Dal dizionario della lingua italiana Treccani, giusto per fare qualcosa che non ha mai fatto nessuno, il termine profondità, in senso assoluto, è inteso come condizione di ciò che è profondo, il fatto d’avere la parte più bassa o più interna a notevole distanza dall’estremità superiore. In senso figurato s’intende, invece, come la parte più intima, più segreta di una persona, del suo carattere e della sua sensibilità.
Per la nostra nuova Playlist, abbiamo deciso di fare qualcosa di particolare, chiedendo al dj Mùsica Mata – nonché membro della nostra Redazione – se fosse stato in grado di definire la profondità attraverso delle canzoni.
È nata una selezione di un’ora di musica divisa in 17 tracce, che lui definisce un flusso di ricordi ricercati nella profondità del suo passato. In fondo, la musica spesso è proprio quest’associazione; un flusso e dei ricordi.
A quel punto avremmo potuto chiedere al suddetto di spiegarci, dettagliando canzone dopo canzone, la sua scelta, come sempre facciamo con le nostre playlist.
Invece abbiamo pensato di complicarci la vita coinvolgendo parte della Redazione di Yanez, affidando ogni traccia ad un collaboratore, in un modo del tutto democratico e non discriminante. Tipo così:
Gli abbiamo spiegato del podcast di Mùsica Mata, del focus sulla profondità nella musica e di cosa trattava tutta questa buffa faccenda. Quindi gli abbiamo chiesto di dirci se la canzone che gli era stata affidata poteva essere una buona scelta, ovviamente senza fargli ascoltare il podcast. Infine, siccome non eravamo ancora soddisfatti, gli abbiamo anche chiesto di darci una loro definizione di profondità.
Ognuno di loro lo ha fatto a suo modo: chi ricordando, chi ragionando, chi con una poesia, chi con un racconto, chi con un delirio, chi con la filosofia e chi con malinconia.
Qui c’è il Podcast e di seguito la tracklist con i commenti.
Divertitevi nel profondo.
Marvin Pontiac – Unbelievable (00.00)
Descrivere qualcosa senza attaccarsi alla sua parte fisica: impresa non da poco per un giornalista, o presunto tale, che tutto deve ricondurre al reale. Come parlare di profondità senza pensare alla Fossa delle Marianne, quasi 11mila metri sotto il livello del mare?
A un livello più astratto (ipermetafisico o catafratto, come direbbe un controverso poeta moderno), la profondità evoca per me grandezza ma anche ignoto. Mi spaventa, devo dire. Vuol dire conoscersi al 100%, con tutti i problemi che ne conseguono. Allo stesso modo, a un primo ascolto, l’intro di Marvin Pontiac – Unbelievable mi disorienta.
Premessa: sfortunatamente, forse perché ho soggiornato troppo poco a Berlino, spesso quando si parla di musica elettronica la profondità è quella del cazzo che ne capisco. Con il suo effetto straniante, questa voce metallica che continua a dirmi quanto sia incredibile (cosa, non si sa, forse “the beauty and the horror in this life”), la canzone si fa strada piano piano nella mia testa, scava dentro di me, e si conquista il suo posto.
Ascoltandola ad occhi chiusi, mi sento sull’orlo di un burrone per tutta la prima parte dell’intro, anzi forse all’interno di un canyon, ma con l’arrivo della “bellezza e dell’orrore” tiro un sospiro di sollievo: nuove domande nascono in me, ma adesso respiro, sono fuori dal loop dell’unbelievable.
Non so come sia il resto del podcast, ma l’intro mi gasa.
Gianluca Cedolin – autore
Steve Von Till – Remember (1.06)
Profondità: La capacità di aprire nuovi mondi e orizzonti al pensiero di una persona. Ancora meglio: la chiave che permette ad una qualsiasi persona (senza alcuna distinzione di x variabile socio-psico-estetico-economica-etc-puntini) di scoprire dentro di sé “stanze” di cui non conosceva l’esistenza.
