Introduzione
Con l’espressione “economia sociale di mercato”, in tedesco Soziale Marktwirtschaft, si fa riferimento in senso ampio all’ordinamento socioeconomico della Germania attuale. Il “Contratto di Stato sull’unione sociale, economica e monetaria” tra la Germania Ovest e la Repubblica democratica tedesca (DDR) del 18 maggio 1990 (Staatsvertrag über die Währungs-, Wirtschafts- und Sozialunion) prevede infatti che l’economia sociale di mercato sia adottata formalmente dalle due Germanie come modello economico-politico comune (Art. 1, commi 3 e 4 dello Staatsvertrag). Successivamente, l’economia sociale di mercato, anche se l’espressione non compare esplicitamente nel Trattato di Maastricht, è diventata il sistema economico dell’Unione europea previsto dal Trattato di Lisbona del 2007.
In un senso più ristretto, invece, la formula “economia sociale di mercato” indica un fenomeno storico circoscritto, ossia l’assetto politico ed economico della Repubblica federale tedesca dal 1949 al 1966, che fu alla base delle riforme di successo che consentirono alla Germania di realizzare già negli anni Cinquanta il proprio miracolo economico (Wirtschaftswunder), durante il quale l’incremento annuale del PIL tedesco fu di circa il 9%.
I presupposti teorici, veri nuclei ispiratori delle politiche economiche tedesche del Secondo dopoguerra, sono da rintracciare però agli inizi degli anni Trenta, all’interno di quella che è la versione tedesca dell’ampia scuola del pensiero neoliberale di inizio Novecento e che è conosciuta con il nome di ordoliberalismo. Come riporta il Lexikon Soziale Marktwirtschaft (Dizionario dell’economia sociale di mercato) della Fondazione Adenauer (una delle istituzioni politiche più influenti nella Germania di oggi, nell’orbita politica del partito della CDU) “la politica economica della Repubblica federale tedesca fino agli anni 60 è inconcepibile senza le teorie ordoliberali”. Più in generale si può dire, come ha scritto recentemente Lorenzo Mesini sulla rivista Limes, che “nel corso della storia tedesca successiva al 1945 l’ordoliberalismo ha costituito non solo la principale corrente di pensiero politico ed economico nella Repubblica federale ma, insieme all’economia sociale di mercato, ha rappresentato il suo mito fondativo”. (Mesini, Limes 12/2018, p. 233)
Il più noto fra i padri fondatori dell’ordoliberalismo è Walter Eucken, dal 1927 professore di economia all’Università di Friburgo, dove fondò il Freiburger Ordo-Kreis, il circolo-ordo di Friburgo, intorno a cui poi si sviluppò l’omonima scuola di economia politica, la Freiburger Schule der Nationalökonomie. Di questa scuola facevano parte economisti, giuristi e studiosi come Hans Großmann-Doerth (1894-1944), Leonhard Miksch (1901-1950) e Franz Böhm (1895-1977), alcuni dei quali sarebbero diventati importanti politici.
L’artefice delle riforme economiche e monetarie del 20 giugno 1948 che riuscirono a coniugare idee ordoliberali ed economia sociale di mercato fu però Ludwig Erhard (1897-1977), per quattordici anni consecutivi, dal ‘49 al ‘63, ministro dell’economia della Repubblica Federale tedesca, sotto il cancellierato di Konrad Adenauer. Fu proprio il consigliere di Erhard, l’economista Alfred Müller-Armack (1901-1978) a coniare l’espressione “Soziale Marktwirtschaft”. Il più grande merito di Ludwig Erhard fu senz’altro quello di aver trasformato l’espressione di Müller-Armack in una formidabile formula politica, che riuscì ad andare incontro ai gusti e alle preferenze della popolazione. È lo stesso sito della Konrad-Adenauer-Stiftung a spiegare che collegare l’economia di mercato all’aggettivo “sociale” rappresentava un modo diverso di riferirsi al capitalismo: in questo modo si evitavano tutte le strumentalizzazioni contro il libero mercato che il sistema capitalistico si portava dietro da dopo la fine della Prima guerra mondiale.
Altrettanto importanti sono stati, però, anche il carisma e la figura di Ludwig Erhard. La sua enorme popolarità risiede nel fatto che nessun politico, prima e dopo di lui, si è mai impegnato così a fondo nel comunicare alla popolazione in maniera comprensibile, tramite discorsi, conferenze, incontri pubblici, il senso delle sue riforme. Non è un caso quindi che Erhard, l’uomo del “benessere per tutti” – come recita il titolo del suo libro del 1957, Wohlstand für Alle – sia entrato nella memoria collettiva della Germania come il “padre” del miracolo economico e sia in patria, di gran lunga, il politico più amato di tutti i tempi.
Per celebrare la sua figura e la sua opera, il 20 giugno 2018, in occasione dei 70 anni della riforma monetaria tedesca, è stato inaugurato a Fürth, città natale di Erhard, un grandioso centro culturale, il LEZ, Ludwig Erhard Zentrum, che offre, fra l’altro, una vastissima divulgazione dei concetti basilari dell’economia sociale di mercato. Pochi mesi prima, durante il suo discorso d’insediamento, il Ministro federale per l’economia e l’energia, il cristiano-democratico Peter Altmeier, aveva annunciato al Parlamento tedesco (Bundestag), l’intenzione di sostenere un nuovo “rinascimento” della Soziale Marktwirtschaft, dichiarando di volerne fare un “Exportartikel made in Germany”. Sarebbe tuttavia un errore dare per scontato il rapporto fra l’ordoliberalismo e i suoi padri “spirituali” e un’effettiva influenza della tradizione ordoliberale nelle politiche dei governi della Repubblica federale.
Nell’ambito dell’attuale dibattito sulla situazione economica e politica dell’Unione Europea, uno dei temi più interessanti riguarda proprio la questione di quanto l’ordoliberalismo sia “responsabile” della posizione che la Germania ha assunto, e che tuttora assume, nei confronti degli squilibri dell’Eurozona. In molti, soprattutto fra gli economisti non tedeschi, credono che la chiave per capire il comportamento tedesco nella crisi dell’euro stia proprio nell’analisi dell’opera di Walter Eucken.
Lorenzo Mesini, ad esempio, scrive su Limes che i principi ordoliberali, dopo avere trovato attuazione all’interno dei confini nazionali, si sono trasformati nel principale motore dell’integrazione economica europea, plasmandola fin dall’inizio secondo un insieme di vincoli e principi di governance funzionali agli interessi dell’economia nazionale tedesca. (Limes, 12/2018, p. 241). Altri studiosi, in maggioranza tedeschi, sostengono invece il contrario, e cioè che l’ordoliberalismo non spiega la posizione tedesca all’interno della crisi e che le sue teorie non prevalgono nelle politiche macroeconomiche della Germania.
Fra gli argomenti a sostegno della tesi di Mesini, vi è senza dubbio il tenace atteggiamento con cui il governo tedesco si rifiuta di accettare forme di condivisione del debito come gli Eurobond, i titoli di Stato europei che garantirebbero una maggiore spartizione dei rischi fra tutti i Paesi dell’area Euro. La riluttanza, inoltre, con cui la Germania ha partecipato alla nascita del Meccanismo europeo di stabilità (MES), l’istituzione creata nel 2012 per finanziare il credito dei Paesi colpiti dalla crisi (Grecia, Cipro, Portogallo, Irlanda e Spagna) ne sarebbe un’ulteriore prova.
Come prima, provvisoria, conclusione di questa introduzione, pare opportuno citare ciò che scrive Charles Wyplosz, economista del the Graduate Institute di Ginevra, in un articolo intitolato The euro and ordoliberalism:
I macroeconomisti tedeschi sono, nella stragrande maggioranza, ‘normali’ macroeconomisti, ma l’establishment politico, specialmente la Bundesbank, e i cittadini in generale, hanno adottato una versione originaria dell’ordoliberalismo, che è usata per proteggere i più stretti interessi della Germania. (C. Wyplosz, p. 146)
UNO
1. Le origini dell’economia sociale di mercato
Le nuove banconote necessarie alla riforma monetaria tedesca del 1948 nelle tre zone di occupazione delle forze alleate occidentali furono stampate negli Stati Uniti e trasportate poi in gran segreto in ventitremila cassette di legno a Francoforte (G. Schnabl, FAZ, 15.6.2018). Il 20 giugno 1948 ogni cittadino ricevette 40 marchi tedeschi (DM, Deutsche Mark), mentre a imprenditori e aziende andarono 60 DM per ogni lavoratore. Come racconta Gunther Schnabl, docente di politica economica all’Università di Lipsia, il 19 giugno molti negozi avevano le serrande abbassate ed esponevano cartelli con la scritta “merce esaurita” o “chiuso per malattia”. Dal 20 giugno gli scaffali dei negozi cominciarono invece, improvvisamente, a riempirsi di tutti i tipi di merce. La domanda balzò in pochi giorni a livelli precedenti la guerra, i prezzi furono liberalizzati e fu eliminato il blocco dei salari, così come furono introdotte misure contro i cartelli e le concentrazioni monopolistiche.
