Il dover scegliere, in tutti i campi, appare spesso una limitazione alla propria libertà e felicità. Penso per esempio alla città dove vivere: io sono tornato a Firenze, ma mi manca Berlino; in realtà sto prendendo in considerazione Milano, ma in fondo a Lisbona potrei sempre lavorare in remoto. La città obbliga ad un minimo di continuità, ma alla fine succede che la propria opzione perda il più delle volte il confronto con le altre. Si può confermare l’intuizione con una domanda: che connotazione emotiva accompagna la parola “scegliere”? Penso ai vantaggi o a quello che perdo?
La tesi del sociologo americano Barry Schawartz, in “The Paradox of Choiche”, è che la libertà di consumo di cui gode la civiltà occidentale ci ha resi più insoddisfatti, dato che a ogni scelta corrisponde il rammarico per le opzioni scartate. L’abbondanza di opzioni non sembra offrire più valore, ma creare insoddisfazione e paralisi anziché libertà. Il punto, secondo Schawartz, è che, se in linea di principio avere una vasta gamma di possibilità è un fatto positivo, superato un certo limite l’abbondanza di scelta può portare ad un effetto opposto.
Rispetto, per esempio, al luogo dove viviamo, la rivoluzione portata in Europa dalle compagnie di voli low-cost, le offerte di lavoro all’estero e/o in remoto, la globalizzazione in generale, hanno modificato radicalmente lo spettro di scelte rispetto alla generazione dei nostri genitori.
Schawartz, nella conferenza su TED, parla dei suoi corsi all’università e afferma che è costretto a dare ai suoi studenti meno lavoro da svolgere a casa, non perché siano diventati meno intelligenti, anzi, ma perché sono spronati a riflettere su nuove responsabilità. Non si tratta più di realizzarci all’interno di uno spettro di scelte, lavoro/famiglia/collettività, ma attraverso una messa in discussione della stessa necessità di scegliere. “Mi devo sposare o no?” si domandano gli studenti del sociologo americano.
Se chiedi un’opinione su questo cambiamento generazionale alle persone nate negli anni cinquanta e sessanta, la risposta si avvicina alla tesi di Schawartz. Sono contenti che, per esempio, possiamo fare esperienze in altre città e all’estero, che loro non immaginavano neanche, ma, in quanto genitori, sono anche sorpresi e preoccupati per la quantità di possibilità, e di responsabilità, che questa libertà comporta. Anche nel caso della città, più che un aumento di opportunità, sembra che si sia creato un nuovo tema, con il suo accessorio di dubbi e preoccupazioni.
Immaginando un altro campo in cui il ventaglio di occasioni è aumentato rispetto alla generazione precedente, viene da pensare sicuramente alle relazioni. Una tendenza in atto da alcuni decenni – la crescita della percezione dello spettro di scelta – si è intensificata vertiginosamente negli ultimi anni con l’avvento dell’internet dating. La psicanalista slovena Renata Salecl parla a questo proposito, nel suo libro “La tirannia della scelta”, dell’illusione di un eterno presente e disponibilità di oggetti ed esperienze. Domande fondamentali – è la ragazza giusta per me? Voglio costruire qualcosa con lui? – sembrano allora sempre più spesso trasformarsi nel rammarico per le “opzioni scartate” di cui parla Schawartz, portando ad uno stato di insoddisfazione continua che invade le stesse opportunità che le scelte offrirebbero.
Il tema della scelta nelle relazioni ci offre l’occasione di gettare uno sguardo su alcuni dei motivi profondi che accompagnano pensieri tanto ricorrenti. Vorrei fare un tentativo di capirli parlandovi di un’amica.
Anche lei vive a Firenze, si chiama Sara e ha trentuno anni come me. Sara è in difficoltà con il lavoro, perché, anche se ha già lavorato alcuni anni come avvocato – è molto intelligente e brava nell’analizzare nei dettagli le situazioni – non ha ancora trovato offerte d’impiego stabili. Quindi ora sta pensando di cambiare settore; come ammette lei stessa però, non ha le idee ancora abbastanza chiare. Sara, in realtà, è preoccupata soprattutto della sua vita relazionale. Ha sempre avuto storie brevi, al massimo di circa un anno e, fin dall’inizio della frequentazione, si insinua dentro di lei quello che Schawartz chiama, riprendendo i termini dell’acquisto consumistico, “il rammarico per le opzioni scartate”.
Mi ricordo di quando, più o meno un anno fa, ha cominciato a frequentarsi più seriamente con un ragazzo di Milano trasferitosi a Firenze, che aveva conosciuto sul lavoro e di cui mi stava parlando con interesse da qualche settimana; dopo qualche uscita la frequentazione con Andrea è diventata abituale. Per alcune settimane non mi ha più raccontato niente, poi, con mia sorpresa, mentre continuava a uscire con lui, ha iniziato a parlarmi di altri due suoi conoscenti che incontrava per amicizie in comune. Mi ha chiesto se, secondo me, avrebbe avuto speranze anche con loro. La relazione con Andrea ha resistito a questi principi di insoddisfazione, ma i suoi dubbi sono diventati molto più forti e continui quando, dopo circa tre mesi, le ha chiesto se si poteva definire, la loro, “una relazione”.
Per Sara non è stato facile, ma ha risposto di sì, che voleva stare con lui: Andrea, nonostante tutto, le piace davvero.