“Remember” di Steve Von Till: è profonda nell’accezione più emotiva del termine… Ovvero: riesce a fare da chiave grazie allo stato in cui pone l’ascoltatore, non tanto per il messaggio del testo. È più una questione di come, rispetto al che cosa, di significante piuttosto che di significato. E profondo può essere anche il riferimento alle saghe nordiche, con tutta la mitologia legata al corvo e quindi alla conoscenza; è proprio il volo del corvo ad indurre alla profondità nella traccia: uno sbattere d’ali sempre più ravvicinato che dovrebbe indurre a maggiore consapevolezza, mentre voce e volo si allontanano in chiusura lasciando l’ascoltatore nello stato in cui è stato condotto. Commovente. Unica cosa: il lato emotivo funziona bene un po’ con tutti, purché ci siano le condizioni esterne favorevoli: niente cuffiette in metro, sarebbe dissociante.
Sandra Simonetti – autrice
Lydia Lunch & Cypress Grove – Rising Moon (4.19)
La profondità è qualcosa che sento alla bocca dello stomaco, una sensazione di scioglimento che mi prende quando penso di essere riuscito a capire qualcosa anche se so di non averla capita del tutto. Mi fermo a pensare e credo che in fondo sia bello così, che io mi fermi esattamente in quel punto di incertezza dove tutto sembra possibile. L’unica cosa che so è che nei miliardi di attimi di una vita, a distanza di anni mi ricorderò esattamente di quel momento davanti ad un panorama, tra le pagine di un libro o dentro la musica.
“Rising Moon” è riuscita quasi del tutto a farmi precipitare nella profondità dei miei pensieri. Quasi perché ho trovato insostenibile (e insopportabile) che fosse cantata: la sola traccia acustica sarebbe stata perfetta per accompagnarmi in una camminata solitaria in montagna al limite della notte. Peccato.
Ma d’altra parte credo anche che se ci fosse la perfezione assoluta non potrebbe esserci profondità.
Francesco Somigli – autore
Isobel & November – Big Black Crow (8.26)
Profondità è per me la capacità di entrare in contatto con pensieri ed emozioni andando oltre la prima apparenza. “Big Black Crow” ha un ritmo che sembra scavare la superficie e scendere dentro di noi. E quando entrano i toni caldi e bassi della voce Mùsica Mata conferma di aver centrato l’obiettivo fornendoci una colonna sonora perfetta per riflettere ed emozionarci.
Yuri Segalerba – fotografo
King Dude – Lucifer’s The Light Of The World (12.14)
Profondità. Mi viene in mente uno dei Trittici di Francis Bacon. Osservando l’opera di Bacon la profondità per me assume un carattere che non appartiene al mondo fisico, ma che si riassume nella profondità dell’oscurità dell’animo umano.
E sì, secondo me Mùsica Mata ci ha azzeccato con il brano, perché sempre secondo Francis Bacon “In order for the light to shine so brightly, the darkness must be present”.
Magda Richiusa – illustratrice
Emidio Clementi – I camerieri (14.42)
Profondità è l’inespresso, ciò che rimane dentro. Ma è anche il luogo stesso in cui nascondere ciò che non vogliamo che gli altri conoscano di noi, il sotterraneo buio dove risiede il non manifestato: un luogo oscuro, segreto e inaccessibile.
Mùsica Mata sceglie bene, a mio parere, non tanto per il testo de “I Camerieri”, quanto per la melodia del pezzo. In un crescendo di musica e suoni che sembrano arrivare da lontano, dal profondo, per poi farsi più vicini, e allontanarsi nuovamente, lentamente, nel profondo silenzio.
Francesco Gulina -illustratore e autore
Mark Lanegan – All Night Long (19.29)
Gordon Matta-Clark è stato un artista. E’ stato un pazzo visionario e quindi un artista. Nel 1976, poco tempo dopo la morte del fratello gemello Sebastian, gli viene chiesto di esporre alla Galleria parigina di Yvon Lambert. L’artista decide di scavare nel pavimento dentro la galleria, proseguendo per tutte le quattro settimane di durata dell’esibizione. Alla fine, crea un tunnel profondo venti metri, una tomba simbolica per il fratello, morto suicida dopo un volo nel vuoto dalla finestra dell’appartamento di Gordon.