Affinché però si realizzasse la Währungsreform (la riforma monetaria) del 1948, che innegabilmente costituisce i fondamenti su cui si poté sviluppare l’economia sociale di mercato, dovette verificarsi, ricorda Schnabl, la concomitanza di tre condizioni: innanzitutto, il fatto che gli americani fossero convinti assertori dell’economia di mercato. Secondo, che Walter Eucken e i suoi collaboratori avessero già elaborato, durante gli anni dell’esilio “interno” alla dittatura nazista, i presupposti teorici per un ordinamento economico-sociale liberale. Terzo, l’aver trovato in Ludwig Erhard non solo un accanito difensore della libera economia di mercato, ma anche l’uomo che, nel biennio 1947-48, come direttore della “Commissione speciale per il credito e la moneta” (Sonderstelle Geld und Kredit) dell’Autorità economica della Bizone, poté preparare l’indispensabile riforma monetaria del giugno ’48.
Inizialmente, le cose furono difficili. Con l’introduzione del Deutsche Mark, il marco tedesco, il 93,5% delle monete e delle banconote dei vecchi marchi imperiali (Reichsmark) fu rimosso e questo causò la fine di molte piccole aziende, che non riuscirono a rimanere competitive (Schnabl). Il 12 novembre 1948 si arrivò perfino a uno sciopero generale – il più grande nella storia della Germania del dopoguerra – contro la politica di Erhard e la sua legge sull’abolizione del controllo dei prezzi, la Leitsätzegesetz, elaborata da Leonhard Miksch, allievo di Eucken.
Il merito più grande di Erhard, scrive Schnabl, fu proprio quello di avere saputo imporre, contro tutte le resistenze e gli ostacoli sociali, la liberalizzazione del mercato dei prezzi. Era soprattutto il mondo dell’industria, il Bundesverband der deutschen Industrie (la Confindustria tedesca), a criticare severamente la legge contro i cartelli e i monopoli. In soccorso di Erhard arrivò il neonato (1949) quotidiano liberale Frankfurter Allgemeine Zeitung, che sostenne fin da subito il nuovo corso politico e che divenne poi, nel corso del tempo, “un importante e autorevole centro di diffusione dell’ordoliberalismo nella società tedesca, al di fuori dei circoli politici e accademici”. (L. Mesini, Limes, 12/2018, p. 239)
Con il tempo le cose iniziarono a funzionare e in molti settori dell’economia trovarono applicazione i «principi costitutivi dell’ordinamento della concorrenza» (konstituierende Prinzipen der Wettbewerbsordnung) pensati da Walter Eucken e che compongono, insieme ai principi regolativi, l’intelaiatura concettuale dell’ordoliberalismo.
Per Eucken il presupposto fondamentale per il corretto ordinamento del mercato della concorrenza è la creazione di un sistema dei prezzi stabile ed efficiente. Scrive Eucken, nel suo libro postumo, I principi della politica economica (Grundsätze der Wirtschaftspolitik, 1952):
La cosa più importante è rendere efficace il meccanismo del sistema dei prezzi. Qualsiasi politica è destinata a fallire se non riesce in questo compito. È il punto strategico, centrale, dal quale dipende tutto ed è su questo che dobbiamo concentrare le nostre forze.
Da quest’assunto di capitale importanza, quasi un dogma, discendono i principi costitutivi dell’ordinamento concorrenziale dell’ordoliberalismo, che sono:
– primato della politica monetaria
– sistema dei prezzi stabile ed efficace (lotta all’inflazione)
– libero accesso ai mercati
– proprietà privata
– libertà contrattuale
– politica economica stabile
– il fondamentale principio di responsabilità, secondo il quale, con le parole di Eucken, “chi ha dei profitti, ha il dovere di garantire anche le perdite” (Wer den Nutzen hat, muss auch den Schaden tragen).
Al primato della politica monetaria (Eucken, 1952) è legata la creazione di una banca centrale indipendente, cui affidare il compito di garantire stabilità nel sistema dei prezzi, senza la quale, spiega ancora Eucken, non esiste libero mercato. Oggi questo principio è iscritto, fra gli altri, nell’articolo 127, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), dove si dice che “l’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali […] è il mantenimento della stabilità dei prezzi.” Il Sistema Europeo di Banche Centrali (SEBC) comprende non solo la Bce e le banche centrali dei paesi che hanno adottato l’euro (Eurosistema), ma anche le banche nazionali degli Stati membri dell’Unione Europea che non fanno parte della moneta comune.
L’altro aspetto fondamentale riguarda il ruolo centrale della massa monetaria per il controllo dei processi inflazionistici. Per gli economisti ordoliberali, infatti, l’inflazione è un fenomeno che nasce da un forte aumento della massa monetaria rispetto alla crescita reale dell’economia. A partire da ciò si comprende come mai la Germania abbia sempre aspramente criticato il Quantitative Easing (lett: alleggerimento quantitativo), lo strumento finanziario con cui il presidente della Bce Mario Draghi, nel marzo 2015, ha fatto partire un programma di acquisto definitivo di titoli del settore privato e pubblico a lungo termine da parte della Banca centrale europea, ampliando in questo modo la massa monetaria presente nel sistema e venendo in soccorso dei paesi europei in difficoltà.
Il 31 dicembre 2018, a distanza di quasi quattro anni dalla sua nascita, il programma di politica espansiva del Quantitative Easing, a meno di sorprese dell’ultim’ora, dovrebbe essersi concluso. Secondo il giornale economico-finanziario tedesco Handelsblatt, il volume delle operazioni di acquisto di titoli da parte della Banca centrale europea ammonta complessivamente a quasi 2600 miliardi di euro (Handelsblatt, 6 agosto 2018).
2. La responsabilità
La grande importanza del “principio di responsabilità” Haftungsprinzip, per il pensiero ordoliberale e per l’economia della Germania è stata ricordata recentemente dal Ministro dell’economia e dell’energia Peter Altmaier, che in un recente discorso ha dichiarato:
I futuri pericoli non vengono dall’intelligenza artificiale o dai computer quantici, bensì dal fatto che non c’è più nessuno oggi che sappia prendere la vita in mano e scommettere su un’idea di cui è convinto.
I giovani, secondo il Ministro, non sono più selbstständig, indipendenti, non vogliono più, né sanno, assumersi le responsabilità, e fra le complesse cause di una tale situazione, per Altmaier, vi sono anche gli eccessivi oneri sociali.
Secondo molti analisti, l’Unione economica e monetaria europea (UEM) è caratterizzata da una spaccatura fra due stili contrapposti: quello tedesco (o meglio, degli Stati del Nord Europa guidati dalla Germania), basato su regole e rigore, e quello, più flessibile e discrezionale, dei paesi meridionali, capeggiati storicamente da Francia e Italia. Le nazioni del Nord Europa temono che l’atteggiamento discrezionale dei paesi latini possa trasformarsi inesorabilmente in “opportunismo” e nella possibilità di adottare imprevidenti misure di spesa pubblica: per la Germania ciò significa minare alla radice il “principio di responsabilità” e, da ultimo, il sistema stesso della concorrenza.
In economia il problema è chiamato moral hazard, l’azzardo morale, la tentazione che spinge a adottare comportamenti rischiosi, i cui eventuali esiti negativi ricadono poi su altri operatori economici. Un esempio di moral hazard, secondo Berlino, sono proprio gli Eurobond, i titoli di Stato garantiti da tutti i paesi dell’Eurozona, che per la Germania darebbero solo il cattivo esempio, inducendo gli Stati membri ad attuare politiche espansive che avrebbero effetti negativi sull’inflazione.
