Paolo Cognetti è l’uomo della montagna. Sempre di più. Soprattutto dopo aver pubblicato Le Otto Montagne, per Einaudi.
Quando prendo la chiamata Skype lui è a Milano, però. Mi dice che a breve si trasferirà di nuovo sul suo monte. Mi dice anche che il cappello di lana che indosso è bello.
“Guarda che bel cappello che hai.”
“Grazie. A Berlino fa freddo.”
“Anche al chiuso? Come stai, cosa combini in Germania?”
Io sono stato allievo di Cognetti, molti anni fa. Al Circolo Culturale La Scighera, nel quartiere di Bovisa, a Milano. Sedevamo in cerchio, una volta la settimana, dietro dei tavoli grigi e davanti a delle brocche di vino, una delle particolarità delle sue lezioni, quest’ultima. A frequentare il suo laboratorio mi convinse il mio amico Alexio, un autore di programmi televisivi e pugile amatoriale, che scrisse, durante quel corso, una bella storia sulla boxe. A completare il trio, Alessandro Cattelan, quel Cattelan. Che però non produsse nulla. Ogni sera a fine lezione tornavamo a casa insieme, con lo stesso passante ferroviario, raccontandoci quello che avevamo scritto e parlando di quello che avevano scritto gli altri. Di quanti bicchieri di vino avevamo bevuto. Anche.
Io scrissi la storia di un nano che faceva il chirurgo e di una ragazza che non voleva più tenersi il braccio sinistro.
Cognetti bocciò quasi per intero il mio racconto.
Il resto dei partecipanti si divideva tra giovani e meno giovani. Casalinghe e studenti universitari. Alcuni talentuosi, altri per nulla. Come spesso accade.
“Sto bene. Ho avuto un figlio, ho aperto un café letterario e libreria, ho fondato un progetto culturale e una rivista on line, è lì che verrà pubblicata questa intervista.”
“Sono passati tanti anni.”
“Tanti tanti.”
“Ti verrò a trovare.”
“Sarebbe bello. Puoi venire a presentare il libro, quando lo traducono in tedesco.”
“Esatto, stavo pensando proprio a quello.”
“Vuoi parlarmi de Le otto montagne?”
Le otto Montagne
“Inizialmente mi è venuta l’idea di raccontare una cosa che in tanti hanno in comune, perché se ne sente spesso parlare, ma – non so perché – non esiste nella narrativa italiana. Ovvero parlare dell’educazione montanara. È la storia di un ragazzo di città portato da suo padre in montagna quando era bambino e di come l’uno trasmette all’altro i propri valori e la propria educazione. Una sorta di Lessico Famigliare ambientato sui monti. Oltre a questo avevo un grosso desiderio di raccontare un’amicizia maschile, un altro tema difficile, poco battuto dalla letteratura. Ci sono pochi esempi di grandi romanzi che narrano di due amici. È stata molto forte l’idea di questa montagna durante tutta la narrazione. Un’amicizia poco verbale. I due non si parlano molto, ma fanno delle cose insieme: lavorano, camminano, dividono questo paesaggio molto importante. La montagna fa parte del loro rapporto. Quindi, diciamo che l’idea della trama è quella del rapporto tra un padre e un figlio e poi, ad un certo punto, il padre scompare dalla storia e inizio a raccontare del rapporto fra questi due amici, da quando sono bambini fino a quando hanno quarant’anni. “
“Perché, quello dell’amicizia tra due uomini, è un tema difficile e poco battuto?”
“Intanto è difficile da affrontare non solo nella scrittura, ma anche nella vita. Ho le sensazione che i veri amici ce li portiamo dietro dall’adolescenza, quindi in un periodo in cui prendere una certa confidenza è semplice. È, invece, molto complicato costruire una relazione di vera intimità e confidenza con un altro maschio adulto.”
“È più semplice il tema dell’amore fra uomo e donna, per dire una banalità.”
“Sì, ci sono alcuni temi che, soprattutto in questi anni, sono molto frequenti. Come quello sulla paternità. Invece, il maschio adolescente in generale ha grandi crisi d’identità e questo si riflette spesso nella letteratura. Il tipo di maschio disorientato si riflette in quello poco raccontato dei libri.”
“Quali difficoltà hai riscontrato, nella stesura di questo libro? Magari anche rispetto ai tuoi libri precedenti.”