Per me profondità è non smettere di scavare per giorni, per liberare uno spazio occupato in modo da gettarci dentro qualcosa a cui teniamo o che amiamo, ma che ci ha fatto del male, e non c’è più. E poi continuare a vivere.
Mark Lanegan , “All Night Long”, l’ascolto una volta, la prima. La voce di Lanegan proviene da un’altra dimensione, probabilmente. Da un luogo lontanissimo nel quale non sono mai stata, fatto di piccoli paesi che sono agglomerati di case lontane, di esseri umani piccoli nelle loro debolezze ma splendenti di forza nell’affrontare vite impossibili e secondarie. Da un’America esistita ed esistente.
La ascolto due volte, tre volte, molte volte e continua a colpirmi, questa voce così intensa, a tratti la più intensa che io abbia mai sentito. La base è un ritmo incalzante e ancestrale, dondolante, poi un assolo di chitarra entra al posto della voce, entra insieme alla voce che non c’è più ma è stata così segnante che continui a sentirla anche quando entra il silenzio.
Mi fa male il vuoto nella pancia, è la voce che l’ha creato, il vuoto, quando c’è e quando non c’è. E’ l’eco di parole che non ho interesse ad ascoltare e comprendere.
Il motivo per cui questa canzone sia stata scelta per rappresentare la profondità lo conosco ma non riesco a comprenderlo. Se ne sta lì, questo motivo, a galleggiarmi dentro senza mostrarsi, senza che io possa capirlo davvero, né tantomeno spiegarlo. So solo che c’è e che penso anche io lo stesso, qualsiasi cosa significhi e qualunque esso sia.
Daria Tombolelli – autrice
Leonard Coehn – Nevermind (23.29)
A yoga insegnano a scaricare l’energia al di fuori del proprio corpo. Distesi, lasciate che l’energia fluisca fuori dal corpo e si sprigioni al suolo. La sera prima di dormire, buttata sul letto a pancia all’aria, cerco di scaricare l’energia facendola defluire nel materasso, scivolare tra le doghe di legno, attraversare la struttura del letto Ikea. Sembra così pesante che pare portarsi dietro anche le lenzuola, il piumone e i cuscini. Intanto il sonno arriva e con lui, i ricordi. In un attimo mi ritrovo a ripercorrere il corridoio che conduce nel salone illuminato dall’albero di Natale della casa dei nonni, a leccare il sapore del sale che bagna la bocca dopo il primo bacio dato l’estate, a sentire la voce di tuo padre che ti chiama dalla finestra mentre ti nascondi in cortile.
Questa, per me, è la profondità. Non fisica, ma che ricorda in un certo modo la scena di Trainspotting, dove il protagonista, strafatto di eroina, collassa a terra e sembra sprofondare nel tappeto. Una profondità che avvolge a più strati, senza muoversi, senza percepire di esserci dentro. Una profondità da cui bisogna sforzarsi per uscire, oppure in cui ci si può abbandonare.
“Nevermind” questa profondità la crea, viene riflessa dalla sua voce. La voce che porta giù, in basso, nella terra. E che, se ci si sofferma ad ascoltare, potrebbe accompagnare negli strati più profondi. Sono le voci femminili che, forse, rendono un più leggera la canzone. Che comunque, di profondità avvolge.
Martina Hell – autrice
Marvin Pontiac – My bear to cross (28.01)
Cosa intendo per profondità.
Non posso non pensare al vuoto nero spalancato dentro di noi. All’abisso al cui richiamo non possiamo sottrarci e con cui non possiamo non confrontarci, se vogliamo dirci uomini.
È un abisso che va scoperto giorno per giorno, scavato con pazienza, esplorato con zelo.
E poi ci sono artisti, scrittori, pittori che l’abisso lo squarciano con un tratto di penna o di pennello e ne espongono le interiora azzurrine all’aria guasta del secolo.
Arrivano al dunque, anche per te che hai i pupi che frignano e i cazzi al lavoro, e vanno oltre finché trovano una piccola luce dove tu vedi solo nero e vuoto.
Questa canzone documenta l’inizio del cammino per raggiungere la profondità.