Nell’aprile 2018 la proposta del presidente francese Macron di estendere le mansioni del Meccanismo europeo di stabilità (MES), il cosiddetto “Fondo salva-Stati”, alla Haftungsunion (l’unione dei trasferimenti e delle responsabilità che equivarrebbe a dotare l’Eurozona di un proprio bilancio), è stata accolta in Germania da un appello firmato da 154 professori universitari, schierati contro le proposte del premier transalpino. “Der Euro darf nicht in die Haftungsunion führen”, (l’Euro non deve condurci all’unione dei trasferimenti), è il titolo dell’articolo pubblicato il 21 maggio 2018 dal Frankfurter Allgemeine Zeitung, cui gli economisti tedeschi hanno affidato l’appello, reperibile online.
Fra i firmatari, i più influenti nomi dell’economia tedesca, come Hans-Werner Sinn e Gunther Schnabl, quest’ultimo fra i promotori dell’appello e da anni critico severo della politica monetaria, a suo dire troppo permissiva, della Banca centrale europea. La scelta di Mario Draghi (il cui incarico come presidente della Bce scadrà nell’autunno del 2019) di portare i tassi d’interesse al cosiddetto ‘limite inferiore zero’ (zero lower bound, ZLB), mette a rischio, secondo i firmatari dell’appello, l’ordine concorrenziale del mercato e costituisce una seria minaccia alla libertà.
3. La stabilità dei prezzi
Il compito di elaborare un programma concreto di progressiva realizzazione dell’Unione economica e monetaria fu affidato nel 1988 a un comitato di governatori delle banche centrali nazionali guidato da Jacques Delors, all’epoca Presidente della Commissione europea. Com’è noto, il processo si svolse in tre fasi, la prima delle quali fu la firma del Trattato di Maastricht il 7 febbraio del 1992 (Trattato sull’Unione Europea). Seguirono poi l’istituzione della Banca centrale europea, il 1° giugno 1998, e l’introduzione dell’euro come unica moneta del mercato comunitario, dal 1° gennaio 1999.
L’incedere della storia, con la caduta del muro di Berlino e la riunificazione tedesca del 3 ottobre 1990, accelerò il processo d’integrazione, sostenuto soprattutto dalla Francia: il presidente Mitterrand pensava all’integrazione europea a trazione francese come a un modo per riguadagnare l’influenza politico-economica smarrita. In molti erano dell’idea che far parte di un’istituzione comunitaria avrebbe permesso di tenere sotto controllo la Germania, che, con 17 milioni di cittadini in più, era all’improvviso diventata nettamente più popolosa di Francia e Regno Unito.
Inizialmente il progetto comunitario si scontrò con lo scetticismo di inglesi e tedeschi. La Germania, in una comunità monetaria, temeva soprattutto di perdere il controllo della leva della stabilità dei prezzi, rispetto a cui chiari riferimenti si trovano nell’ Art. 88 della «Grundgesetz», la Costituzione tedesca, così come nella Gesetz zur Förderung der Stabilität und des Wachstums der Wirtschaft, la legge sulla promozione della stabilità e della crescita dell’economia promulgata nel 1967.
Da alcuni documenti “riservati” pubblicati nel settembre 2010 da Spiegel, riguardanti i protocolli di un colloquio fra François Mitterrand e l’allora Ministro degli esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher, si comprende come il Presidente francese abbia legato, dal punto di vista diplomatico, l’appoggio all’unità tedesca con la nascita dell’Unione economica e monetaria europea. “Mitterrand non voleva sentir parlare di riunificazione tedesca senza un avanzamento deciso nel processo d’integrazione europea, e l’unico terreno disponibile era quello monetario”, dice l’ex consulente di Mitterrand e in seguito Ministro degli esteri francese Hubert Védrine. Il Presidente della Bundesbank dell’epoca, Karl-Otto Pöhl, fu anche più chiaro: “Probabilmente, senza l’unione tedesca non ci sarebbe stata nemmeno l’Unione monetaria europea“.
Il Cancelliere Helmut Kohl e il Ministro delle Finanze Theo Waigel – il quale dichiarò trionfalmente ai propri cittadini che il governo “stava portando il marco in Europa” – posero però le loro condizioni alla realizzazione dell’unione: la politica monetaria della futura Europa avrebbe dovuto avere il riferimento prioritario della stabilità del livello dei prezzi (Preisniveaustabilität). Da qui la necessità d’istituzioni indipendenti dalla politica, come la Banca centrale europea, in grado di attuare una strategia orientata alla stabilità, tenendo come modello la Bundesbank tedesca.
L’istituzione di un’inflazione controllata, dunque, che si aggirasse intorno al 2%, meglio ancora se all’1,8%, fu il punto di partenza assoluto. Un punto, come sottolinea Peter Praet, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, “perfettamente in linea con il primato della politica monetaria di Eucken”. La priorità di quest’obiettivo economico è saldamente ancorata, oltre che nei Trattati, nello statuto della Banca centrale europea.
4. La concorrenza
La “Legge contro le pratiche volte a limitare la concorrenza” (Gesetz gegen Wettbewerbsbeschränkungen GWB), approvata dal Parlamento tedesco il 3 luglio 1957, è la norma – oggi più volte emendata – più importante dell’attuale legislazione tedesca sulla concorrenza. Con la legge di stampo ordoliberale nacque anche la sua autorità di controllo, il potente «Bundeskartellamt» (BKartA), l’Autorità federale tedesca per la legislazione antitrust, che oggi opera in armonia con la Commissione europea contro ogni attività monopolistica e anticoncorrenziale.
Allo sviluppo della politica e del diritto in materia di concorrenza in Germania, e sostanzialmente in Europa, ha dato un importante contributo il giurista ed economista tedesco Franz Böhm (1895-1977), il cofondatore della Freiburger Schule. Böhm parte dal presupposto, formatosi nel corso di venti cruciali anni di esperienza passati fra la Repubblica di Weimar e il Nazismo, che la libera concorrenza, come base dell’economia di mercato, abbia bisogno di un ordinamento giuridico che la tuteli. Per gli ordoliberali lo Stato ha il compito di proteggere i cittadini dalla coercizione e dal potere di terzi, di garantire loro libertà, sicurezza e stabilità. Come scrive il sociologo ordoliberale Alexander Rüstow, lo Stato deve fissare le regole del gioco, essere arbitro severo, ma mai partecipare alla competizione, limitando gli interventi soltanto in presenza dei “fallimenti del mercato”.
Difficile dire cosa penserebbero Rüstow e Franz Böhm del modo in cui oggi quest’attenzione per l’aspetto concorrenziale e competitivo del mercato è interpretata dai Trattati europei, in particolare all’articolo 3, terzo comma, del Trattato sull’Unione europea, dove si dice che l’Unione “si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata, sulla stabilità dei prezzi e su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva”.
Qui non possiamo fare a meno di rilevare tutta la vaghezza e l’ambiguità di quest’ultima espressione. L’aggettivo “sociale” infatti non deve far pensare ingenuamente a politiche progressiste indirizzate al Welfare o alla ridistribuzione della ricchezza. Il termine “sociale” indica infatti che i rapporti di inclusione nella società sono affidati proprio ai meccanismi e alle logiche del mercato della concorrenza.
Come scrive giustamente l’economista Vladimiro Giacché, presidente del CER, Centro Europa Ricerche, all’interno di un’unione economica e monetaria dovrebbero prevalere le logiche della cooperazione e non quelle della competizione. Invece accade che i successi economici della Germania siano celebrati proprio all’interno dell’Eurozona, dove con il pretesto della forte competizione si è arrivati all’abbattimento delle protezioni sociali e alla generale deregulation dell’attività economica (Giacché, p. 29).
Già nel 2011 Sarah Wagenknecht, ideologa del partito Die Linke (La Sinistra) e cofondatrice di Aufstehen (“In piedi!”), la nuova organizzazione politica della sinistra tedesca nata il 4 settembre 2018, argomentava nel suo libro Freiheit statt Kapitalismus (Libertà invece di capitalismo), la tesi del “tradimento” dei valori propri del modello impersonato da Ludwig Erhard da parte degli odierni seguaci dell’economia sociale di mercato.