“Credo che la difficoltà maggiore sia stata affrontare la parte dell’infanzia. Quando i due amici si incontrano e si conoscono, hanno undici anni. Non ho trovato difficile descrivere i loro pensieri, perché, in fondo, io non mi ricordo di avere avuto pensieri tanto infantili all’epoca, quindi li ho trascritti semplicemente come se fossero quelli di una persona. Però i dialoghi sono stati complicati. Cosa si dicono due ragazzini? Che parole usano e come le usano? Il nostro rapporto adulto con il linguaggio è composto da moltissimi livelli di significato, ironia, sottintesi. È molto bello usare questi registri quando scrivi un dialogo fra persone adulte, ma non puoi farlo quando a dialogare sono due adolescenti. Ho avuto la sensazione che tutto si dovesse semplificare terribilmente e, dunque, non è stato facile scriverlo.
È stata una fase di difficoltà iniziale, le prime 40/50 pagine e poi, invece, mi è successa una cosa fantastica: ho sciolto la mano e il romanzo è partito. Gli altri due terzi della storia sono corsi via fluidi e in modo incredibilmente felice.”
“Come hai superato la difficoltà del linguaggio tra i due amici?”
“Ho semplificato molto il loro linguaggio. Si dicono esattamente quello che pensano, usano frasi molto brevi, non hanno ironia. L’ho asciugata. Soprattutto ho trascurato i dialoghi e gli ho fatto fare molte azioni. Quando sei così giovane è tutto un gioco; entrano nei ruderi, risalgono il torrente, esplorano i boschi. Tutte cose che poi rifaranno anche da adulti. Mi sono affidato di più ai loro gesti e alle cose che fanno insieme, piuttosto che ai dialoghi.”
Una montagna
“Quando ti trasferirai di nuovo in montagna?”
“Ho una baita in affitto in cui mi trasferisco in primavera e ci rimango fino all’autunno. Durante l’inverno faccio avanti e indietro, ma sto più a Milano.”
“Senti, che cosa significa per te la montagna?”
“Prima è venuta la vita. Voglio dire, da quando faccio questa vita, cioè otto anni, la montagna ha fatto irruzione in tante mie cose. Prima di tutto le letture; da grande consumatore di letteratura americana, mi sono ritrovato a riscoprire la letteratura italiana che avevo abbandonato durante la scuola. Ho rispolverato autori come Mario Rigoni Stern e altri di quel periodo. Semplificando, gli scrittori della Resistenza. Poi è arrivato il desiderio di scriverne. La mia vita in montagna è abbastanza solitaria, quindi scrivo o cammino. È una vita meditativa. Allo stesso tempo in questa solitudine si creano dei rapporti molto intensi. Le due amicizie che ho lì si basano su rapporti molto profondi. In definitiva, scrivendo Le otto Montagne avevo l’esigenza di raccontare questa cosa. La montagna come esemplificazione della vita di città da una parte, ma anche come raccoglimento, sfida, meditazione, lavoro su se stessi e rapporti più profondi.”
“Quando hai scoperto la montagna?”
“Per me è un po’ come per Pietro, il protagonista del romanzo, è una montagna d’infanzia. Sono stato portato in Valle d’Aosta immediatamente e ci sono stato dagli zero ai vent’anni. Ho lasciato la montagna per dieci anni. Un grande amore per la città è intervenuto: Milano e New York su tutte e, in seguito ad una classica crisi dei trent’anni, ci sono tornato. È stato un ritorno, non una scoperta. Anche se da piccolo ci andavo d’estate. Era una visione della montagna molto limitata. Ora ci vivo in stagioni diverse e quindi vedo situazioni differenti a cui prima non potevo accedere.”
“Quanto ha inciso nella tua carriera questa cosa dell’aver vissuto la montagna, averla persa e poi averla ripresa?”
“Molto. Ho scritto Ragazzo Selvatico che narra di questa cosa. È un libro che mi ha sorpreso molto; è uscito per un piccolo editore italiano, Terre di Mezzo, e avuto un piccolo successo insperato. Ha raggiunto delle belle cifre, ma soprattutto mi ha fatto raggiungere lettori che non avevo mai incontrato. Quelli che frequentano la montagna e capiscono bene il tipo di scelta. È stato il libro più tradotto all’estero, finora.”
La solitudine
“Parli di solitudine. In narrativa spesso la solitudine ha un valore molto importante. È una cosa che mi affascina.”
“Inizialmente il mio bisogno di montagna era dovuto anche al fatto che non stavo più riuscendo a scrivere. In parte a causa delle mie tante distrazioni e in parte perché ero circondato da relazioni. Poi l’invadenza dei mezzi di comunicazione mi aveva tolto la capacità di concentrarmi, di stare qualche ora sul pezzo, che è quello che occorre fare quando si legge o si scrive. Ero infastidito e deluso da me stesso, per il fatto che mi stavo perdendo delle cose importanti. Come la capacità di concentrarmi e scrivere.