Se vogliamo coniugare profondità e blues mi viene in mente il John Lee Hooker di “Tupelo blues” o di “I cover the waterfront”, note che squarciano l’abisso, che ti dicono: tu sei questa polpa tremolante.
Con Marvin Pontiac stiamo un po’ al cucchiaino con cui iniziamo a grattare la terra, mi pare. Ma mi sbaglio io, che di musica non ci capisco niente. Marvin Pontiac non mi ha toccato dentro, non mi ha graffiato, non mi ha mostrato quelle profondità che non sapevo di custodire in me.
Forse perché non le ha scoperte nemmeno lui. Almeno non in “My bear to cross”.
Flavio Villani – autore
Dark Dark Dark – Daydreaming (30.17)
“La superficialità mi inquieta ma il profondo mi uccide.” Alda Merini.
Non essendo così drammatica riformulerei con: La superficialità mi annoia ma il profondo mi spaventa.
Benché sia l’immaginario più scontato, quello del mare per me si addice particolarmente. Alle domande del cazzo che ogni tanto ti fanno gli estranei senza tatto, o i ragazzini quando si è alle medie, “tu di cosa hai paura?” se rispondessi sinceramente risponderei “del mare”. L’idea dell’abisso, dell’immergersi svariati metri sotto senza sapere cosa c’è, senza sapere quando si arriva al fondo, nel buio, nel freddo, senza sapere se si riesce a risalire, davvero mi fa iperventilare. Ma onestamente anche dover immergermi di poco, sapendo che a breve incontrerò il fondale, non mi piace molto. Ciò nonostante lo faccio perché quando faccio il bagno al mare, una volta che ho nuotato, fatto il morto, fatto le capriole, che faccio? Mi immergo, poi magari il fondo non lo tocco, mi ci avvicino soltanto così sto più tranquilla, però è bello sapere che ci posso arrivare se voglio, è un sollievo poi riuscire a risalire. Insomma, la profondità per me é un posto in cui l’idea di andarci mi scoraggia/intimorisce, ma che poi quando ci sono mi piace, se non é eccessiva, per questo motivo ogni tanto forzo la resistenza iniziale e, anche se non ne avrei proprio voglia, ci vado perché la sensazione nel dopo ne vale la pena.
Per quanto riguarda la canzone non mi piace. Non è brutta, ma a me non dice molto. Tra l’altro ora che me lo sto contando in testa mi viene in mente questo al posto suo, non so perché. Provo ad articolare il perché non mi piace ed è perché l’associazione di idee profondità + bella voce + piano + colonna sonora di Grey’s Anatomy mi provoca fastidio. E musicalmente non mi suscita nessuna emozione.
Paola Moretti – autrice
Samuel Jackson – Black Snake Moan (35.02)
Abbracci da ubriachi
promesse per email
“sono femminista”
vestiti di marca
conversazione sull’arte
sgomberi
foto di neonati
occhiaie
particolari sulla propria vita sessuale
scaffale di libri intonsi
crocefisso sullo stipite
“prendiamoci un caffè”
il festival di
hashtag
regali di circostanza
“dal 2018 guerra all’accattonaggio”
nuovo bar vegan 1600 €/mese 32 metri quadri zona centro
anglicismi random
colloquio di lavoro
Accoglienza Rifugiati
E in questo gran bel temporale del cazzo capita a volte che arrivi un Samuel L. Jackson qualunque, un po’ Pulp Fiction e un po’ zio Tom, per farti dimenticare tutto ed è così PROFONDO che
(le mie amiche direbbero così)
fa tutto un giro e torna indietro
e torna sempre indietro.
Elena Cascio – autrice
Chelsea Wolfe – Dreamer (39.07)
Una volta, mentre lavoravo in un rifugio, un signore molto anziano varcò la soglia circondato da altre persone più giovani che lo sostenevano.
Il signore sorrise lentamente, e mi porse una tessera CAI consunta, che datava la sua iscrizione alla fine degli anni 30. Io sgranai gli occhi e lui mi disse che probabilmente quella era l’ultima volta che sarebbe stato in grado di arrivare al rifugio, per cui bisognava camminare all’incirca due ore dal punto più raggiungibile con la macchina.