5. Neoliberali e ordoliberali
Nell’ambito del dibattito cui abbiamo prima accennato, vale a dire la riflessione sul punto di vista di coloro che credono che l’ordoliberalismo abbia a che fare con la crisi dell’Eurozona, ci sembra importante sottolineare quanto scrive Brigitte Young, professoressa di economia politica internazionale all’Università di Münster. L’economista austriaca, in un recente articolo intitolato Ordoliberalism as an ‘irritating German idea’ (Ordoliberalismo come un’irritante idea tedesca), afferma che i critici dell’ordoliberalismo dovrebbero almeno specificare a quale delle diverse correnti del pensiero neoliberale tedesco si riferiscono. L’intento dell’autrice, infatti, è quello di dimostrare che non esiste una teoria ordoliberale ‘pura’, riducibile a un’unica visione del mondo, ma numerose correnti, fra le quali la Scuola di Friburgo è la più conosciuta. Un altro obiettivo importante dell’articolo di Young è mostrare che le teorie ordoliberali hanno saputo compiere rilevanti trasformazioni negli anni dopo la Seconda guerra mondiale.
Accanto alla versione ‘dura’ della Scuola di Friburgo – cui appartenevano Walter Eucken, Franz Böhm, Hans Großmann-Doerth e Leonhard Miksch -, l’altra corrente dell’ordoliberalismo è stato il cosiddetto neoliberalismo sociologico elaborato dal filosofo, strenuo oppositore del regime nazista, Wilhelm Röpke (1899-1966) e dal sociologo Alexander Rüstow (1885-1963). Il loro pensiero risulta più realista e pragmatico rispetto alla rigida e sistematica teoria del purista Eucken. Anche l’economista Alfred Müller-Armack (1901-1978), l’ideatore dell’espressione Soziale Marktwirtschaft, è più vicino alle posizioni di Röpke e Rüstow che alla Scuola di Friburgo: nei suoi lavori, intessuti in profondità di tematiche sociali e religiose con riferimenti alla dottrina sociale cristiana, gli interventi statali svolgono un’importante funzione.
Come opportunamente evidenzia la Young, la maggior parte della critica, specialmente quella di provenienza anglosassone, ha colpevolmente sottovalutato la capacità di evoluzione e di rinnovamento che l’ordoliberalismo ha saputo dimostrare dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi. Nel suo libro Genealogie der Sozialen Marktwirtschaft, Alfred Müller-Armack scriveva:
L’economia sociale di mercato, per sua natura, non è affatto un sistema compiuto, non è una ricetta che, una volta preparata, va bene per tutti i tempi allo stesso modo. È un “ordinamento evolutivo” che, per realizzarsi in conformità del fondamentale principio della libertà, ha bisogno continuamente di porre attenzione ai cambiamenti e alle sfide che provengono dalla mutabilità dei tempi.
Negli anni Trenta, tutti questi economisti, sociologi e giuristi tedeschi erano alla ricerca di un nuovo modello liberale in grado di conciliare economia di mercato e libertà, dopo la crisi scoppiata nel 1929 con il crollo di Wall Street e l’avvento della dittatura nazista. Usavano definirsi neoliberali nel senso che ai loro tempi si dava a questa parola, per indicare cioè coloro che erano contrari sia al liberalismo classico laissez-faire (responsabile secondo loro delle degenerazioni del capitalismo) sia al dirigismo nazionalsocialista o alle forme di pianificazione del comunismo sovietico.
È strano, sottolinea Brigitte Young, che noi poi siamo arrivati ad associare il termine neoliberalismo alle politiche di privatizzazione, liberalizzazione e deregulation dei governi di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher degli anni Ottanta, che sono basate sulle teorie del nuovo neoliberalismo di Milton Friedman e della Scuola di Chicago, che è altra cosa rispetto al neoliberalismo degli anni Trenta. Sarà soltanto dal 1948, in occasione dell’uscita del primo numero della rivista accademica ORDO – Annuario per l’ordinamento dell’economia e della società (Jahrbuch für die Ordnung von Wirtschaft und Gesellschaft) fondata da Eucken e Böhm e pubblicata ancora oggi dalla prestigiosa casa editrice berlinese De Gruyter, che questi giuristi, economisti, politici, sociologi e filosofi saranno chiamati ordoliberali.
La parola neoliberalismo invece, secondo Röpke, fu coniata da Alexander Rüstow nell’agosto del 1938 (in occasione di una conferenza svoltasi a Parigi nota come il Walter Lippmann Colloquium) e presto divenne una sorta di contenitore in cui confluirono le diverse riforme del pensiero economico liberale del primo Novecento. Ciò che accomunava i neoliberali tedeschi era però l’interesse per i temi della legge e dell’ordine, ispirati alla tradizione protestante dell’etica del lavoro, che ha contribuito a sviluppare una razionalità dello Stato non utilitaristica, bensì fondata sul principio di sussidiarietà d’ispirazione cattolica. Tutto ciò costituirà per la Germania la cosiddetta Sonderweg, la via speciale che il Paese ha voluto e dovuto seguire per rialzarsi moralmente e materialmente dalle macerie del Terzo Reich.
6. La filosofia ordoliberale
Destinato fin da bambino a una vita di studi – il padre Rudolf Christoph Eucken vinse nel 1908 il premio Nobel per la letteratura – Walter Eucken si è occupato tutta la vita di sviluppare, collocandosi nel solco della tradizione filosofica kantiana, una fondazione concettuale dell’ordine economico: destinata cioè a studiare non tanto i meccanismi e le dinamiche dell’economia di mercato, bensì le condizioni di possibilità, trascendentali, del mercato (si utilizza l’aggettivo trascendentale, dopo Kant, per indicare le condizioni senza le quali qualcosa non è possibile che accada). A tutto questo Eucken diede il nome di Ordnung der Wirtschaft, ‘ordine dell’economia’ e per realizzare il progetto concepì la sua famosa Ordnungspolitik, l’ordinamento istituzionale della politica economica.
Qui c’è un importante aspetto da evidenziare e si tratta dell’interdipendenza dei sistemi che ordinano le diverse sfere (economica, politica e giuridica) in cui si articola l’esistenza sociale dell’uomo. L’osservanza dell’interrelazione delle varie dimensioni, in particolare di quelle economica e giuridica, doveva essere garantita dalla Ordnungspolitik, l’ordinamento politico-economico dello Stato. A tal fine è necessario, scrive Eucken, uno “Stato forte” che riesca ad astenersi dall’intervenire nei processi economici, ma che al contempo sia in grado di fornire alle regole del gioco (regole fatte per assicurare stabilità monetaria e concorrenza) una cornice giuridica e istituzionale.
I neoliberali tedeschi degli anni Trenta criticavano la separazione fra la sfera politica e quella economica. Invocare il primato della prima sulla seconda, così come facevano gli ordoliberali, non voleva dire che la dimensione politico-giuridica guidasse il mercato – che avrebbe significato dirigismo e interventismo economico – ma equivaleva a fare in modo che esso, il mercato, si evolvesse secondo un sistema giuridico di regole, all’interno di un ordo, di un ordine.
La ragione sta nel fatto che per gli ordoliberali il mercato non è un dato “naturale”, non si sviluppa da sé secondo libertà economica e giustizia. È impossibile per Eucken che in un mercato si realizzi spontaneamente un regime di stabilità monetaria e concorrenza perfetta, così come non troveremo mai mercati senza la presenza di monopoli e oligopoli. Come scrive ancora Lorenzo Mesini, ma in un articolo del settembre 2016 sulla rivista online Pandora, le leggi del mercato, per gli ordoliberali, sono un prodotto istituzionale, regolamentato, gestito e protetto da un ordine giuridico-economico.
La teoria ordinamentale elaborata da Walter Eucken e dalla scuola di Friburgo rappresenta, se così si può dire, la versione più radicale dell’ordoliberalismo. Quello che viene descritto nelle teorie della Scuola di Friburgo è un modello di economia di mercato teorico, esemplare, in cui vigono equilibrio di mercato e concorrenza perfetta. In questa situazione ideale gli attori del mercato, in virtù della concorrenza, sono frammentati e impotenti di fronte al meccanismo della formazione dei prezzi, del tutto incapaci di influenzare gli altri soggetti economici.