È stato un bisogno di silenzio: vado in montagna, sto da solo, sto in silenzio, non ho il telefono, non ho internet. Non è facile, perché siamo abituati a vivere on line. Rinunciarci non è facile, ma dà i suoi frutti. È fastidioso non riuscire a concentrarsi anche soltanto per leggere. La montagna per me è questa cosa, ritrovare dei momenti che rimangono nascosti dietro il trambusto della vita di città.”
Il web
“Internet e i social network, quanto stanno incidendo sulla narrativa e sulla letteratura in generale. Credo che, oltre a togliere il tempo per compiere il gesto della lettura o della scrittura, ci sono molte altre cose che stiamo perdendo a causa del web. Che idea ti sei fatto rispetto a questo?”
“Sono stato da poco a New York, una città che conosco bene e che ricordavo come un luogo di lettori. Qualche anno fa ero impressionato da come, ogni volta che entravo su di un vagone della metropolitana, trovavo più della metà dei passeggeri intenti a leggere un libro. Ora sono tutti con lo smartphone in mano. Mi sono fatto anche una domanda: com’era la letteratura nella mia adolescenza? Era la solitudine e la noia, c’era un tempo vuoto da riempire e c’erano i libri in cui cercare compagnia, risposte, divertimento. Per me, e per tanti come me, credo sia stato questo. Se ora la risposta non arriva più da quello, ma da altrove, significa minare l’esperienza della lettura alla base. Mi sembra pericoloso per i ragazzi di oggi.
“Ti sei anche domandato dove andremo a finire se continua questo andazzo?”
“Beh, mi sembra che la crisi del libro sia abbastanza conclamata. Una volta vedevo l’ebook come una possibilità. Mi dicevo Chissene frega se abbandoniamo il libro di carta, l’importante è che rimanga viva l’esperienza della scrittura e della lettura. Ora sembra che l’ebook non funzioni, perché le persone hanno voglia di mantenere separate l’esperienza della lettura di un libro dall’uso di un computer o un device di qualsiasi tipo. Quindi questo amore per la carta mi consola. Però più che una previsione o un pensiero mio, sono i numeri che occorre tenere d’occhio.”
“Che non sono molto buoni.”
“In Italia vanno sempre peggio.”
Sentieri
“Sono certo di non essere il primo a farti questa domanda e sono altrettanto certo che non sarò l’ultimo: tu sei passato dall’essere tra le punte di diamante degli autori italiani pubblicati da una casa editrice indipendente, Minimum Fax, all’essere il nuovo fenomeno di Einaudi, che è una major. Diverse delle persone che conosco hanno storto un poco il naso, quando hanno visto per cosa era uscito Le Otto Montagne. Cosa c’è dietro questa decisione?”
“Ci sono stati due motivi egualmente importanti. Il primo: c’è stata una crisi interna a Minimum Fax. Alcune persone alle quali ero molto legato se ne sono andate. A me è sembrato giusto andare con quelli che lasciavano. Il secondo motivo è molto semplice: dopo dodici anni che pubblico libri e a quasi quarant’anni di età, ho iniziato a sentire il forte bisogno di vivere della mia scrittura. Non voglio arricchirmi, mi basta riuscire a fare la spesa con le cose che scrivo. Quindi, questa è la parte della risposta che mi fa reagire con rabbia a quelli che mi dicono Tu stavi a Minimum Fax e te ne sei andato ad Einaudi, perché, prima di tutto, bisognerebbe rispettare l’idea di uno che cerca di campare. La mia vita è cambiata radicalmente negli ultimi due anni, per la prima volta riesco davvero a vivere di quello che scrivo. Questa per me è una cosa importante, e bella, conquistata con anni di lavoro e mi è stata possibile conquistarla solo tramite un grande editore. In ultimo, ho cercato di scegliere quello che, tra i grandi, avesse la qualità maggiore e il rispetto adeguato nei confronti degli scrittori italiani. Einaudi fa un buon lavoro sugli italiani della mia generazione.”
“Immagino tu avessi ricevuto anche altre proposte di grandi case editrici.”
“Diciamo che dopo Sofia si veste sempre di nero potevo decidere quello che volevo. Mettiamola così.”
Paolo
“È molto banale, ma mi piacerebbe sapere come hai iniziato a scrivere. Più precisamente vorrei sapere se c’è stato un momento preciso in cui ti sei detto Io voglio scrivere ed essere scrittore.”
“Tutto è iniziato in un modo decisamente classico: con una delusione d’amore. Un libro che per me era stato importante, in quel periodo, era Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enrico Brizzi, che narra di un ragazzo – come lo ero io allora – che s’innamora di una sua compagna di liceo e ci rimane secco. Quella è stata la mia prima esperienza forte di lettura di un romanzo, da quel momento non ho più smesso. Ho iniziato ad appassionarmi di letteratura americana, leggevo Bukowski e i libri della Beat Generation. Poi è arrivata la scoperta di Raymond Carver e l’amore per i racconti brevi. Non mi sono più fermato. Insomma, è iniziato tutto con Jack Frusciante, l’adolescenza, i primi amori e le ragazze.”