“Quando ero giovane facevo la TransPelmo, correvo e mi fermavo sempre qui, mi ricordo che era tutto più piccolo, poi tornai dopo la guerra ma era stato tutto bruciato, e poi lo hanno ricostruito e ho ricominciato a venirci, ma non c’era questa colonna qui in mezzo, il salone era diverso, la cucina era a destra e la signora che c’era …” Mentre mi parlava i suoi occhi guardavano me ma c’era altro dentro, come se io fossi il paesaggio dei suoi anni passati, la ragazza di cui si era innamorato, l’amico sbruffone con cui faceva le gare, le pareti annerite dalla desolazione della guerra, il tornare con le speranze vulnerabili del dopo, e tutte le cose che succedono simili nelle esistenze di tutti, tutte diverse ma tutte uguali. Quando stava per finire la frase si interruppe, come se non potesse più parlare. In un sussurro, con lo sguardo in un punto indeterminato fra il soffitto e una decade x del ‘900, mormorò: “Quanti ricordi”. Io cominciai a lacrimare e dovetti nascondermi dietro la spina della birra.
Ecco, se apri il cassetto mentale “profondità” nel mio cervello ci trovi questo fotogramma, la vertigine del vecchio davanti al tempo, la sorpresa nel constatare il modo inesplicabile in cui gli aveva permesso di fare parte della trama del mondo, il tunnel di eventi che aveva scavato muovendocisi dentro, tipo i sentieri sotterranei dei lombrichi nella terra bagnata.
Chelsea Wolfe mi piace, ho ascoltato molto un suo album del 2011, che è parecchio più oscuro della canzone scelta da Mùsica Mata. Non so se si lega alla mia idea di profondità, però c’è qualcosa nel chitarrino e nella sua voce da fantasma gentile che mi ricorda che tutti speriamo in una vita perfetta in cui bersi i drink e amare incondizionatamente, ed invece facciamo casino e cambiamo direzione continuamente. Lo facciamo per sentire le cose che tutti hanno sentito e sentiranno dopo di noi, ogni volta un tunnel simile e diverso da quello di tutti gli altri lombrichi.
Viola Diana – autrice
Interpol – Say hello to the angel (43.41)
La profondità per me:
è sotto
è in basso
è pesante
è uno spillo
è buio
è silenzio
è vero
è nascosto
è atroce
è delicato
è tremore
è radice
è intestino
è torsione
è ripetizione
è continuità
è groviglio
è intriso di un liquido
è fisso
è carne
è pensarci e ripensarci
Questa canzone è profonda come un’adolescenza maschile, dove l’energia dilania e ricompone frammenti di un’identità cattiva e mutevole. La canzone è profonda come l’amore e l’odio provati insieme e a turno verso se stessi e verso l’altro. La canzone è profonda in quanto urgente. E in quanto repressa. C’è della tenerezza, ma è solo una copertura.
Shendi Veli – autrice
End of Green – Crossroads (48.04)
Un pugno dallo, nello, o allo stomaco senza aver mangiato le salsicce in scatola del discount. Cause: gli arrivederci a lungo termine, gli addii, gli abbandoni, i ricordi, soprattutto se lontani nel tempo. Quello che è stato, ci ha fatto bene e non sarà più. La paura è profonda, anche quando la superi, perchè hai paura che possa tornare. Non meno violenti e profondi, ma con sfogo diverso sull’espressione del viso sono gli incontri interessanti, o quelli che ci fanno ridere o quelli che ci fanno fare dei pensieri erotici. Incontrare una persona cara dopo tanto tempo è profondo, doppiamente. Una volta per il piacere dell’incontro e un’altra meno perchè se è un amico o tuo fratello cresce come fai tu, se è tuo padre invecchia.