In questo modo, frammentando e decentralizzando il potere economico attraverso una ferrea regolamentazione del mercato della concorrenza, l’ordine istituzionale (Ordnungspolitik) concepito da Eucken si proteggeva contro la formazione di monopoli e oligopoli e poteva quindi affermare il sistema concorrenziale desiderato.
In una tale condizione, l’Ordungspolitik non ha nemmeno bisogno di ricorrere a politiche d’espansione o di stimolo della congiuntura, che sarebbero anzi dannose, per il semplice fatto che, in questa situazione ideale, non ci sono crisi o congiunture negative.
È nel richiamo a questa solida compattezza logica e concettuale dell’ordoliberalismo di Walter Eucken e della Scuola di Friburgo che dobbiamo identificare coloro che, in merito alla crisi che oggi colpisce l’Unione economica e monetaria, sostengono che la Germania, quando è in difficoltà con il suo PIL, si asserraglia nella roccaforte ordoliberale per coltivare i propri stretti interessi nazionali.
P.S. Gli ultimi dati tratti da un articolo di Spiegel Online del 15 gennaio 2019 dicono che l’economia tedesca nel 2018 ha rallentato la crescita, che registra infatti un aumento del PIL del 1,5%, in diminuzione rispetto al 2,2% dei due anni precedenti, anche se i dati sull’ultimo trimestre 2018 saranno disponibili solo a metà febbraio.
DUE
1. The battle of ideas
Brigitte Young definisce un mistero, ‘a puzzle‘, il modo in cui l’ordoliberalismo tedesco, da essere una scuola di pensiero economico abbondantemente dimenticata nel panorama internazionale, sia stato catapultato sotto le luci della ribalta della crisi del debito sovrano dell’Eurozona. (B. Young, p. 31)
Altrettanto innegabile, continua la Young, è il fatto che l’ordoliberalismo sia considerato, soprattutto fuori dalla Germania, “solamente in termini negativi e si porti dietro una cattiva reputazione”. In particolar modo, è Mark Blyth, uno scienziato politico britannico, con un suo libro del 2013 intitolato «Austerity: The History of a Dangerous Idea», ad associare le idee ordoliberali con il concetto di austerity. Secondo certe interpretazioni, l’ordoliberalismo è perfino antidemocratico e conduce a un costituzionalismo europeo di stampo autoritario. Simili dure critiche sono espresse nell’articolo “Germany’s iron cage” (la gabbia di ferro della Germania), contenuto nel numero di agosto 2015 di Le Monde diplomatique, in cui gli autori affermano che “la Germania ha adottato, dopo il 1945, il suo sistema sociale di mercato basato su regole economiche e separato dalla democrazia politica, conosciuto come ordoliberalismo”.
L’articolo di Brigitte Young fa parte di una raccolta di saggi pubblicata sotto forma di e-book dal VOX, il portale politico del CEPR di Londra (Centre for Economic Policy Research), risalente al novembre 2017 e intitolato “Ordoliberalism: a German oddity?” (“Ordoliberalismo: una stravaganza tedesca?”).
L’argomento principale del volume prosegue l’analisi avviata da Markus Brunnermeier, Harold James e Jean-Pierre Landau (un economista tedesco, uno storico inglese e un funzionario francese) in un libro uscito nel 2016 per la ‘Princeton University Press’ e intitolato significativamente The Euro and the Battle of Ideas. La battaglia delle idee si riferisce all’antagonismo fra i due approcci che caratterizzano la politica economica europea e internazionale: quello fondato sul rigido apparato di regole dell’ordoliberalismo tedesco e quello più keynesiano e pragmatico dell’economia anglosassone, cui si affiancano, in questo “scontro”, anche le economie dei paesi dell’Europa meridionale, più inclini alla gestione discrezionale della politica economica. I tre autori sostengono che i politici e gli economisti tedeschi sembrano vivere, rispetto alla concezione dei paesi latini e anglosassoni, in “un universo intellettuale parallelo”, in cui regnano solo “ordine e razionalità”. Questo idiosincratico approccio tedesco alla politica economica, come oramai sappiamo, si pone nel solco della tradizione ordoliberale inaugurata negli anni Trenta da Walter Eucken.
Una delle questioni più controverse nel dibattito politico-economico internazionale è sempre stato il costante surplus del saldo delle partite correnti della Germania – e questo già dai tempi dei primi incontri informali del G5 che si svolsero nei primi anni Settanta fra USA, Francia, Regno Unito, Germania e Giappone. Il saldo delle partite correnti costituisce una parte importante della bilancia dei pagamenti, che è il documento contabile che esprime la condizione debitoria o creditoria di un Paese nei confronti dell’estero. Nel 2017, il surplus tedesco delle partite correnti, spesso identificato con il saldo della bilancia dei pagamenti, è stato di circa 255 miliardi di euro, il più alto del mondo.
Una delle voci del conto delle partite correnti – le altre sono i redditi netti dall’estero e i trasferimenti – è rappresentata dalla bilancia commerciale, che registra la differenza fra le esportazioni e le importazioni di un Paese. Secondo i dati dello Statistisches Bundesamt (Ufficio federale di statistica), fra il 2009 e il 2012 l’avanzo della bilancia commerciale tedesca è passato da 138,7 a 193,2 miliardi di euro, proprio nel periodo in cui l’Europa, invece di iniziare a riprendersi dalla Grande recessione del 2007 come stavano facendo gli USA e le altre economie, sprofondava nella crisi.
È stato a partire dai primi anni Duemila, e soprattutto dall’estendersi della crisi europea del debito sovrano a quella generale dell’euro (2009-2011), che la Germania ha visto crescere il surplus delle partite correnti a livelli mai raggiunti prima, fino ad arrivare all’8,5% del PIL del 2016, cifra che è ben oltre la soglia del 6% prevista dalla Procedura per gli squilibri macroeconomici europei (European Macroeconomic Imbalances Procedures) introdotta nel 2011 nell’Unione Europea con la funzione di individuare e correggere eventuali squilibri macroeconomici dannosi – come ad esempio un elevato deficit delle partite correnti o una bolla immobiliare – che potrebbero influenzare negativamente la stabilità economica di un Paese o dell’intera zona euro. La procedura per gli squilibri economici nell’Eurozona stabilisce che il saldo delle partite correnti non può essere superiore al 6% o inferiore al 4% del PIL come media in tre anni. Una regola che, in questo caso, la Germania non rispetta.
Gli autori e curatori dell’e-book, gli economisti tedeschi Thorsten Beck e Hans-Helmut Kotz, ricordano che il coordinamento della politica economica internazionale diventa molto difficile quando le visioni del mondo divergono così a fondo, come nel caso di Germania e Stati Uniti. Quando però le differenze, gli equivoci e le incomprensioni si manifestano all’interno di un’unione monetaria, come nel caso di quella dell’euro, allora le cose si fanno molto complicate. Harold James, professore di storia e relazioni internazionali dell’Università di Princeton, parla del dibattito rules versus discretion per riferirsi al conflitto insanabile fra le due diverse filosofie economiche presenti nell’Unione europea, conflitto che replica lo stesso copione: la linea tedesca basata su regole e disciplina fiscale (con lo Stato che non s’immischia nei processi economici) e quella discrezionale dei Paesi meridionali rappresentati storicamente dalla Francia. “È Kant versus Macchiavelli”, scrive James (p. 26). Per i paesi latini, infatti, molte difficoltà economiche all’interno dell’unione monetaria sono interpretate come temporanei problemi di liquidità e quindi facilmente risolvibili con l’immissione di fondi e prestiti di denaro. Per la Germania, invece, la questione fondamentale è da sempre quella fiscale, dell’indebitamento e della necessità di evitare, attraverso i salvataggi finanziari, di dare cattivi esempi, che “incoraggerebbero inadeguati comportamenti tra gli altri attori economici”.
È evidente quindi che in questo momento la politica economica e monetaria della Germania abbia ripercussioni negative sui suoi partner commerciali, soprattutto quelli dell’Eurozona. Per i paesi in deficit, infatti, sarebbe necessario che Berlino aumentasse i propri investimenti privati e pubblici, così da far fluire un po’ di domanda dalla Germania anche nelle altre economie nazionali. Assorbendo invece molta della domanda interna dell’Eurozona, questa l’accusa dei critici, l’economia tedesca si sviluppa a scapito di quelle delle altre nazioni, che al contrario, con la domanda interna in picchiata e la perdita di competitività del proprio sistema produttivo, non crescono oramai da anni e vedono aumentare i disoccupati.