“Quando hai fatto il salto, decidendo di voler provare a pubblicare?”
“Beh, io scrivevo racconti, quindi non è stato il passaggio di chi scrive il suo primo romanzo. Mi sono accorto che i racconti che avevo scritto piacevano ad alcune persone il cui parere era importante; i miei insegnanti alla scuola di cinema, per esempio. Quindi non solo ad amici e parenti. Ne ho raccolti cinque o sei e sono andato a Roma a portarli a Minimum Fax che, all’epoca, era il mio editore di riferimento. Sono stati accettati subito. Come esordiente non ho avuto uno di quei percorsi accidentati. Sono andato lì e mi hanno preso, semplicemente.”
“Ci hai provato solo con Minimum Fax e con loro hai pubblicato.”
“Sì, però sono andato di persona. Non ho mai creduto a questa cosa della busta da spedire.”
“Che cosa consigli di fare ad un esordiente, oltre che non spedire buste?”
“Intanto mi sono accorto che gli aspiranti scrittori non conoscono per niente l’ambiente editoriale. Si fanno un’idea sul mondo dell’editoria, credendolo tutto uguale. Conosco ragazzi che prendono i loro manoscritti, li imbustano e li spediscono a Mondadori e Einaudi. Non puoi fare così. Un passaggio fondamentale è conoscere la piccola editoria, capire cosa fanno e incontrarli di persona. Ci sono diverse fiere che raccolgo editori ai propri stand, i quali non aspettano altro di conoscere i propri lettori e allargare il proprio pubblico e il proprio catalogo. Non è una cosa difficile. È proprio da queste relazioni che, secondo me, nascono le possibilità. È improbabile che tu possa aspettarti che un editore che vede in te un perfetto sconosciuto, legga il tuo romanzo – anche se lo dovrebbe fare perché è il suo mestiere. Il tuo nome non gli dice nulla. È una via difficile. Lo vedo su di me, nella mia esperienza personale, perché tante persone mi mandano cose da leggere; se io le ho conosciute, le ho viste in faccia, le ho sentite nominare o cose del genere, allora sono più disposto a leggere quello che mi stanno mandando. Bisogna anche mettersi nei panni di chi deve leggerle. Mi sembra brutale andare da un editore e pretendere che quello legga il tuo romanzo. Bisogna fare un lavoro più graduale, soprattutto all’inizio.”
“Senti, stai scrivendo ora?”
“Sì, io ho due filoni. Mi divido, in qualche modo, a metà. Il Paolo che scrive romanzi o racconti e il Paolo che fa saggistica. È qualcosa più rivolto al personal essay ed è quel tipo di scrittura a cui mi dedico tra una storia e l’altra. Mi sembra di non essere in grado di finire un racconto ed iniziarne immediatamente un altro, non sarebbe nemmeno giusto. Voglio dire, le cose che scriviamo – che siano romanzi oppure racconti – hanno bisogno di incubare, di prendersi il proprio tempo per nascere. Quindi in queste pause mi dedico ad altro. Scrivere di viaggi mi piace particolarmente. Vorrei scrivere qualcosa sulla montagna, ma non di narrativa.”
“È quello che stai pensando di fare ora?”
“Sì, sto pensando di andare in alcuni luoghi, battuti o citati da determinati scrittori e provare a raccontarli.”
“Oltre che alla Scuola Holden, stai ancora insegnando nei circoli?”
“No, mi sto dedicando solo a quello, per ora.”
“Le lezioni le strutturi allo stesso modo?”
“Sì. Lavoriamo sull’analisi di testi scritti dai ragazzi.”
“Quindi ci sono anche bottiglioni di vino a disposizione degli studenti?”
“Purtroppo alla Holden non posso farlo.”
E ride, ridiamo. Lui sotto quella barba biondiccia, incolta, da montanaro quale è.
Chiudo chiedendogli quanti di quelli che hanno frequentato i suoi corsi nei circoli, siano riusciti a pubblicare. Ne conta cinque o sei. È modesto dicendo che non crede che abbiano pubblicato grazie ai suoi corsi, però li hanno frequentati. Qualche cosa sarà valso. Dice.
Qualcosa sì.
Forse anche per me, penso, ricordando quando sedevo su un banco della grande sala del Circolo Scighera, davanti ad un bicchiere di vino, in mezzo a due improbabili compari di sventure: un pugile e uno showman.
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