La scelta è stata azzeccatissima, gli ingredienti ci sono tutti. Il protagonista si trova a scegliere tra diverse strade: una porta alla libertà, una al sacrificio, una al dolore, una al paradiso, anche se sembrano tutte uguali. Ha percorso tante strade e dalle strade sbagliate ha imparato più che da quelle giuste. Quindi non è di un’altra strada sbagliata che ha paura. Ha commesso un solo errore nella sua vita: lasciare lei/lui/loro. Anch’io sono stato in quell’incrocio anni fa. Ringraziavo le strade sbagliate. Credevo di aver commesso lo stesso errore. Adesso sono più indulgente con me stesso, forse perchè vedo con nostalgia quel ragazzo che non c’è più. Non li chiamo più errori, le chiamo scelte. Senza loro tutte, come avrei fatto ad arrivare qui?
Loris Rizzo – fotografo
King Woman – Burn (52.53)
La profondità è concatenata al sentimento e alla comprensione. Giace nella nostra intimità. Un occhio privo di filtro con cui guardare al mondo, che ci mostra tutto con chiarezza, senza farsi scrupoli. Uno slancio verso l’anima nel tentativo di toccarla, quando non è lei ad afferrare noi. La prossimità con lo spirito e il dialogo con esso. A volte il baratro. Altre la redenzione, la bellezza, il senso, il sogno.
Non è patrimonio di tutti.
Musica Matta ha fatto una buona scelta.
Esplode la rabbia, non solo attraverso le parole. Sento un grido d’aiuto. Muto, perché rivolto all’interno. Un dialogo spietatamente onesto con il proprio io. Quando lo spirito agonizzante ti afferra e ti implora di ascoltarlo. E tu non puoi ignorare. Dovrai salvarlo ancora una volta, che non sarà mai l’ultima. Hai compreso, adesso brucia e passa avanti. Dopo essere sceso nel profondo, torna in superficie. Non troverai una soluzione che duri per sempre.
L’immagine:
Immobile, non provo più a muovermi. Il corpo è involucro. Arida materia in eccesso. Il vuoto divora lo spazio lasciando il niente. Resto carne senza fede. Vuoto senza spirito.
L’oscurità pretende il mio posto. E ancora una volta la conduco al successo, senza preservare nulla di me. Fino a che le mie gambe non reggono più il corpo e cado, non riesco a muovermi, il buio è così intenso che oscura ogni cosa, e sento solo il dolore.
Io, peccatrice in attesa del giudizio. Sto morendo piena di inferno. Come sono sempre stata.
Dopo aver letto, brucia.
È l’amore che non riesco a tenere. Solo quando dormo. Solo nei miei sogni.
Dopo aver letto, brucia.
Serena Montera – autrice
Mazzy Star – Fade into you (56.45)
Ci sono due uomini seduti al bar, sono i soli due clienti. È quasi buio, non c’è più musica, da dietro il bancone l’ultima lampadina accesa illumina la polvere sugli scaffali di una luce svogliata e stanca. L’uomo seduto all’estremità ovest del bar porta un cappello che gli scende sulla fronte fino a quasi coprirgli gli occhi, la testa è distrattamente appoggiata al braccio destro, l’orecchio infossato nella mano. È impossibile capire se l’uomo stia dormendo oppure sia sveglio, ma c’è una cosa importante da sapere su di lui: ha una pistola nascosta nella giacca a cui manca un proiettile. L’uomo seduto all’estremità est del banco, invece, tiene una penna nella mano sinistra, mentre con la mano destra continua ad accarezzarsi i capelli biondi con un gesto automatico e nervoso. Davanti a sé tiene un blocco per gli appunti che è completamente bianco. La cosa importante da sapere su di lui è questa: conosce benissimo l’uomo seduto a ovest, ma questa notte non gli ha mai rivolto parola.
Ad un certo punto l’uomo dell’ovest si alza, lo fa improvvisamente, e il rumore della sedia che si sposta, nel silenzio del bar, frastuona. L’uomo dell’est rimane immobile, blocca a mezz’aria la mano che si stava portando automaticamente ai capelli biondo cenere. Una goccia di sudore gli cade dal sopracciglio, la fissa mentre precipita sul banco, riesce a sentire il suo Geronimo, a vedere la sua morte.
L’uomo dell’ovest fa per afferrare la pistola, ma mentre lo sta facendo un ricordo lo assale. È un ricordo straziante, che viene da lontano. Ha a che fare con una vita tranquilla, con dei piccoli passi nella stanza di sopra, con l’odore del pane. L’uomo dell’ovest abbassa la mano, sorride, inizia a camminare. Mentre passa vicino all’uomo dell’est, sussurra qualcosa. Un nome. L’uomo dell’est sa di essere salvo.
