molta, anche se non sapevamo come si facesse e allora Lino ce lo spiegò e noi ci masturbammo. Tutti insieme, nascosti in un cantiere in costruzione, nei pressi di una stazione, pochi metri da dove, fino a qualche anno prima, di domenica aiutavo mia nonna a preparare il pranzo. Mentre i treni fischiando arrivavano, facevano tremare le stoviglie, i quadri, i muri e se ne andavano. Ci masturbammo uno accanto all’altro, in cerchio, in quello che per noi era un nuovo gioco e, a pensarci adesso, lo era davvero. A tratti ridendo sguaiatamente e ad altri concentrandoci, alla fine venimmo, prima l’uno e poi l’altro. A turno, asciugandoci le mani sulle magliette altrui, e spintonandoci ridendo e urlando per non farci toccare.
Per me, dentro al Lab.Oratory, fu la stessa cosa, spostata solo di molti anni, ma con la stessa consapevolezza. Sembra strano, ma mi sentivo come se mi stessi masturbando per la prima volta, nonostante fosse l’ultima delle mie intenzioni. Era una cosa mentale, come la prima volta che si fa sesso; una questione di testa, senza fisico, perché quello sarebbe arrivato dopo, alla seconda, alla terza.
-Lo faresti mai? –
–No, mai. Ma qual è il limite del cosa si può fare e cosa no? –
–Il limite sta nelle decisioni e le decisioni stanno in tante cose –
Il fisico arriva quando c’è consapevolezza e poi abitudine e infine noia.
Guardare quegli sconosciuti penetrarsi fu, per me, come scoprire una cosa nuova del sesso, in qualche modo. Quindi c’era solo la testa, nient’altro. E andava bene così.
Fabrizio mi disse che forse quello non era il suo mondo, che era uno curioso, ma che c’erano cose che, anche per lui – oppure soprattutto per lui – erano troppo estreme. Allora io pensai a che cosa voleva dire: che cosa era estremo? Fare sesso in un locale, probabilmente con degli sconosciuti, imbottiti di ketamina e popper? Dove stava l’estremo, oppure in quale di quelle cose era collocata l’estremizzazione del fare sesso? Nel fatto che si fosse in molti e non nell’intimità di una stanza e di una coppia. Oppure nella banalità del fare sesso imbottiti di ketch e di mdma e di speed e di coca e di ghb?
Fabrizio mi chiese se volessi andare di sopra oppure di sotto.
Perché c’era un di sopra e un di sotto e io non lo sapevo.
-Di sotto –
–Ok –
Chissà perché, ma in tutta la mia vita, quando qualcuno mi ha chiesto se preferissi di sopra o di sotto, io ho quasi sempre scelto il di sotto di ogni cosa e di ogni proposta.
L’estremo di cui parlava risiedeva lì, in quella sorta di cantina ancora più buia del piano terra, illuminata debolmente da luci fredde, ricordo azzurrognole.
La cantina era uno stagno. Lo immagino e lo rivedo così. Uno stagno grigio di notte, nel centro di un canneto di cemento armato.
Quello che stava succedendo in quel luogo era molto di più di quello che conoscevo e di cui avevo sentito parlare. Era come scoprire l’enorme mostro che viveva nel fondale dello stagno.
C’erano due file di una decina di ragazzi che partivano da un angolo dello stanzone e arrivano all’altro, dove poi, se la memoria non m’inganna, erano posizionati i neon che illuminavano l’intera stanza. Sotto a ciascuno dei due neon c’era un ragazzo di spalle che si faceva penetrare da uno dei ragazzi in fila. Quelli dietro aspettavano il loro turno, composti, in coda come a Gardaland.
Questo per entrambe le file.
I due ragazzi si facevano penetrare per trenta, quaranta minuti, forse di più, e non si voltavano mai, con le mani e gli avambracci poggiati al muro che trasudava. Quando il ragazzo di turno terminava il suo lavoro, quello immediatamente dopo di lui in coda prendeva il suo posto e ricominciava da dove l’altro aveva finito. Il ragazzo al muro continuava a non voltarsi anche al cambio del partner.
Ciò che pensai fu: non si gira nemmeno a guardare chi lo sta penetrando, né in quanti stanno aspettando di farlo. Oppure non vuole sapere e non vuole vedere.
Chiesi a Fabrizio
-Lo faresti mai? –
–No, mai. Ma qual è il limite del cosa si può fare e cosa no? –
–Il limite sta nelle decisioni e le decisioni stanno in tante cose –
Quel posto, il Lab.Oratory del Berghain, era tutto lì: l’inferno per molti, il paradiso per altri. Io ho visto un limbo, qualcosa di talmente privato da riuscire ad essere sconosciuto anche dopo ore in cui lo stavo frequentando, sempre da spettatore nonostante facente parte di ogni suo processo.
Ed è questo che mi ha fatto pensare di non volerci tornare mai più e mai più ci tornerò. Non perché l’ho trovato disgustoso – non l’ho mai pensato – oppure perché ne ho avuto paura.
Semplicemente perché non ne avevo il diritto allora e non ne ho nemmeno oggi. Non avrò mai più il diritto di oltrepassare quella porta e spogliarmi di tutto, forse.
Non ne ho il diritto perché il Lab.Oratory è davvero un luogo sacro. Per loro lo è: per coloro che lo frequentano con assiduità, per i dj che ci suonano e restano nascosti nell’oscurità, per l’estremo a cui può arrivare il sesso e la penetrazione rituale e violenta del piano di sotto, nell’olezzo del seme che si sperde nel buio e in un momento lungo una notte intera, in cui ogni cosa che il mondo ha deciso di regolamentare secondo determinati principi, viene definitivamente annullato.
Ci rivestimmo e pagammo l’ingresso, il guardaroba e ciò che avevamo bevuto. Uscimmo e Fabrizio mi propose di andare dall’altra parte, al Berghain/Panorama Bar. La coda era infinita, almeno tre ore di attesa.
La saltammo per intero, ci avvicinammo al bouncer ed esponemmo i nostri numeri.
Entrammo.
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