Economisti dell’ifo Instituts (Institut für Wirtschaftsforschung), il prestigioso istituto per la ricerca economica con sede a Monaco di Baviera, scrivono però che il surplus della bilancia dei pagamenti tedesca non deriva da un calo degli investimenti interni, bensì dall’aumento del risparmio accumulato da una popolazione che si prepara a diventare vecchia e che quindi rinuncia ad acquistare e investire per tenere i risparmi per il futuro. Anche per il settore pubblico risulta perfettamente razionale tagliare gli investimenti in regioni del Paese dove la popolazione sta scomparendo (Felbermayr, Fuest, Wollmershäuser, The German current-account surplus: Causes and consequences).
Attualmente la Germania non avrebbe nessun particolare interesse economico a ridurre il proprio avanzo delle partite correnti, ma le pressioni politiche su questo punto stanno crescendo e secondo gli autori dell’ifo vi sono alcune ragioni che inducono a pensare che il governo tedesco adotterà misure di riduzione del surplus della bilancia dei pagamenti, attraverso per esempio manovre di rilancio degli investimenti e dei consumi interni. Una delle ragioni riguarda il meccanismo di procedura sugli squilibri macroeconomici europei e la sua regola che il surplus delle partite correnti non deve superare il 6% del PIL: diventa poco credibile per la Germania chiedere agli altri paesi di osservare le regole fiscali, se lei è la prima a non rispettare il regolamento.
Per molti analisti critici, il grande saldo corrente positivo del settore estero della Germania continua ad alimentare gli squilibri macroeconomici globali e le tensioni che stanno mettendo a rischio la tenuta dell’Eurozona. L’economista Paul Krugman è arrivato perfino a scrivere nel suo blog sul New York Times del novembre 2013, che la Germania, con i suoi enormi surplus, “danneggia lo sviluppo e l’occupazione nel mondo intero” (https://krugman.blogs.nytimes.com/2013/11/01/the-harm-germany-does/).
Di nuovo, dobbiamo registrare una contrapposizione: il grande surplus commerciale tedesco è visto da molti come il segno di una “strategia mercantilistica all’opera”, mentre per la Germania è solo il frutto dell’alta competitività e della bontà del proprio settore produttivo, ovvero la conferma della vocazione mercantilistica di una nazione che ha fatto dell’export, come è stato scritto, “la vacca sacra” della sua politica economica.
2. Germania Exportmeister
Secondo alcune stime dell’Ifo Instituts pubblicate lo scorso 20 agosto da Spiegel Online, nel 2018 il saldo positivo del conto delle partite correnti della Repubblica federale tedesca ammonterà a 299 miliardi di dollari. Per la parte della bilancia commerciale, invece, il surplus del 2018 sarà di 265 miliardi di euro (7,7% del PIL), con il settore automobilistico, ovviamente, a farla da padrone. Dai dati dell’Ufficio statistico federale tedesco, l’avanzo commerciale di 244,4 miliardi di euro (7.9% del PIL) del 2017 ha confermato la tendenza alla crescita del surplus della bilancia commerciale tedesca che si verifica – con l’eccezione degli anni Novanta, quando con la riunificazione in corso la Germania sperimentò anni di deficit – sin dagli anni Cinquanta.
Ciò vuol dire che ogni anno la Germania esporta più merce di quella che importa (nel 2017 il valore dei prodotti tedeschi venduti nel mondo ha raggiunto quasi 1280 miliardi di euro) e questo non manca di provocare allarme fra gli economisti per gli squilibri che tale situazione può creare nella politica monetaria internazionale, dato che, ad esempio, se tutti fossero esportatori netti come la Germania, dovremmo commerciare con l’universo. Oggi sappiamo che il presidente americano Trump accusa Berlino di realizzare i suoi enormi avanzi commerciali a spese soprattutto dell’economia degli Stati Uniti, che al contrario, con quasi 450 miliardi di dollari, sono il Paese con il più alto deficit corrente del mondo.
Quest’atteggiamento della politica economica della Germania è stato definito “mercantilismo monetario”, che significa, per usare una formula sintetica dell’economista Sergio Cesaratto, professore ordinario all’Università di Siena, che Berlino è abituata a “voler vendere all’estero senza comprare” (Cesaratto, Sei lezioni di economia, p. 29). Questa strategia economica, spiega l’economista, implica un contesto di cambi fissi, come è stato fino al 1971 con gli accordi di Bretton Woods, dal 1978 al 1998 con lo SME (Sistema monetario europeo) e poi, dal 1° gennaio 1999, con l’euro (Cesaratto, Sei lezioni di economia, p. 240).
Il mercantilismo, come politica economica volta a favorire la creazione di un surplus della bilancia commerciale, non è un fenomeno esclusivamente tedesco, e soprattutto non è riconducibile all’ordoliberalismo. Tuttavia, come scrive Mesini, l’ordoliberalismo “ha sostenuto, se non favorito, una rinnovata e aggressiva forma di politica neo-mercantilista”. La presenza nella lingua tedesca della parola Exportweltmeister (campione mondiale di esportazioni, come se si trattasse di una gara di sport) rimanda a quella vocazione all’export che ha da sempre caratterizzato la politica economica tedesca e che oggi, in particolar modo dagli anni Duemila, stando alle parole di Hans Kundnani, ricercatore inglese presso la Chatham House di Londra, “è diventata un vero e proprio tratto dell’identità nazionale”.
Naturalmente, le origini di quest’approccio tedesco alla politica commerciale sono da ricercare nell’immediato secondo dopoguerra.
Nel 1951, nel pieno del conflitto coreano e della ripresa della domanda economica mondiale, il ministro dell’Economia tedesco Ludwig Erhard fece delle dichiarazioni che meglio di qualunque altra cosa fanno capire il tipo di atteggiamento che avrebbe assunto la Germania, come nazione democratica e liberale, dopo la catastrofica sconfitta della Seconda guerra mondiale. Vale la pena leggere le parole di Erhard, che qui riprendiamo da Cesaratto: “Una grande opportunità per il futuro delle esportazioni tedesche sta emergendo dalla situazione corrente. Segnatamente, se noi riusciamo attraverso la disciplina interna a mantenere stabile il livello dei prezzi in misura maggiore degli altri Paesi, le nostre esportazioni cresceranno nel lungo periodo e la nostra valuta diventerà più forte e vigorosa, sia internamente sia rispetto al dollaro” (Cesaratto, Sei lezioni di economia, p. 240). La disciplina interna si basava sul mantenimento “di un livello dei prezzi e dei salari relativamente basso”, come ebbe a specificare il Presidente Vocke della Bank deutscher Länder, quella che all’epoca era la Banca centrale tedesca.
In campo internazionale, dalla cosiddetta politica del «vincolo occidentale» (Westbindung) del cancelliere Adenauer, che ha visto prima l’ingresso della Germania nella Nato nel 1955 e poi la sua stabile integrazione nell’organizzazione atlantica, si è passati ad un aperto scontro economico-politico fra Berlino e Washington: prima le frizioni ai tempi della presidenza Obama, riguardo alle intercettazioni dei cellulari dei politici tedeschi, fra cui quello della Merkel. Oggi, le minacce via twitter di Trump di introdurre dazi commerciali del 20% sull’importazione di veicoli dall’area UE.