Ecco, se adesso vi dicessi che questa storia rappresenta la profondità, voi probabilmente vi incazzereste di brutto. A ragione. Quindi non ve lo dico. Anzi, vi dirò che questa storia rappresenta l’esatto opposto della profondità. È piena di dettagli insignificanti, riferimenti fumosi, informazioni mancanti, cose che sembrano importanti ma non lo sono. Un po’ come la nostra vita di tutti i giorni.
La profondità invece è essenziale, basilare. È semplicissima. Solo che noi siamo talmente abituati al superfluo, che quasi non riusciamo più a farne a meno. Lo vediamo ovunque, lo cerchiamo addirittura, creiamo sovrastrutture superflue sopra a strati di inutilità.
Se questa storia dovesse rappresentare la profondità, allora, farebbe più o meno così:
Ci sono due uomini.
“Fade into you” è una canzone semplice, basilare. Ci sono pochi accordi e pochi arrangiamenti che abbiamo sentito dalla prima volta in cui abbiamo acceso una radio. C’è un testo che parla di un rapporto sofferente e di sentimenti dolorosi, temi di cui abbiamo letto dalla prima volta in cui abbiamo aperto un libro. Ma attenzione. Semplice non vuol dire stupido, così come basilare non vuol dire banale. “Fade into you” è penetrante, va al semplice senza svuotarlo di significato e va alla base senza dimenticare le sfumature. Va giù fino al midollo e smuove emozioni strane, private ma allo stesso tempo anche appartenenti a tutti gli altri esseri umani, va dritta come un razzo a conficcarsi nei meandri del concetto di stomaco e ne fa uscire Grande Malinconia, uno dei più profondi ed universali stati di esistenza del nostro secolo.
Margherita Seppi – autrice
Pantera – Planet Caravan (1:00:53)
Profondità mi fa venire in mente la parola intimità. Un sentimento, o forse una sensazione, che va ben oltre lo spessore artistico e letterario di un testo o di un brano. Per quanto interessante e illuminante un’opera, secondo la mia modesta opinione, non è mai davvero profonda se non è anche intima. Proprio per questo, profondo è anche il momento in cui, sdraiata sul mio letto a fissare il soffitto, mi metto a pensare. E a soffrire.
La canzone che mi è capitata è Planet Caravan dei Pantera. Ammetto la mia ignoranza e confesso che, prima di questa sera, conoscevo solamente la versione originale dei Black Sabbath e non questa bellissima cover. A un primo ascolto, mi è venuto spontaneo fare un confronto con l’originale e, ovviamente, notare la mancanza della voce vibrante di Ozzy Osbourne. Riascoltandola una seconda volta invece, mi sono soffermata sulla canzone in sé, cercando di lasciare da parte quello che mi piace dell’originale e concentrandomi solo sui suoni e sul testo di questo pezzo. In un certo senso, ho cercato di applicare la definizione di profondità che ho scritto sopra prima di ascoltare il brano, quindi senza avere la minima idea di quale tipo di musica avrei incontrato dopo aver cliccato sul link inviatomi. Il mio personalissimo verdetto è che Planet Caravan è una canzone profonda, che rispetta il “canone” che avevo autodefinito per la categoria “profondità”. Il testo mi porta in luoghi lontani, nella mia mente sono nello spazio tra le stelle e gli anelli di Saturno, ma anche negli abissi dei buchi neri. Sù e giù, oscillo tra beatitudine e dolore, vedo la luce accecante del Sole, il bianco latte della luna e il buio pesto dello spazio. La melodia e il suono accompagnano perfettamente le parole, facendomi metaforicamente fluttuare sopra il letto dove sono sdraiata e quasi imponendomi di chiudere gli occhi per viaggiare nell’universo.
Mirea Cartabbia – autrice
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Immagine di copertina: un dettaglio di una foto di “Fabio Rodrigues Pozzebom /Agência Brasil” – wikicommons
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