Come mi ha confessato in seguito, però, da quel momento si presenta con sempre maggiore frequenza il pensiero che sta perdendo delle occasioni; ci riflette da sola a lungo e me ne parla quando mi incontra, fornendomi resoconti dettagliati dei suoi sentimenti verso Andrea e della loro presunta incompatibilità. Le occasioni perse sono rappresentate dai due uomini che continua a incontrare ad aperitivi e serate, ma anche da quelle offerte dalle App di dating, con le quali altre sue amiche sembrano divertirsi molto.
In questi ultimi giorni mi ha detto che sta pensando seriamente di lasciare Andrea. Io le ho ricordato che ha vissuto altre situazioni simili, in cui la sua relazione del momento perde il confronto con altre immaginarie – a volte, ho dovuto dirle, decisamente poco probabili. Lei mi ha detto che lo sa, ma che è molto stanca del suo continuo rammaricarsi. Capisce che i suoi pensieri potrebbero non avere a che fare con Andrea e ha provato a opporre resistenza, a trovare altre vie d’uscita, ma non funziona. Andrea, in qualche modo, deve essere il responsabile, mi ha detto.
Attraverso l’esempio di Sara, riusciamo a intravedere alcune delle ragioni di quella propensione sociale verso l’insoddisfazione da scelta, per come è stata descritta da Schawartz?
Questo è quello che un amico potrebbe dire a Sara.
Da un parte non ti godi la relazione con Andrea, a prescindere da come andrà a finire. Presa dai tuoi pensieri, non sei mai veramente con lui, presente.
E poi, in questo modo non riesci neanche più a capire che cosa senti. Come dici anche tu, potresti lasciarlo perché non ne puoi più di questi confronti, ma io ti dico che, paradossalmente, potresti continuare soltanto come dimostrazione a te stessa di resistenza verso questi pensieri. Andrea però, in tutto questo, non c’è. Se ti lasci andare, non sarai imprigionata come pensi.
Tu sei lassù nel tuo mondo costruito da confronti irreali che non permettono a nessuno di salire. Pensare alle possibilità che non cogli, riflettere in maniera minuziosa sul fatto che Andrea sia o no la scelta giusta, non ti permette di capire davvero che cosa senti e che cosa siete. È solo il modo per allontanare ogni tuo coinvolgimento, per mantenere l’illusione del controllo sulla tua felicità; è vero, così ti metti al riparo, così non soffrirai troppo se sarà lui a decidere.
Ma sai anche tu che non c’è felicità piena senza il lasciarsi andare, senza correre il rischio del coinvolgimento, senza mettersi nelle mani del desiderio dell’altro. Quando ribadisci che non vuoi scegliere solo una possibilità fra tutte quelle che il mondo ti offre, in realtà stai solo dicendo che hai paura di desiderare.
Tu temi soprattutto di scoprire che una persona ti interessa veramente, ma anche che qualcosa non piaccia come avevi pensato. Ti sei disabituata alle emozioni, hai perso confidenza con loro, pensi che non reggeresti ad un nuova perdita. Ma, come per tutte le persone ansiose, la realtà ti farebbe in ogni caso meno male, ti toglierebbe della paura.
Quello che sembra venire fuori è una tendenza psicologica collettiva relativa al bisogno di controllo sulla propria vita, alla difficoltà di lasciarsi andare, di investire emotivamente nelle esperienze. Il richiamo allo spettro di possibilità, alle nostre inedite libertà, così come il confronto con le occasioni mancate, risulta il più delle volte il mascheramento della paura di perdere il controllo, la presa di distanza da un desiderio che ci espone ad un rischio. I meccanismi psicologici che si attivano ci impediscono un vero coinvolgimento e chiudono i canali delle scelte affini al nostro sentire.
Secondo la Salect e altri sociologi, fra cui Baumann, il totale controllo di sé, esercitato attraverso la scelta dei lavori, dei partner, del nostro destino, è il sogno impossibile della nostra epoca, imposto dall’ideologia del tardo capitalismo. Siamo così preoccupati per la scelta giusta, che si rimane imbrigliati nella tensione individuale, perdendo di vista le cause strutturali che varrebbe la pena combattere collettivamente.
In effetti sembra di percepire qualcosa di non nostro in questo continuo desiderio, per lo più insoddisfatto, di realizzazione autodiretta. Come se il rifiuto istintivo di considerare le dimensioni collettive come contesti di realizzazione dovesse essere imposto anche dall’esterno.
L’appello al diritto di approfittare delle inedite libertà, nonché il concetto stesso di felicità nei termini di numero di oggetti e esperienze acquisiti, sembra l’altra illusione funzionale a mascherare e a tenere in stallo, sfruttando il principio psicologico della rimozione, il cortocircuito tra paura della perdita e mancato coinvolgimento. Per mantenersi a distanza da un’emozione che non si vuole provare, per esempio la paura di perdere qualcosa su cui si è investito, una relazione, un lavoro, si fa leva su istanze autentiche, il cui senso viene però distorto senza che ce ne rendiamo conto.
Uno dei trucchi del capitalismo è quello di ricreare una società in cui l’individuo non critica il sistema perché troppo impegnato a criticare se stesso, a pensare che non è la scelta giusta. L’insoddisfazione prodotta si compensa poi con gli acquisti e, aggiungerei io, con la nostra sempre maggiore presenza online, dove si arricchisce di più chi ci offre precisamente ciò che cerchiamo, ciò che in realtà ci è imposto come modello di vita interiore: una distrazione dalle emozioni, una passività degli interessi, una dipendenza da soddisfazioni evanescenti, un coinvolgimento rapido e superficiale.
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