Nei confronti delle principali economie globali, in particolare Russia e Cina, la politica estera della Germania, prima con Gerhard Schröder ma poi dal 2005 anche con Angela Merkel, ha preso una direzione più realista, specie per quello che riguarda la questione dei diritti umani. Come noto, l’ex cancelliere Schröder è diventato, in seguito agli accordi stretti nel 2005 con l’amico Vladimir Putin, il presidente di Nord Stream, il consorzio controllato dalla russa Gazprom, che ha costruito e gestisce il gasdotto attraverso il quale il gas siberiano arriva direttamente a Greifswald, vicino a Berlino, facendo della Germania il principale distributore di gas russo in Europa. Oggi sappiamo dell’avanzato stato di costruzione in cui si trova Nord Stream 2, un secondo gasdotto che correrà parallelo al primo, sui fondali del Mar Baltico, per i 1230 chilometri che separano i terminali russo-tedeschi e che avrà la funzione di raddoppiare la capacità massima di trasporto di gas naturale da 55 a 110 miliardi di metri cubi. Per Usa, Ucraina e i Paesi baltici, scrive Michele Soldavini, “il super tubo russo-germanico serve a conficcare un cuneo sull’Oder-Neiße (la linea di confine fra Germania e Polonia), dividendo Nato e UE”. (Limes, 12/2018, p. 245)
Sempre con Schröder si sono intensificati i rapporti con la Repubblica popolare cinese, con la quale l’ex cancelliere all’inizio degli anni Duemila concluse importanti operazioni commerciali che permisero alle aziende tedesche di siglare in Cina numerosi contratti. I regolari incontri bilaterali annuali fra Cina e Germania, scrive Kundnani, hanno svelato affinità e somiglianze fra le due potenze economiche, in particolare in merito agli atteggiamenti nella politica macroeconomica globale, sempre più in contrasto con quelli degli Stati Uniti.
Al momento, come rivelano i dati ufficiali dell’Ufficio federale di statistica pubblicati il 26 ottobre 2018 e relativi al 2017, la Cina è il primo dei partner commerciali della Germania, con uno scambio complessivo di quasi 188 miliardi di euro. In questa speciale graduatoria interna alla bilancia commerciale tedesca, la Repubblica popolare ha superato Stati Uniti e Francia.
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Intanto, entro i propri confini nazionali, la Germania metteva in atto, con il secondo mandato di Gerhard Schröder (2002-2005), leader della SPD, la più importante riforma dello Stato sociale dal dopoguerra, conosciuta come Agenda 2010. Il pacchetto di riforme, che comprendeva anche la famosa Hartz IV (dal nome dell’ex consulente della Volkswagen, Peter Hartz), fu approvato nel 2003 e mirava, attraverso misure di riduzione del costo del lavoro e di flessibilità del mercato del lavoro, a svalutare internamente la propria competitività, in controtendenza con tutte le altre economie nazionali europee, dove invece il costo del lavoro aumentava. Statistiche contenute nell’ultimo numero del 2018 della rivista Limes ci dicono che fra il 1996 e il 2016 le retribuzioni dei lavoratori tedeschi sono cresciute annualmente solo dell’1,7%, a confronto del 3% della media Ocse. (Limes, 12/2018, p. 241)
Oggigiorno i numeri rivelano che la Repubblica federale tedesca, da essere il “malato d’Europa” degli anni Novanta, è diventata una delle prime economie del mondo. Il contributo delle esportazioni al Prodotto interno lordo tedesco (che ammonta a circa 3200 miliardi di euro, un quinto del PIL europeo) è passato dal 33% del 2000 al 47,3% del 2017 e il saldo negativo dell’1,7% della bilancia commerciale nel 2002 si è trasformato in un avanzo che nel 2018 è arrivato a superare i 265 miliardi di euro (Spiegel Online, 20.8.2018).
Per molti analisti la Germania è diventata una potenza commerciale globale, una nazione che persegue fini esclusivamente economici. Ciò significa che nei confronti degli altri paesi, la Repubblica federale non usa la forza militare, come sono portate invece a fare per esempio USA, Francia e Regno Unito, ma quella commerciale. All’interno dell’Unione monetaria europea, tale modello economico mercantilista ha finito per ampliare le asimmetrie fra centro e periferia. I maggiori squilibri si sono manifestati verso i paesi meridionali dell’Eurozona, ai quali la Germania, grazie alla propria forza, ha imposto “l’adozione della propria agenda”. (Kundnani, p. 103)
3. La crisi dell’euro
Nonostante anche banche tedesche come Deutsche Bank e Commerzbank – che avevano concesso crediti sub-prime molto rischiosi ai Paesi europei meridionali – fossero coinvolte nel terremoto finanziario dell’autunno 2008, per la Germania il crack di Lehman Brothers è stato la prova del fallimento del capitalismo anglosassone (Kundnani p. 85). L’abbattimento dei tassi d’interesse della Federal Reserve americana, portati a zero-bower-point, e altre misure volte a stimolare la domanda globale (la Fed ha abbassato i tassi già dal 2009 mentre la Bce ha aspettato il 2015 a farlo), sono state criticate dalla Repubblica federale tedesca, che in risposta alla crisi, vista come “frutto della crescita finanziata col credito”, nel 2009 ha introdotto in Costituzione il cosiddetto Schuldenbremsen, il “freno al debito”, la legge che ha imposto ai governi tedeschi fino al 2016 di ridurre il deficit strutturale di bilancio allo 0,35% del PIL.
Il dato ha la sua importanza perché, per rimanere alla recente attualità, il balletto delle cifre percentuali di 2 / 2,04 che si è svolto a dicembre scorso fra il governo italiano e la Commissione europea si riferisce al “deficit nominale” che, come sappiamo, in virtù del Trattato di Maastricht non deve superare il 3% del PIL. Quello che invece indica se il Paese stia perseguendo in realtà il pareggio di bilancio è il dato sul “deficit strutturale”, che tiene conto del ciclo economico e non considera le misure una tantum, come per esempio i condoni, che influiscono solo temporaneamente sul deficit.
L’irresponsabilità fiscale degli altri Stati membri dell’Eurozona è, secondo la Germania, la causa principale della crisi generale dell’euro scoppiata nel 2011 e tuttora in corso. Per tenere ancora in vita la moneta unica (così da assicurarsi tra l’altro i vantaggi per l’export di una valuta debole a livello internazionale), i governi guidati da Angela Merkel in questi anni sono dovuti scendere a compromessi, soprattutto rispetto a due principi guida dell’ordoliberalismo: la stabilità dei prezzi e, secondo il principio di responsabilità, l’opposizione a qualsiasi forma di trasferimenti fiscali all’interno dell’UE. In questo senso, bisogna infatti ricordare che Angela Merkel ha approvato nel 2010 lo stanziamento di 750 miliardi di euro per il salvataggio della Grecia e la creazione del Fondo europeo di stabilità finanziaria, che poi sarebbe diventato il Meccanismo europeo di stabilità (MES).
Quando il presidente della Bce Mario Draghi, sempre per preservare l’euro, nel settembre 2012 annunciò l’impiego della misura non convenzionale delle Omt, outright monetary transactions (operazioni di acquisto illimitato di titoli di Stato dei Paesi indebitati), dei 23 membri del consiglio direttivo della Banca centrale europea, l’unico che votò contro l’iniziativa di Draghi fu Jens Weidmann, il Presidente della Bundesbank.
In cambio della misura portata avanti da Draghi, Berlino ha imposto le sue rigide politiche ordoliberali di austerity, basate su regole e penalità, i cui effetti si sono concretizzati nel Fiscal Compact del 2012 e nell’introduzione in Costituzione della legge del pareggio di bilancio, che obbliga gli Stati a ridurre annualmente di un ventesimo il debito che eccede la soglia del 60% del PIL: una misura che è stata definita “surreale” e che implicherebbe leggi finanziarie da decine di miliardi di euro che metterebbero in ginocchio l’Italia e diversi altri paesi del Sud Europa. (Cesaratto, Chi non rispetta le regole? p. 79)
TRE
1. Il non-paper di Schäuble
Nell’aprile del 2010 i Paesi dell’Eurozona (leggi Germania e Francia) decisero di fondare il “Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria”, in tedesco Euro-Rettungsschirm (ombrello salva-euro), per tamponare l’emergenza dell’incombente pericolo di default della Grecia, ovvero l’impossibilità da parte di questo Paese di rispettare i termini dei pagamenti sul debito estero. Tra parentesi, ma la cosa è arcinota, si ricorda che “il salvataggio della Grecia” in realtà ha permesso alle banche creditrici, soprattutto francesi e tedesche, di evitare di trovarsi in grosse difficoltà, nel caso la Grecia non fosse riuscita a pagare i propri debiti.
Alla guida di quella che doveva essere un’istituzione solo temporanea, Angela Merkel chiamò l’economista tedesco Klaus Regling, il quale invece è ancora a capo dell’organismo finanziario che nel frattempo, in base agli accordi europei del 2012, ha cambiato nome e si è trasformato nel Meccanismo europeo di stabilità (MES), un fondo finanziario permanente da 500 miliardi di euro. Il fondo “salva-Stati”, questo è il nome con cui è conosciuto il MES, ha il compito di controllare il processo di adozione delle riforme richieste da Bruxelles, che sono la condizione necessaria per l’erogazione dei prestiti. È guidato da un Consiglio direttivo, noto come Eurogruppo, cui appartengono i 19 Ministri delle Finanze dell’Eurozona.
In occasione della sua ultima riunione con i membri dell’Eurogruppo che si è svolta nell’ottobre 2017, l’ex Ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, che lasciava le istituzioni europee per andare a ricoprire, dal 24 ottobre 2017, la carica di Presidente del Parlamento tedesco, ha distribuito un documento informale in cui descriveva, in una specie di testamento economico, la sua idea di come avrebbe dovuto svilupparsi l’economia europea. Il documento passerà alla storia come il non-paper di Schäuble, la cui proposta più importante riguardava le sorti del Meccanismo europeo di stabilità. La volontà di Schäuble, il falco dell’austerity, era quella di estendere le responsabilità del MES – un organo tecnico considerato meno politicizzato della Commissione europea – a quelle di Fondo monetario europeo cui affidare la gestione delle finanze degli Stati membri, imponendo il rispetto dei limiti al deficit e al debito. Ampliare in questo modo i poteri del MES, che ha sede in Lussemburgo, significa andare in rotta di collisione con gli obiettivi perseguiti dalla Commissione europea di Juncker a Bruxelles, che, come riportano i Trattati, ha fra le sue competenze anche quella di monitorare annualmente le politiche fiscali dei Paesi dell’eurozona. Competenze che la stessa Commissione ha delegato per sua decisione il 21 ottobre 2015 al Comitato consultivo europeo per le finanze pubbliche, l’European Fiscal Board (decisione della Commissione 2015/1937).
Tenendo conto che nel maggio 2019 ci saranno le elezioni per il nuovo Parlamento europeo, non sorprende più di tanto leggere le dichiarazioni del Vertice euro del 14 dicembre 2018, dove i capi di Stato e di governo dell’UE si sono accordati su una serie di “miniriforme”, una delle quali si ricollega proprio ai desiderata di Schäuble sulle sorti del MES.
Nel documento del Consiglio europeo (che si riunisce tre volte all’anno) si legge che il “Vertice euro approva tutti gli elementi della relazione dell’Eurogruppo ai leader sull’approfondimento dell’UEM. Questo pacchetto globale getta le basi per un significativo rafforzamento dell’UEM”.
Lo scritto è breve, una pagina, diviso in quattro punti. Fra i vari temi, il Consiglio invita l’Eurogruppo a fare progressi significativi entro la primavera 2019 riguardo al tema dell’unione bancaria e dell’Unione dei mercati dei capitali. Si tratta della questione di EDIS, sistema di assicurazione dei depositi a livello europeo, che la Germania ha avversato per anni. Il punto più importante è però il quarto, dove il Consiglio europeo incarica l’Eurogruppo di elaborare “uno strumento di bilancio per la convergenza e la competitività della zona euro”.
Le prime reazioni alla notizia le troviamo dopo pochi giorni nel blog «Primo piano» del giornale Il Sole 24 ORE (19 dicembre 2018), in cui l’autore, Vittorio Da Rold, scrive che “in questo modo il Consiglio ha rafforzato in modo ambiguo il potere del Meccanismo europeo di stabilità”, il ‘pompiere’ della zona euro”. Per cercare di comprendere il senso di enigmaticità cui allude Da Rold, vengono in mente le parole di Alessandro Somma, professore all’Università di Ferrara, che in merito al non-paper di Schäuble, in un articolo del 2017 sul sito di Micromega, spiegava come il Fondo monetario europeo si apprestava a diventare “il principale architetto della costruzione europea, sempre più plasmata dal principio per cui si concede solidarietà in cambio di finanze pubbliche sane”.
La Commissione europea continuerà ad avere la responsabilità del monitoraggio annuale dei bilanci degli Stati membri, ma sarà tenuta, d’ora in avanti, ad avere “incontri regolari” con il MES.
Conclusione
Un lungo scritto apologetico apparso il 9 luglio 2018 sul sito della Fondazione Konrad Adenauer pone ai propri lettori alcune domande: “Come dovrebbero reagire i partiti tradizionali a Trump, alla Brexit e al populismo politico-economico sempre più incalzante? Dovrebbero adattarsi allo stile dei populisti? Il protezionismo può essere una soluzione? O c’è bisogno di nuove concezioni istituzionali?”.
Il testo, pubblicato con il patrocinio dell’European Centre for International Political Economy (ECIPE) s’intitola Ordoliberale Antworten auf Trump, Brexit und Wirtschaftspopulismus (“Risposte ordoliberali a Trump, alla Brexit e al populismo economico”). Sostanzialmente si tratta della difesa, da parte della destra tedesca non nazionalista, dei valori dell’ordoliberalismo come alternativa all’avanzare imperante dei vari populismi, il cui elettorato in gran parte è composto da cittadini che in realtà, sostengono gli autori, condividono i principi e gli ideali (comunità, tradizione, sicurezza, protezione, proprietà privata, responsabilità) tipici della destra borghese e conservatrice. Il successo di Trump – così come quello dei vari movimenti populisti europei negli ultimi anni – secondo Nils Hesse, Matthias Bauer e Felix Karstens, autori dell’articolo, non si sarebbe verificato senza l’appoggio fondamentale degli elettori di destra.
Ciò che unisce questo elettorato, infatti, non sono tanto le preoccupazioni di ordine materiale o l’avversione verso il libero commercio internazionale o gli immigrati, quanto il forte disagio percepito in relazione alle trasformazioni globali in atto e alle dinamiche migratorie che fino ad oggi erano rimaste sconosciute. Gli stessi cittadini conservatori tedeschi non sono contrari alle logiche della globalizzazione, con i suoi flussi di merci, servizi e migranti. E nemmeno l’euroscetticismo è il tratto peculiare della loro identità, che si basa invece su di una sincera adesione ai valori inclusivi nazionali ed europei. La stessa Alternative für Deutschland (AfD) il partito populista tedesco con tendenze di estrema destra fondato nel febbraio 2013, spiega Mesini su Limes, pur mostrando aspetti euroscettici e illiberali, non ha alcuna intenzione di derogare alle regole e ai principi neoliberali che costituiscono l’affermazione “dei forti interessi geoeconomici tedeschi”.
La tesi dell’articolo, argomentata con statistiche, grafici e tabelle, è che una politica ispirata dai principi ordoliberali sia in grado di convincere gli elettori borghesi dalle opinioni liberal-conservatrici che hanno a cuore i principi della sussidiarietà, della responsabilità e dello Stato di diritto. Secondo gli autori, quindi, la ricetta è una sola: Mehr ORDO wagen (“Osare più ORDO”). Anche Oliver Landmann, dell’Università di Friburgo, pensa che i principi dell’ordoliberalismo possano aiutare l’Europa su molti fronti, fra cui quelli del libero mercato, delle riforme dell’Unione europea e delle politiche in materia d’immigrazione e di asilo.
L’economista tedesco avverte però che perfino le virtù ordoliberali potrebbero rivelarsi insufficienti a tenere in vita l’unione monetaria, qualora il quadro normativo europeo non porrà al centro la fondamentale questione della stabilità macroeconomica dell’Eurozona, nei singoli Stati ma soprattutto come aggregato. La poca attenzione verso la stabilità macroeconomica nell’area euro è stato l’errore più grande del design istituzionale dell’Eurozona (Landmann, p. 131).
Di nuovo, le narrazioni su ciò che è andato storto con l’euro, così come le proposte su quello che dovrebbe essere fatto per salvarlo, divergono radicalmente. Per i tedeschi, l’economia del proprio Paese è vista come la prova del successo a lungo termine della strategia ordoliberale basata su regole e sanzioni. Per Markus Brunnermeier e per molti altri economisti si tratta invece esattamente del contrario: il modello tedesco non costituisce tanto la soluzione, quanto il problema.
Forse ha ragione Harold James, il professore di Princeton, secondo cui i leader europei dovrebbero rivolgersi a uno psicologo, o a un consulente matrimoniale.
Bibliografia citata
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